attualità, politica italiana

"Il dovere di dimettersi", di Massimo Giannini

Le anime candide, fuori dal Palazzo, potranno anche prendere per buona l’ultima menzogna spacciata a microfoni unificati da Berlusconi e Bossi. «È un problema tecnico risolvibile», hanno detto i due fantasmatici rais dell’ormai ex maggioranza forzaleghista. Ma la sorprendente sconfitta numerica subita alla Camera sull’assestamento al bilancio è una sconfitta politica devastante, e forse definitiva, per quel che rimane del centrodestra.

Intanto, non è affatto detto che sia risolvibile dal punto di vista tecnico. Un governo che va avanti come se nulla fosse, dopo aver incassato il no del Parlamento non su una legge qualsiasi, ma su un atto normativo di rilevanza costituzionale come il rendiconto di finanza pubblica, non si era mai visto. Ci sono solo un paio di precedenti, nella storia repubblicana, il più simile dei quali risale al governo Goria del 1988, che non a caso cadde subito dopo esser finito più volte in minoranza nel voto sulla Legge Finanziaria.

Ma è evidente a tutti, al di là della valenza tecnica e formale del caso, che quella che si è prodotta nell’assemblea di Montecitorio è una rottura politica e sostanziale. Probabilmente irreparabile, a dispetto della penose e consolatorie assicurazioni fornite dal Cavaliere e dal Senatur. C’è un momento, anche nell’anomalia assoluta del berlusconismo, nel quale le leggi della politica ritrovano una coerenza irriducibile. Nel quale le tensioni e i conflitti precipitano e convergono, tutti insieme, verso una conclusione inevitabile. Questo è quel momento. Si percepiva da mesi, ormai, il drammatico divorzio umano (prima ancora che politico) tra il presidente del Consiglio e il suo ministro del Tesoro, trasfigurato nell’odioso Ghino di Tacco di una coalizione affamata dai tagli lineari e assetata di denaro pubblico da spendere. Si vedeva da settimane, ormai, il lento ma inequivoco sfilacciamento di un Pdl ridotto a un ectoplasma, sotto la guida incerta e inconsistente di un Alfano che nasce come segretario del capo e non certo del partito, e che non può e non sa fronteggiare le correnti, coordinare le fazioni, dominare i cacicchi. Si temeva da giorni, ormai, il fatidico «incidente di percorso», in Parlamento e fuori, che faceva tremare il «cerchio magico» del premier, disperato e assediato nel suo bunker. Palazzo Grazioli come il Palazzo d’Inverno. Alla Camera, a far mancare i voti che servivano, tra gli altri sono stati proprio Umberto Bossi, Giulio Tremonti e Claudio Scajola.

Tutto questo non può essere solo un caso. Non può essere un caso, se il vecchio Senatur ritarda l’ingresso in aula, confuso per la lesa maestà padana e stordito dall’inedita e inaudita vandea leghista che lo vede per la prima volta contestato dalla sua base.

Non può essere un caso, se il superministro dell’Economia diserta un appuntamento in cui si discute e si vota un provvedimento-chiave di cui lui stesso è titolare. E non può essere un caso, se l’ex ministro dello Sviluppo si eclissa poche ore dopo un «pranzo tra amici», come lui stesso ha definito quello che ha da poco consumato insieme al Cavaliere.

Forse non c’è complotto. Non ancora, almeno. Ma nel disastrato esercito berlusconiano risuona forte e chiaro il «rompete le righe». Quello che succede è la dimostrazione pratica di ciò che era evidente già da più di un anno: un governo non sta in piedi, con la sola forza inerziale dell’aritmetica. Se non c’è la spinta della politica, con la quale far muovere la «macchina», un governo prima o poi cade. E questa spinta, ammesso che ci sia mai stata, manca palesemente. Almeno dal 14 dicembre 2010.

Si può senz’altro dire che Gianfranco Fini ha sbagliato i suoi calcoli. Che allora la spallata futurista non è riuscita. Che il Cavaliere ha resistito e oggi il presidente della Camera esprime un potenziale elettorale modesto, intorno al 3-4%. È tutto vero.

Ma è altrettanto vero che da quel giorno, dalla scissione degli ex di An dal Pdl, la maggioranza è «clinicamente» morta. Da allora nulla è stato più prodotto, nella residua ridotta verde-azzurra di B&B, Berlusconi & Bossi. Non una riforma strutturale, non una legge qualificante. La stessa maxi-manovra estiva nasce dalla «gestione commissariale» del Colle e di Via Nazionale (cioè dalle pressioni di Napolitano e Draghi) e non certo dall’azione materiale di Arcore o di Via XX Settembre. Si è ironizzato a lungo, sulle «self-fulfilling prophecies» di quelli che annunciano da mesi e mesi la caduta imminente del re nudo, e sulle speculari doti di resistenza del medesimo. Ma alla fine, anche nel Paese di Berluscolandia, la realtà si impone sulla propaganda.

La realtà, oggi, dice che il presidente del Consiglio deve recarsi al Quirinale, e rassegnare le sue dimissioni: sarebbe impensabile derubricare quello che è accaduto come un banale inciampo procedurale, mentre è un vulnus politico di gravità eccezionale. La realtà, oggi, dice che non sono ammissibili trucchi da illusionista o bizantinismi da leguleio, tipo Consiglio dei ministri che riapprova l’aggiornamento al bilancio pubblicoe lo fa rivotare dal Senato: sarebbe uno strappo inaccettabile alle regole e uno schiaffo intollerabile al Parlamento. La realtà, oggi, dice che il presidente della Repubblica, se com’è giusto non interverrà proditoriamente per interrompere questa nefasta avventura di governo, com’è altrettanto giusto non interverrà artificiosamente per prolungarla. Berlusconi e Bossi, dopo quello che è accaduto, non esistono più. Sono «anime morte», come quelle di Gogol.

La Repubblica 12.10.11

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Scajola e i Responsabili “avvertono” Berlusconi, di Raffaella Cascioli

Trappola o imperizia, congiura o sottovalutazione. Nell’aria da giorni, alla fine la crisi è precipitata nell’aula della camera dove il governo è stato battuto, alla presenza del presidente del consiglio Silvio Berlusconi, su un provvedimento decisivo dell’attuale sessione parlamentare: il rendiconto generale dello stato.
L’aula di Montecitorio ha infatti bocciato con 290 voti a favore e 290 voti contrari l’articolo 1 del rendiconto generale dello stato che, di fatto, regge l’impianto di tutto il bilancio creando una situazione senza precedenti. Non solo per le modalità, ma anche per i tempi e le motivazioni.
La prima conseguenza del voto è che, nel pieno della crisi economico- finanziaria, l’Italia non dispone al momento del bilancio dello stato e toccherà stamattina alla giunta per il regolamento della camera stabilire se sia possibile andare avanti o meno con le votazioni dell’articolato, dopo che ne è stato bocciato l’articolo principale.
«Non c’è dubbio che un governo normale – ha dichiarato ad Europa il vicesegretario del Pd Enrico Letta – si sarebbe subito dimesso. Secondo una prassi consolidata in caso di bocciature su bilancio o politica estera qualunque governo si dimetterebbe».
Tuttavia, il governo Berlusconi non è un governo normale tanto che ieri si è lavorato fino a notte inoltrata a un emendamento agli articoli successivi che recepisca l’articolo uno, per far rientrare dalla finestra ciò che è uscito dalla porta. Un’impresa impossibile e ai limiti della Costituzione.
L’impressione è che si siano ficcati in un cul de sac perché, nel caso si decidesse di non procedere ad ulteriore votazione, sarebbe impossibile presentare un nuovo provvedimento. E il motivo è presto detto: il rendiconto, che per obbligo costituzionale il governo è tenuto a presentare, è la fotografia del bilancio a consuntivo per il 2010 e, quindi, non può essere modificato visto che i numeri non sono soggetti a trattativa.
Ma i risvolti dello psicodramma andato ieri in scena ieri a Montecitorio sono soprattutto politici per le assenze che hanno determinato la bocciatura del provvedimento. A dichiararlo a caldo è stato il presidente della camera Gianfranco Fini che ha rinviato la seduta ad oggi e si è subito dopo incontrato con il presidente della repubblica Giorgio Napolitano. D’altra parte, non si è trattato di un fulmine a ciel sereno.
Qualche avvisaglia c’era già stata nell’aula della camera qualche minuto prima, quando la risoluzione di maggioranza alla nota di aggiornamento al Def era stata approvata con appena due voti di scarto, nonostante in quel momento i banchi del governo fossero al gran completo, Bossi compreso.
Poi, com’è come non è, il senatùr si è lasciato distrarre dai giornalisti; il ministro Tremonti affannato ma ufficialmente in missione non è riuscito a votare arrivando in aula subito dopo il voto; il ministro Maroni era assente giustificato; l’ex ministro Scajola, secondo i bene informati, era lontano dall’aula per incontrare Formigoni e Alemanno; mancavano Miccichè e Scilipoti con cinque responsabili.
È stato il premier a capire per primo di essere stato giocato e scuro in volto ha evitato Tremonti senza degnarlo di uno sguardo e ha guadagnato l’uscita mentre tra i suoi iniziavano attacchi rancorosi.
Se infatti il pidiellino Laboccetta ha puntato il dito contro il ministro Tremonti giudicato irresponsabile per essere entrato «in aula 30 secondi dopo che era già avvenuta la votazione in cui la maggioranza è andata sotto e si è seduto tra i banchi del governo», Scajola e i suoi si sono addirittura riuniti seduta stante nell’aula dove erano accorsi.
Inutile dire che una maggioranza in confusione per aver creato una situazione senza precedenti, in serata, per coprire la rabbia di Berlusconi, andava ripetendo di essere pronta a votare la fiducia.
In un’isteria collettiva se ne è detto convinto il ministro La Russa e gli ha fatto eco il capogruppo pidiellino Cicchitto secondo cui ora occorre verificare la fiducia in parlamento. Ma fiducia su cosa? Proprio Cicchitto, dopo che Berlusconi ai suoi (Letta-La Russa-Bonaiuti) ha chiesto di resistere avendo però compilato la lista nera di chi non ha partecipato al voto, ha spiegato che il ddl intercettazioni viene ora rinviato ma quello di ieri è stato solo un incidente di percorso.
In serata la nota del ministero dell’economia assomigliava ad un’excusatio non petita: «A poche ore dalla presentazione della legge di stabilità il ministro era al ministero impegnato con gli uffici di gabinetto nella valutazione dei dossier relativi a ciascun ministero».
Scatenata l’opposizione che ha chiesto le dimissioni immediate con il capogruppo pd in commissione bilancio della camera, Pierpaolo Baretta, che ha osservato come a questo punto non c’è bilancio dello stato, proprio mentre in mattinata la corte dei conti con il suo presidente Luigi Giampaolino aveva bocciato la riforma fiscale che non avrebbe coperture visto che parte delle entrate sono state utilizzate dal decreto di ferragosto.
Per Giampaolino bisogna evitare tagli lineari alle agevolazioni, giudicati recessivi, mentre vanno tassati beni “personali e reali”. E sul condono fiscale Giampaolino parla di «scelta molto politica» specie per quel che riguarda «le conseguenze sul comportamento dei contribuenti».
Con queste premesse non solo è evidente che domani in consiglio dei ministri non ci sarà un decreto sviluppo, ma neanche la legge di stabilità. La lite nel governo e nella maggioranza è ormai su tutto. A cominciare dal condono, per finire sulle pensioni.

da Europa Quotidiano 12.10.11