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"Legge-bavaglio, cinque anni di guerra per coprire gli scandali del Cavaliere", di Massimo Giannini

Potente e minacciosa, la forza di fuoco dispiegata nelle ultime settimane dal presidente del Consiglio sulle intercettazioni. «Voi parlamentari approvate al più presto la legge: la situazione attuale non è da Paese civile» (Agi, 6 ottobre). «Vi è un’urgenza a cui abbiamo il dovere di rispondere… Il cittadino alza il telefono e sente di poter essere controllato: è intollerabile, è un sistema barbaro a cui dobbiamo mettere fine» (Ansa, 7 ottobre). Silvio Berlusconi prepara con queste parole, scagliate come pietre contro i pm, il prossimo «giorno del giudizio». Giovedì la Camera voterà la legge-bavaglio, dalla quale può dipendere la sopravvivenza del suo governo.

Il premier cerca di dimostrare l’indimostrabile: quella sulle intercettazioni non è la «sua» guerra, ma deve essere la guerra di tutti gli italiani che hannoa cuore la libertà.

È l’ennesima, disperata torsione del principio di verità.

È la pretesa di impunità spacciata per diritto alla privacy.

Non è un teorema giornalistico. Sono i nudi fatti di questi ultimi cinque anni. Ogni volta che Berlusconi ha forzato la mano alla sua maggioranza e al Parlamento, per chiedere il giro di vite sugli ascolti telefonici, non lo ha fatto per tutelare «milioni di cittadini inermi». Ma per impedire che, attraverso l’esercizio di un diritto all’informazione tutelato dalla Costituzione,i mass media portassero alla luce del sole vicende oscure che riguardano i suoi vizi privati, i suoi affari personali, i suoi conflitti di interesse. E che per questo svelano la natura torbida del suo potere e il «metodo» improprio con cui lo amministra. Questa è la vera posta in gioco della leggebavaglio.

IL PROLOGO: COME FREGARE IL COMPAGNO FASSINO La Grande Guerra per difendersi dalle intercettazioni il Cavaliere comincia a combatterla facendone a sua volta un abuso, largo e disinvolto, contro i nemici. È lui a innescare lo scandalo Bnl-Unipol che all’inizio del 2007 spinge il governo Prodi a varare il ddl Mastella. La famosa conversazione tra Fassino e Consorte del 17 luglio 2005 («Abbiamo una banca?») è l’arma-fine-di-mondo che Berlusconi brandisce nella campagna elettorale del 2006.

Quell’intercettazione è illegale, la pubblica il Giornale il 31 dicembre 2005. Non è agli atti dell’inchiesta. È solo un file audio custodito dalla GdF.

Ma l’ad della Research Control System Roberto Raffaelli, il 24 dicembre, va ad Arcore e la offre in dono natalizio a Berlusconi che (come scriverà poi il gip Stefania Donadeo nell’ordinanza) lo ringrazia «del regalo fattogli, assicurandogli gratitudine eterna». Questo è dunque l’uso in «privato» che il Cavaliere fa del Grande Fratello telefonico, quando gli conviene.

INIZIA LA GUERRA: COME COPRIRE LO SCANDALO RAI-SACCÀ La prima emergenza che spinge Berlusconi a invocare il bavaglio nasce alla fine del 2007. Il Cavaliere, falso «gar antista» anche all’opposizione, sostiene il ddl Mastella, approvato alla Camera il 17 aprile all’unanimità. «È una questione di principio – dice – siamo contro lo Stato di polizia».

Una posizione sorprendente,e solo in apparenza coerente. Per il Cavaliere cominciano a profilarsi grane grosse. La prima scoppia a giugno. Sui giornali esce l’intercettazione di Stefano Ricucci, che dice al telefono di aver ricevuto «un via libera da Berlusconi» per la scalata a Rcs. La seconda grana scoppia a luglio: il 4 il Csm accusa il Sismi di Niccolò Pollari di aver spiato illegalmente più di 200 magistrati. Pollari è uomo di fiducia di Gianni Letta per l’intera legislatura berlusconiana 2001-2006.

Ma la grana più seria esplode prima di Natale. Repubblica, il 21 dicembre, da conto dell’inchiesta della Procura di Napoli, che indaga Berlusconi per corruzione: ci sono intercettazioni in cui parla con il dg Rai Agostino Saccà per far assumere due ragazze in una fiction. È il finimondo. La Rai apre un’inchiesta interna. Berlusconi la butta in politica: «Gli sciacalli sono in azione, vogliono far saltare il dialogo sulle riforme», dice all’ Ansa il 22 novembre. Ma il 20 dicembre, quando l’Espresso pubblica un’altra intercettazione con Saccà in cui si parla di posti Rai da assegnare a Elena Russo, Antonella Troise ed Evelina Manna, il Cavaliere sbotta: «Lo sanno tutti che in Rai si lavora solo se ti prostituisci o se sei di sinistra».

Il caso Saccà si concluderà con l’archiviazione, il 17 aprile del 2009. Ma all’inizio del 2008, alla vigilia del voto anticipato, il Cavaliere ancora non lo sa. Per questo ha già deciso: il giro di vite alle intercettazioni sarà nel suo programma di governo. L’OFFENSIVA: VIA ALLA STRETTA SUGLI ASCOLTI TELEFONICI Il 18 gennaio 2008 la Procura di Napoli chiede il rinvio a giudizio del Cavaliere per le raccomandazioni in Rai. Lui è sempre più preoccupato. Dopo il trionfo elettorale del 13 aprile, da neo-premier, rompe gli indugi. Il 7 giugno, a Capri, annuncia ai giovani di Confindustria: «Daremo una stretta sulle intercettazioni, che saranno possibili solo per la criminalità organizzata e il terrorismo». Detto fatto: il 13 giugno, il Consiglio dei ministri vara il suo ddl: le intercettazioni saranno vietate per le indagini su reati con pena inferiore ai 10 anni, e sarà vietata la pubblicazione degli atti dell’indagine fino alla conclusione dell’udienza preliminare. Il 27 giugno il governo vara il primo Lodo Alfano sull’immunità per le alte cariche. Il premier esulta, ma vuole di più. Il ddl sulle intercettazioni sia trasformato in decreto, chiede a Ghedini e Alfano riconvocati a Palazzo Grazioli ai primi di luglio. I suoi luogotententi lo sconsigliano: meglio puntare sul Lodo e sul ripristino dell’immunità parlamentare. Il Cavaliere si adegua, ma dissente. Il 2 agosto, alla buvette di Montecitorio, saluta i deputati prima delle ferie: «Spero proprio che il Parlamento approvi una legge che autorizzi le intercettazioni solo per reati di mafia e terrorismo». Ma ha bisogno di una sponda dall’opposizione. Il 29 agosto sul suo Panorama escono a sorpresa le intercettazioni telefoniche su un giro di appalti Italtel, che chiamano in causa Prodi. Il premier rilancia il solito «garantismo a la carte»: «Solidarietà a Prodi, questa vicenda dimostra che una legge sulle intercettazioni è necessaria e urgente».

Lo ripete ai suoi per due mesi. Perché questa ossessione? La risposta è negli scandali che stanno per deflagrare.

LA GUERRA TOTALE: COME FERMARE I PM DI BARI SULLE ESCORT Berlusconi saluta il 2009 con un fuoco d’artificio. Il 25 gennaio spara: «Sta per scoppiare il più grande scandalo della Repubblica». È l’affare Gioacchino Genchi, vicequestore di Polizia che ha effettuato indagini per conto di De Magistris nell’inchiesta “Why not” e “Poseidon”. Il Copasir smaschera la «bufala». Il sistema Genchi ha molte zone d’ombra, ma non contiene intercettazioni, solo analisi di tabulati telefonici. Dunque, perché la sparata del premier? L’obiettivo è evidente: creare un clima di indignazione generale, propedeutico alla legge-bavaglio. Il 29 gennaio la maggioranza introduce le prime modifiche restrittive al ddl intercettazioni: sono consentite solo per «gravi indizi di reato». Il 17 febbraio il Csm esprime parere negativo. Il premier non si ferma: vuole che la legge passi a tutti i costi. Nel frattempo, il 29 aprile, su Repubblica irrompe lo scandalo Noemi Letizia. Berlusconi reagisce e ruggisce, come un leone ferito. E l’11 giugno, in un clima di bagarre, la Camera approva definitivamente il ddl intercettazioni a colpi di fiducia, con 318 sì e 224 no. Alfano brinda: «Ora ci aspettiamo una rapida lettura da parte del Senato».

Ma il Cavaliere, in quei giorni, è nervoso. È convinto che il peggio debba ancora venire. Massimo D’Alema il 14 giugno va in tv, a In mezz’ora, e afferma: «C’è da aspettarsi che la maggioranza sia presto attraversata da nuove scosse». E le «scosse», puntuali, arrivano. Tre giorni dopo scoppia lo scandalo delle escort alla Procura di Bari. Si parla di intercettazioni su ragazze pagate per partecipare alle «serate eleganti» di Palazzo Grazioli e di Villa 7 Ottobre 2011 Certosa. Il Cavaliere perde le staffe: «È la solita spazzatura con la quale cercano di disarcionarmi». Ma Patrizia D’Addario conferma tutto in un’intervista. E il 20 luglio l’Espresso pubblica un audio sulle notti roventi tra la stessa D’Addario e il presidente. Le «dieci domande» di Repubblica fanno il giro del mondo.

LA GUERRA DI LOGORAMENTO: COME OSCURARE LO SCANDALO P3 Per questo l’uomo di Arcore torna alla carica sulla legge-bavaglio: incurante della manifestazione per la libertà di stampa, che il 3 ottobre porta a Roma 300 mila persone. Il Cavaliere la bolla così: «È una farsa assoluta, in Italia c’è più libertà di stampa che in qualunque altro Paese». Comincia una guerra di logoramento, nella sua maggioranza e nelle piazze.

La sua è una corsa disperata contro il tempo. Il 9 escono i primi verbali sull’inchiesta barese, dai quali si evince che Tarantini ha portato alle feste di Berlusconi almeno 30 ragazze, molte delle quali pagate dall’«utilizzatore finale». Il 22 settembre si apre un’altra pagina nera: scoppia lo scandalo P3, che nelle carte della procura di Roma coinvolge Verdini, Dell’Utri, Carboni. Ancora un profluvio di intercettazioni, nelle quali tutti si spartiscono favori e lavori, condizionano giudici e appalti, e si dicono per 27 volte che per ogni decisione devono «riferire a Cesare», cioè al Cavaliere. È lo scandalo della nota «cricca», che il premier prova inutilmente a liquidare così: «Sono solo quattro sfigati in pensione». Ma lo scandalo c’è. E il ddl intercettazioni e impantanato al Senato.

COME DISINNESCARE LE MINE SU TRANI E SUL RUBY-GATE Il 10 febbraio 2010 esplode un altro scandalo: gli appalti sui “Grandi eventi”, con Guido Bertolaso indagato per corruzione dalla procura di Roma. Un’altra messe di intercettazioni, che squassano la Protezione Civile e la rete di imprenditori «amici», da Anemone a Balducci.

I giornali riferiscono di conversazioni intercettate e di incontri segreti a Palazzo Chigi tra quest’ultimo, Berlusconi e Letta. Piovono smentite, ma il danno è fatto.

Il 12 marzo nuovo scandalo: la Procura di Trani indaga Berlusconi per abuso d’ufficio. Un’altra infornata di intercettazioni inchioda il premier, che fa pressioni sul membro dell’Agcom Giancarlo Innocenzi per «chiudere Annozero ». È un terremoto. Alfano manda gli ispettori a Trani. Il Cavaliere, alla manifestazione del Pdl di Roma del 20 marzo, attacca dal palco «le intercettazioni da stato sovietico». Ma le parole non bastano più. Il 6 aprile convoca Umberto Bossi ad Arcore, per ridefinire la strategia di combattimento sulla legge-bavaglio. Il Giornale riassume così il vertice: «Il premier vuole che il ddl sia legge dello Stato entro giugno».

A maggio, al Senato, la maggioranza tenta l’affondo. Il 19, in Commissione, passa la stangata contro gli editori che pubblicano le conversazioni telefoniche. Il 24 i direttori dei grandi giornali lanciano un appello al centrodestra. Le «colombe» del Pdl raccolgono: il 28 maggio la maggioranza al Senato ufficializza i suoi emendamenti, uno dei quali reintroduce la possibilità di pubblicare per riassunto gli atti giudiziari prima dell’udienza preliminare. Il 10 giugno Palazzo Madama approva il ddl, nel caos dell’emiciclo. Si torna alla Camera, per la terza lettura. Ma il presidente non è soddisfatto: «Il testo è stato snaturato dalle lobby dei magistrati e dei giornalisti».

Il Cavaliere teme che la legge finisca nelle secche parlamentari. Teme Napolitano, che il primo luglio dichiara: «I punti critici sulle intercettazioni sono chiari, valuterò il testo al momento della firma». Teme la fronda nel centrodestra e dei finiani. Per questo il 2 luglio, di ritorno dal G20, rilancia al Tg1 e Tg5: «Sono tornato con ottimi risultati, ora prenderò in mano la manovra e le intercettazioni». Conclude con il grottesco «ghe pensi mi».

Ma il 20 luglio Alfano sigla un «lodo» con la presidente della commissione Giustizia Giulia Bongiorno: saranno pubblicabili almeno «gli atti rilevanti» delle inchieste. Il Cavaliere, ancora una volta, storce il naso: «Così resta tutto com’era», sbuffa il giorno stesso.

Dopo la chiusura estiva riparte come un panzer. Il 31 agosto convoca Ghedini e Alfano a Palazzo Grazioli: otto ore di vertice, per mettere a punto la road map autunnale su processo breve e intercettazioni. Berlusconi sa che sta per cadergli in testa un’altra tegola. Il Ruby-gate squassa il circo politico-mediatico il 27 ottobre, e tiene banco per quattro mesi filati e avvelenati. Nuovo scandalo sessuale, stavolta con una minorenne, nuove intercettazioni imbarazzanti, come la telefonata in Questura per chiedere la liberazione della «nipote di Mubarak». Il 2011 non promette nulla di buono.

L’ASSALTO FINALE: COME NASCONDERE LA P4 E L’AFFARE TARANTINI-LAVITOLA L’ultimo anno, per il premier, è un calvario. Da gennaio a settembre, c’è traccia di almeno undici vertici in cui si parla di intercettazioni a Palazzo Grazioli, tra il premier, Ghedini, Alfano e i suoi «collaboratori». Tra questi, l’8 febbraio scorso, figura anche Augusta Iannini, moglie di Bruno Vespa e Capo Dipartimento alla Giustizia. Nessuno saprà mai a quale titolo. Ma c’è una guerra da combattere: e per il Cavaliere tutte le armi sono buone. Lo ripete il 5 marzo, in un videomessaggio ai Promotori della Libertà: «La sinistra, vuole le intercettazioni a go-go…

Vuole fare dell’Italia uno Stato di polizia, e noi glielo impediremo!». Ai primi di giugno, scoppia lo scandalo P4. Anche qui, intercettazioni, che partono da Luigi Bisignani, travolgono Alfonso Papa, coinvolgono Letta e lambiscono Berlusconi. E la legge-bavaglio è ancora ferma al Senato. Tra il 20 luglio e la fine di agosto il premier convoca altri tre vertici a Palazzo Grazioli, per sollecitare la stretta. Ma, di nuovo, il tempo corre più veloce. Il 28 luglio dice ai cronisti: «La legge sulle intercettazioni è stata massacrata da tutti gli interventi che ha subito: sono quasi tentato di ritirarla…». Negli stessi giorni l’Espresso pubblica l’intercettazione in cui suggerisce al latitante Lavitola di «non tornare in Italia». Il primo settembre Tarantini viene arrestato, e nell’ordinanza del gip di Napoli escono le telefonate più scottanti: ragazze usate come «mazzette umane», ricatti e soldi versati per comprare silenzi, appalti «facilitati» in Finmeccanica.

Siamo alla cronaca di questi giorni: il premier è furente, e il 4 ottobre chiama Ghedini e Confalonieria Palazzo Grazioli. Il «Lodo» Ghedini-Bongiorno viene stracciato, si torna alla versione più dura della legge bavaglio.

Quella che l’aula di Montecitorio dovrà approvare giovedì prossimo, pena la caduta del governo.

Perché quest’ultimo colpo di coda? Forse c’è ancora molto da scoprire, e dunque molto da nascondere, nelle carte delle procure. Centomila file sono tanti. Senza contare le parti «omissate», a quanto pare le più compromettenti, persino dal punto di vista della politica estera. Per questo Berlusconi, come dice la Bongiorno, ha «schioccato le dita» e ha fatto rimettere l’elmetto ai suoi soldati. Il 27 dicembre 2008 aveva giurato per le bancarelle di via dei Coronari: «Se vengono intercettate mie telefonate di un certo tipo, me ne vado in un altro Paese…». Era solo un’altra bugia. Ma serve a capire perché la Grande Guerra delle intercettazioni non è ancora finita.

La Repubblica 10.10.11