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"La pace è donna il Nobel a tre africane", di Adriano Sofri

La gente di una certa età (di un´età certa) ricorda senz´altro quella geografia dei continenti attraverso l´età delle donne, che cominciava con l´Africa: “La donna a vent´anni è come l´Africa: semi-inesplorata”. (E poi, per esempio: “A 50 anni è come l´Europa: tutta una rovina”). Era una porcheria che passava per lo più inosservata, e lo fa ancora. L´idea che associava l´Africa a giovinezza e femminilità (comprese le espressioni più o meno inavvertitamente coloniali, “il continente vergine”) ha resistito, direi, ma va prendendo un ben altro senso. Così ieri il premio Nobel per la pace è andato a tre donne africane. Solo quindici giorni fa era morta a Nairobi Wangari Maathai, Nobel per la pace 2004, biologa e fondatrice del Green Belt Movement, impegnata soprattutto nella lotta contro la deforestazione. È come se donne, e africane, si passassero il testimone.
Tre donne africane: ce n´è abbastanza per sentire aria di correttezza politica. Vorrei appunto scrivere un elogio del comitato norvegese (cui è riservato il Nobel per la pace) e della correttezza politica. La quale è stucchevole, quando esagera. Succede.

Ma succede più spesso il contrario. Guardate la coincidenza fra il premio e la trovata su “Forza gnocca” – lo so, voleva essere una battuta di spirito, il che peggiora le cose. L´anno scorso il premio fu assegnato a Liu Xiaobo, militante di Tiananmen 1989, dissidente e detenuto, con una condanna a undici anni per sovversione intellettuale. Ci fu una sedia vuota, a Oslo, e Liu è ancora in cella, e sua moglie agli arresti. Fu iper-correttezza politica, anche quella? Ma la Norvegia, coi suoi neanche cinque milioni di abitanti, diventò ipso facto la bestia nera della Cina, che si adoperò a sollevarle contro il boicottaggio dei paesi a lei infeudati, inventò il suo premio Confucio (forse già affondato, proprio ora che aveva un candidato smagliante come Putin), e ancora, come ha appena riferito qui Giampaolo Visetti, si premura di tenere al bando il salmone norvegese.
Viva la correttezza politica, dunque, quando non è una maniera. Anche Ellen Johnson-Sirleaf, presidente della Liberia e prima presidente donna in Africa, ha conosciuto condanna, prigione – per due volte – ed esilio. Ha quattro figli e sei nipoti. La sua connazionale Leymah Gbowee ha 39 anni e sei figli, è avvocato e militante dei diritti civili, si è battuta contro le violenze alle donne e per il riscatto dei bambini soldati. In lei soprattutto, è evidente come delle donne abbiano segnato peculiarmente la lotta contro un´atroce guerra civile, per l´unità fra etnie e religioni diverse (lei è cristiana protestante) e la scelta della nonviolenza. Come recita il titolo della sua autobiografia, “la sorellanza, la preghiera e il sesso hanno cambiato una nazione in guerra”. Nel 2002 Gbowee sollevò l´attenzione internazionale promuovendo, con le sue “donne in bianco”, uno sciopero del sesso – come nella Lisistrata di Aristofane – finché fosse durata la “seconda” guerra civile (1999-2003), costata, a quel paese di nemmeno quattro milioni di abitanti, più di 200mila vittime. Si fece appello a tutte le mogli, comprese quelle del dittatore e dei suoi cortigiani, e alle prostitute, per le quali lo sciopero aveva un costo peculiare. Fu soprattutto una campagna simbolica, ma ebbe un´efficacia nella rivendicazione di negoziati di pace. Ci furono, soprattutto in Occidente, obiezioni: lo sciopero delle mogli era un modo di confermare la divisione dei ruoli fra gli uomini, incaricati del potere e della guerra, e le donne, titolari della camera da letto; e rischiava di far passare il sesso come un piacere esclusivamente maschile. La risposta delle attiviste liberiane fu che gli uomini hanno una fissazione peculiare per il sesso e per la guerra, e le donne sono più inclini alla pace e alla maternità: difficile da negare, nemmeno qui e oggi.
La yemenita Tawakul Karman, giornalista, vicina ai Fratelli musulmani, ha tre figli. Ha anche lei conosciuto la galera nel corso della ribellione popolare della Piazza del Cambiamento di Sanaa. La ribellione ha ricevuto un´attenzione minore rispetto ad altre della primavera araba, che già volge all´autunno, per l´immagine di confusione “tribale” associata al suo paese. Si è osservato che ha la stessa età, 32 anni, della dittatura di Saleh, dettaglio illuminante che vale per l´insieme di quelle intrepide ribellioni: poteri divenuti lunghissimi e dinastici, e giovani che appartengono a un altro mondo, e lo rivendicano. Il 44 per cento della popolazione liberiana e il 43 per cento della yemenita hanno meno di 14 anni!
Che la decisione norvegese risponda a un´intenzione politica è indubbio. Si sono scelte l´Africa, le donne, la primavera araba, il credito accordato a un Islam nonviolento e rispettoso ruolo femminile. Le critiche possono moltiplicarsi a piacere. In Liberia c´è una campagna presidenziale agli sgoccioli, e Sirleaf è in lizza per la rielezione. Le si addebita inoltre un passato prominente in istituzioni internazionali come la Banca Mondiale. Argomento dubbio, se non altro perché è dubbio che il mondo trovi una via di scampo, o almeno riduca i danni, senza che qualunque militanza civile e dal basso si proponga di arginare la prepotenza delle istituzioni internazionali e condizionarne la potenza. Quanto alla primavera araba, il comitato ha scommesso sul suo futuro, e ha puntato sulla ruota più azzardata, la piazza insanguinata di Sanaa. Tutto considerato, sono state premiate tre donne, e africane. Donne africane sono diventate protagoniste della lotta universale contro le mutilazioni genitali. Si può congratularsi con la correttezza politica. «Sono contenta per mille motivi, ed essenzialmente tre», ha detto Emma Bonino. Non è poco.

La Repubblica 08.10.11

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“Madri della rivoluzione”, di LUCIA ANNUNZIATA

Hanno vinto tre donne o, rispettivamente, il Presidente della Liberia, un’attivista dei diritti civili e una giornalista rivoluzionaria.

I premi alle donne anche quando sono importantissimi come il Nobel assegnato ieri alle tre protagoniste di cui parliamo, hanno sempre un sapore un po’ dolce-amaro. Dedicati con pompa magna all’altra metà del cielo dovrebbero essere in effetti più precisamente assegnati alle opere che alla identità sessuale. E mai come nel caso anche di questi Nobel ci ritroviamo a festeggiare tre donne africane i cui successi si innalzano molto più in alto della loro differenza.

Queste signore infatti hanno portato a termine in questi anni imprese con cui si sono misurati vanamente un numero enorme di uomini. Sarà anche perché ciascuna di loro ha raggiunto nella vita ben prima del Nobel un livello di scolarizzazione, educazione, e capacità di operare al di sopra di ogni mediocre convinzione, incluse quelle delle civiltà occidentali.

Ellen Johnson Sirleaf e Leymah Gbowee, le due liberiane, si sono confrontate non tanto con la condizione femminile, ma con le devastazioni di una guerra civile come se ne ricordano poche, se si fa eccezione per quella del Ruanda. La Liberia fondata nel 1847 prende il suo nome dagli schiavi neri americani liberati, e la capitale si chiama Monrovia in onore del Presidente James Monroe. Gli americani Liberiani, come venivano chiamati, hanno dominato la politica del Paese, sempre aiutati dagli Stati Uniti in funzione del ruolo pro-occidentale che la Liberia ha giocato in Africa e alle Nazioni Unite nel secondo dopoguerra. Aiuti che non vennero meno neppure dopo un colpo di Stato nel 1980 che diede l’avvio a ben due guerre civili, la cui eredità è di 250 mila morti e l’85 per cento della popolazione sotto il livello di povertà. Qualcuno ricorderà i nomi di due signori di queste guerre: Samuel Doe, che si elesse presidente nel 1985 dopo aver fatto il golpe, e Charles Taylor che lanciò una offensiva contro Doe nel 1989 con l’aiuto del Burkina Faso e della Costa d’Avorio. Entrambi sono diventati il prototipo della violenza militare in Africa, dell’uso dei bambini in guerra, delle violenze ripetute sulle donne, e, non ultimo, grazie a molti film e a una campagna sostenuta da grandi star, del traffico illegale dei «diamanti insanguinati», usato dal regime per autofinanziarsi. La vicenda di Taylor finì per mano di un ulteriore gruppo ribelle che nel 2003 conquistò Monrovia e spedì (col sostanziale aiuto degli Usa) il dittatore in esilio, aprendo la strada alla ennesima missione di messa in sicurezza delle Nazioni Unite, sotto la cui egida avvennero le elezioni del 2005 in cui venne eletta la attuale Presidente e ora Premio Nobel. Dov’erano Ellen Johnson Sirleaf e Leymah Gbowee mentre tutto questo accadeva e cosa hanno fatto per la Liberia? Solo dopo aver risposto a questa domanda possiamo davvero capire l’importanza del Premio svedese.

Ellen Sirleaf era dentro e fuori il suo Paese, spesso dentro e fuori un carcere, e negli Stati Uniti. Figlia del primo deputato nero di origini locali, adottata da una famiglia benestante, economista con numerose lauree inclusa quella di Harvard, alla John F. Kennedy School, ministro delle Finanze del suo Paese fino al golpe di Samuel Doe, poi fuggita a Washington dove lavora per la World Bank e più tardi in Africa per le Nazioni Unite. Nel frattempo sfidava inutilmente nel 1997 alle elezioni presidenziali Charles Taylor, e arrivava poi alla presidenza nel 2005 dopo la cacciata del dittatore. Probabilmente Sirleaf non sarebbe giunta così in alto se non ci fosse stata in Liberia un’attivista come la sua compagna di Nobel, Leymah Gbowee, una vera e propria Lisistrata nera di cui Aristofane sarebbe stato molto orgoglioso. Fu lei, 39 anni, assistente sociale, madre oggi di sei figli, a lanciare e sostenere nell’anno cruciale della fine della Guerra civile, il 2002, uno «sciopero del sesso» sostenuto dal suo gruppo delle «donne in bianco», musulmane e cristiane, che si scontrarono a più riprese con le varie bande di militari denunciando la pratica sistematica dello stupro. In un episodio famosissimo Leymah Gbowee affrontò un’assemblea di legislatori minacciando di spogliarsi nuda in pubblico, gesto di potente maledizione in West Africa.

Anche la terza donna del Nobel esercita un ruolo che va ben al di là di quello femminile: Tawakkul Karman dello Yemen ha 32 anni, tre figli ed è una giornalista che in uno dei Paesi più repressivi dell’Africa musulmana è diventata, con il suo velo rosa a fiori, l’ispirazione della protesta contro Ali Abdallah Saleh. Fondatrice dell’associazione «Giornaliste senza catene» è militante nel partito islamico e conservatore Al Islah, primo gruppo di opposizione. Arrestata a gennaio, poi rilasciata grazie alle manifestazioni a suo sostegno, ha già ottenuto il titolo di madre della rivoluzione. Il Nobel a lei è nei fatti il Nobel alle primavere arabe. Durante una delle manifestazioni a Sana’a disse queste parole: «Manterremo la dignità delle persone e il loro diritto ad abbattere ogni regime».

E’ un po’ la frase che il comitato del premio Nobel ha parafrasato nella motivazione della sua scelta. Ma va ricordato che questa moderna dichiarazione dei diritti universali può essere attribuita alle donne proprio perché oggi il loro ruolo femminile si è trasformato in metafora e pratica del bene generale.

La Stampa 08.10.11

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“Donne e non violenza: due rivoluzioni”, di EMMA BONINO

Dire che sono contenta è banale, ma vero. Sono molto contenta. Perché se pure qualche rumore sulla possibilità che il premio Nobel per la Pace potesse essere conferito a Ellen c’era, la competizione è stata difficile fino all’ultimo. Con lei, Ellen Johnson Sirleaf, ho lavorato un po’ di anni fa: era mia collega nell’International Crisis Group. Era il periodo in cui era in esilio a Washington, dopo l’arresto e la galera negli anni Ottanta seguiti al colpo di Stato; spinse l’organizzazione a occuparsi di più di Africa e delle dittature.

Ma quello che mi fa più contenta è la motivazione di questo Nobel, che è rivoluzionaria. Non solo afferma che senza le energie e la creatività del 50 per cento della popolazione mondiale non si va da nessuna parte. Ma premia la scelta, da parte di queste tre donne, della nonviolenza declinata in modi diversi, certo, nelle diverse aree del mondo. Da radicale per me è un principio fondamentale. Infine, e questo si vede soprattutto nella scelta dell’attivista liberiana Leymah Gbowee, si premia la riconciliazione post dittatura. Lei, cristiana, ha fatto un’associazione con le donne musulmane, superando le diversità religiose in nome del bene del suo Paese. Mi ricorda, con tutte le diversità del caso, il Nobel del ’76 attribuito alle attiviste nordirlandesi Betty Williams e Maired Corrigan che avevano fondato l’associazione Women for peace (donne per la pace), con le donne cattoliche e protestanti insieme.

Ellen Johnson Sirleaf è riuscita a riappacificare la Liberia dopo l’era di Taylor. È stata inflessibile nel chiedere l’estradizione dell’ex presidente, accusato dal Tribunale speciale per la Sierra Leone dei crimini contro l’umanità commessi durante la guerra civile in quell’infelice Paese (fomentata dall’allora presidente liberiano Charles Taylor). E ripenso con orgoglio oggi quanto noi radicali con «Non c’è pace senza giustizia» abbiamo lavorato in sinergia con Ellen, per l’istituzione di quel tribunale ad hoc, cui pochissimi credevano. Da presidente, poi, ha condotto con saggezza e moderazione, così come ha fatto anche Mandela per il Sudafrica, la transizione del suo Paese. Ha istituito una commissione di riconciliazione per valutare i crimini commessi e confessati, senza pena di morte, in modo che potesse prevalere la giustizia sulla vendetta nel chiudere un’epoca sanguinosa della Liberia e guardare avanti.

Il Nobel di quest’anno è un riconoscimento a generazioni, culture, provenienze etniche e religiose diverse. Tawakkol Karman è una ragazza, Leymah Gbowee quasi una quarantenne e Ellen una settantenne.

Sono donne che provengono non solo da Paesi e zone del mondo diverse, una è musulmana, una, Leymah, è cristiana e Ellen non usa far riferimento pubblico ad alcuna religione. Tawakkol Karman è un’«islamista» con delle contraddizioni positive, non appartiene all’area liberale della primavera araba. Ma è un’islamista sui generis, non interamente velata, come usa diffusamente in Yemen. Ed è la prima donna araba, di qualsiasi disciplina, insignita del Nobel.

Io spero che le motivazioni di quest’anno facciano riflettere tutto il mondo. Non si è più premiata la diplomazia (basti pensare ai Nobel di Kissinger o Arafat, ma anche a quello di Martti Athisaari, o addirittura a quello a Obama), la soluzione classica dei conflitti. Si riconosce e si premia un elemento diverso: le donne, svantaggiate ovunque nel mondo, in posti dove si è o si è stati sull’orlo della guerra civile, con determinata nonviolenza cercano di riportare la legalità, il rispetto dei diritti della persona, la democrazia.

Ieri dopo aver letto la notizia, passando nei corridoi del Senato, mi sono ritrovata a sorridere ai colleghi maschi, scherzando ma non troppo: «Rassegnatevi e fate di necessità virtù». A noi donne dico: «È un momento importante, facciamone tesoro».

Vice Presidente del Senato

Il Corriere della Sera 08.10.11