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"Stato sconfitto da un pugno di teppisti", di Eugenio Scalfari

La notizia principale di oggi è la mobilitazione degli “indignati” in tutte le piazze dell´Occidente, da Manhattan a Londra a Bruxelles, a Berlino, a Parigi, a Madrid. Ma a noi preoccupa soprattutto ciò che è avvenuto a Roma. Mentre centinaia di migliaia di giovani tentavano di sfilare pacificamente nelle via della capitale poche centinaia di “black bloc” in tenuta da guerriglia hanno compiuto violenze e provocato la polizia tentando di forzarne i cordoni. Gli scontri hanno coinvolto la massa dei pacifici dimostranti, come è avvenuto in molte altre occasioni. Mentre scriviamo gli incidenti sono ancora in corso, molti manifestanti hanno tentato di isolare i facinorosi che hanno reagito picchiandoli a colpi di spranghe. È deplorevole che ancora una volta la polizia e i servizi di sicurezza non siano stati in grado di neutralizzare preventivamente i teppisti e i provocatori che dovrebbero esser noti e rintracciabili. Speriamo che le violenze non continuino in serata. Le nostre cronache ne daranno ampia informazione.
Quali che ne siano gli esiti il fatto certo è comunque l´esistenza ormai evidente di un movimento internazionale. La sua antivigilia è stata la “primavera araba” come furono definiti i moti di piazza qualche mese fa al Cairo e poi a Tunisi e a Bengasi, senza scordare le sommosse del 2008 e del 2010 nelle “banlieue” parigine.
La vigilia è avvenuta alcuni mesi fa a Madrid, poi la fiaccola è sbarcata a New York al grido di “Occupy Wall Street”. Adesso le dimensioni del movimento sono globali. D´altronde, è contro i danni provocati dalla globalizzazione che il movimento è nato, si è diffuso e si rafforza col passare del tempo.
Effimero? Non credo. Esprime la rabbia d´una generazione senza futuro e senza più fiducia nelle istituzioni tradizionali, quelle politiche ma soprattutto quelle finanziarie, ritenute responsabili della crisi e anche profittatrici dei danni arrecati al bene comune.
Gli “indignati” non sono né di sinistra né di destra, almeno nel significato tradizionale di queste parole. Ma certo non sono conservatori. Hanno obiettivi concreti anche se talmente generali da diventare generici: vogliono che i beni comuni siano di tutti; non dei privati, ma neppure dello Stato o di altre pubbliche autorità poiché non hanno alcuna fiducia nella proprietà privata e neppure in quella pubblica amministrata da caste politiche e burocratiche.
I beni pubblici debbono esser messi a disposizione dei loro naturali fruitori, cioè delle persone che vivono e abitano in quei luoghi e che decideranno sul posto le regole del valore d´uso nelle “agorà”, nelle piazze di quel luogo. L´acqua è un bene d´uso comune, l´aria, le foreste, le reti di comunicazione, le case, le fabbriche, i trasporti, gli ospedali. Le banche? Non servono le banche, tutt´al più servono a render facili i pagamenti che avvengono sulla base del valore d´uso e non del valore di scambio.
C´è una dose massiccia di utopia in questo modo di pensare; c´è un´evidente reminiscenza di comunismo utopico; c´è anche una tonalità “francescana”. E c´è – l´ho già scritto domenica scorsa e qui lo ripeto – un rischio estremamente grave: un contagio di populismo.
Esiste storicamente il populismo dei demagoghi, costruito per accalappiare i gonzi, e il populismo degli utopisti che predicono la Città del Sole. Ma non esistono Città del Sole, almeno in questa terra. Chi crede che ce ne sia una ultraterrena fa bene a vagheggiarla ma qui, tra questi solchi, neppure il Redentore la portò perché – fu lui il primo a dirlo – il suo regno non era di questo mondo.
Certo le foreste non vanno abbattute. Certo l´aria non va inquinata. Certo le banche non debbono truffare i clienti e ingrassare sulla truffa. Certo i cittadini debbono partecipare alla gestione della cosa pubblica e non limitarsi a votare con pessime leggi elettorali una volta ogni cinque anni. E così via. Bisogna dunque fare buone leggi e farle amministrare da buona e brava gente e bisogna infine che vi siano efficaci e imparziali controlli su quelle gestioni.
Gli “indignati” sono indignati perché tutto ciò manca e il futuro gli è stato rubato. Sono d´accordo con loro anche perché a me e a quelli della mia generazione è stato rubato il presente e la memoria del passato e vi assicuro che non si tratta d´un furto da poco. Ma so che non è con l´utopia che si risolve il problema.
L´utopia è una fuga in avanti alla quale subentra ben presto l´indifferenza.
Il vostro entusiasmo è sacrosanto come la vostra pacifica ribellione, ma dovete utilizzarlo per la progettazione concreta del futuro, altrimenti da indignati finirete in rottamatori e quando tutto sarà stato rottamato – il malfatto insieme al benfatto – sarete diventati “vecchi e tardi” come i compagni di Ulisse quando varcarono le Colonne d´Ercole e subito dopo naufragarono.
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Domani comincia a Todi un incontro promosso da una serie numerosa di associazioni, comunità, sindacati, di ispirazione cattolica sulla scia dell´allocuzione pronunciata un paio di settimane fa dal presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova. L´allocuzione era quella che propugnava un rilancio dell´etica pubblica capace di rinnovare “l´aria putrida” che aveva devastato le istituzioni e esortava i cattolici all´impegno civile e politico.
A Todi, secondo gli intendimenti dei promotori, dovrebbe prender vita un “soggetto pre-politico” che interloquisca con la politica, sia punto di riferimento dei cattolici impegnati ed anche centro di preparazione civile e sociale di una nuova classe dirigente d´ispirazione cristiana.
«Non è un partito» hanno ripetuto all´unisono i promotori dell´iniziativa «perché non è compito della Chiesa fondare e dirigere partiti».
I laici non cattolici (tra i quali mi ascrivo) prendono nota con interesse di questa iniziativa anche se alcune domande sorgono spontanee.
Prima domanda: la Chiesa non ha mai fondato un partito. Il partito è, per definizione, una parte e non un tutto, mentre la Chiesa cattolica è ecumenica per definizione. Quindi l´affermazione che non fonderà nessun partito è talmente ovvia da apparire alquanto sospetta. Del resto, un sacerdote con tanto di veste talare un partito lo fondò. Era il 1919, il partito si chiamò “Popolare”, in Italia ha cessato di esistere una decina d´anni fa, nel Parlamento europeo esiste ancora, il fondatore si chiamava don Luigi Sturzo.
Seconda domanda: la Chiesa dispone dello spazio pubblico come ogni altra associazione, religiosa o no, sulla base della nostra Costituzione. Nessuno si è mai opposto all´uso di quello spazio del quale infatti la Chiesa, il Vaticano, le comunità cattoliche, i sacerdoti d´ogni genere e grado, si sono largamente serviti. Se il “soggetto” immaginato a Todi nascesse per usare lo spazio pubblico, sarà un´ennesima voce cattolica a farsi sentire e ben venga. Il rischio semmai è che sia un doppione della Cei. Niente di male, ma inutile. Oppure non sarà un doppione? Dirà cose diverse dalla Cei, dal Vaticano, dalla Gerarchia? Sarebbe molto interessante, potrebbe essere una forza di rinnovamento. In senso modernista oppure un richiamo all´ordine e alla tradizione? Comunque, in ciascuna di queste ipotesi, sarebbe rivolta alla comunità dei fedeli e non certo ai laici.
Terza domanda: se vuole essere invece un centro di preparazione della nuova classe dirigente cattolica, questa sì sarebbe un´ottima cosa. I cattolici impegnati in politica finora, salvo rare e importanti eccezioni, hanno avuto Cristo sulle labbra e Mammona nel cuore. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Se è questo l´obiettivo di Todi, sarà benvenuto.
Quarta ed ultima domanda: oppure il nuovo soggetto sarà il Quartier generale di tutte le forze cattoliche variamente impegnate nei partiti, in Parlamento, nelle Regioni, nei Comuni, nelle istituzioni? Questo sarebbe alquanto preoccupante. In realtà questo Quartier generale c´è già ed è la Segreteria di Stato vaticana. Questo sarebbe un Quartier generale in sembianze laiche. Non mi sembra una grande idea e non credo che i veri cattolici socialmente impegnati la gradiranno. Per quanto so, la regola è questa: la Chiesa diffonde la sua etica, le sue richieste, i suoi valori; i cattolici politicamente impegnati cercano di sostenere quella dottrina tenendo tuttavia presente che le leggi riguardano tutti, cattolici e non cattolici, e che tutti i cittadini sono eguali di fronte alla legge in uno Stato laico e non teocratico.
Non c´è bisogno di molti Quartier generali dunque, uno basta e avanza.
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Concludo queste mie note con quanto è accaduto durante e dopo le votazioni di venerdì scorso alla Camera dei deputati sulla fiducia al governo. Le cronache ne hanno parlato diffusamente sicché mi soffermerò soltanto su alcune questioni non risolte.
1. Dopo la bocciatura di martedì scorso del Rendiconto generale dello Stato, tre questioni dovevano aver soluzione. Una era quella di risolvere quel problema estremamente complesso. Un´altra era verificare che il governo godesse ancora della fiducia del Parlamento. Un´altra ancora di constatare se la maggioranza avesse la credibilità e la compattezza necessaria ad affrontare i prossimi difficili appuntamenti politici ed economici. Tutti e tre questi obiettivi furono esplicitamente indicati dal capo dello Stato con pubbliche e chiarissime esternazioni.
2. La fiducia alla Camera è stata ottenuta e questa questione è quindi risolta.
3. La credibilità e la compattezza della maggioranza restano aperte e se ne avranno prove nei prossimi giorni e settimane soprattutto (ma non soltanto) su questioni economiche. Se i risultati richiesti dal Quirinale ci saranno il governo potrà andare avanti fino alla scadenza naturale della legislatura. Se non ci saranno il governo resterà egualmente in carica perché il Quirinale non ha gli strumenti necessari per farlo sloggiare senza un esplicito voto di sfiducia che finora non c´è stato anche a causa della compravendita di deputati e senatori che è avvenuta ed avviene sotto gli occhi schifati di tutto il Paese.
4. L´incidente (che non è affatto un incidente ma una questione di prima grandezza) del voto contrario dato dalla Camera sul Rendiconto generale non è stato ancora risolto. Il presidente della Repubblica, rispondendo l´altro ieri ad una lettera dei capigruppo di maggioranza, ha suggerito di ripresentare il Rendiconto al Senato dopo un ulteriore controllo della corte dei Conti. Così probabilmente avverrà sebbene esista una prassi secondo la quale quando una legge viene bocciata da una delle Assemblee, non viene ripresentata all´altra. Ma la prassi – quando è necessario – si può superare se non è esplicitamente vietata e questa non lo è.
5. Il Senato approverà certamente il Rendiconto e poi lo trasmetterà alla Camera affinché faccia altrettanto ma qui sorgerà un problema. Il regolamento della Camera prevede che una legge bocciata non possa essere ripresentata se non dopo sei mesi. Quindi, a rigor di logica, la Camera non dovrebbe mettere all´ordine del giorno il Rendiconto se non nel prossimo aprile con la conseguenza che il ministro del Tesoro sarebbe fino ad aprile sfiduciato su come ha gestito la pubblica finanza nell´esercizio 2010 e con lui l´intero governo di cui fa parte.
Debbo immaginare che gli uffici competenti del Quirinale conoscano questo problema e penso quindi di essere io in errore. Me lo auguro e mi farebbe piacere saperlo. Secondo me il solo modo per risolvere il problema erano le dimissioni del governo come insegnano i precedenti, anche perché la bocciatura del Rendiconto, cioè del consuntivo nell´esercizio 2010, è un voto estremamente politico. Significa che la Camera disapprova il modo con cui è stata amministrata l´economia in quell´esercizio. Più politico di così non ce n´è un altro.
Si obietterà che si tratta di questione procedurale. Obietto a mia volta che la procedura non è una formalità ma è la sostanza della politica, contiene le regole alle quali la politica deve conformarsi e affida alle autorità “terze” il compito di rispettarle e farle rispettare.
Vedremo come tutto questo finirà. Intanto abbiamo due viceministri e un sottosegretario in più ma non ho sentito che, a parte l´opposizione, questo vergognoso mercato sia stato censurato come si sarebbe meritato.

La repubblica 16.10.11

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“La follia dei replicanti armati”, di GAD LERNER

Una replica fuori tempo massimo dell´insurrezionalismo novecentesco si è sovrapposta con la violenza alla novità di un movimento democratico che lanciava la sua sfida creativa alla tirannia finanziaria. Ha preso la mira per sbriciolarlo e per impossessarsene, riconducendolo agli schemi di un´ideologia militaresca. Un´ideologia che i giovani di tutto il mondo, sia pure ribelli, avevano ripudiato da anni. A questo scopo i replicanti hanno sfregiato la città di Roma, calpestando la resistenza inutilmente opposta loro dal corteo formato in massima parte da un popolo che crede nella protesta pacifica; perché a loro piace ridurre ogni popolo a fenomeno criminale.
Vandalismi dissennati, offese gratuite a simboli religiosi, vili aggressioni che hanno gettato nella costernazione gli organizzatori della mobilitazione nazionale degli indignati. Come un maledetto déjà-vu si ripropone il dubbio che il nostro Paese sia impedito a vivere una stagione davvero nuova, in cui sfide anche radicali di cambiamento possano esprimersi sotto forma di confronto democratico. L´impressione è che anche le forze dell´ordine siano giunte impreparate all´appuntamento, come già accadeva negli anni in cui da più parti si puntava a imprigionare in una logica bellica il conflitto sociale. Ma questo dubbio non attenua di certo la condanna doverosa dei parassiti mascherati, capaci solo di recitare la parodia della guerriglia urbana.
Penoso è il confronto con le altre sollevazioni giovanili che hanno contraddistinto l´intero corso del 2011. Perfino quando i militari gli sparavano addosso, nel gennaio scorso, gli occupanti egiziani di piazza Tahrir hanno saputo prevalere grazie alle tecniche della nonviolenza. A Madrid in primavera gli indignados hanno circondato pacificamente il Parlamento. Tel Aviv ha convissuto per mesi con un accampamento nel suo boulevard centrale. A New York il sindaco ha rinunciato a sgomberare il Zuccotti Park di fronte al comportamento esemplare dei manifestanti. I saccheggi estivi a Londra nulla avevano a che fare con le rivendicazioni di giustizia sociale su cui s´è interconnesso il movimento “for global change”. Solo la Grecia ha conosciuto episodi di violenza ideologica simili a quelli perpetrati ieri a Roma, ma in un contesto di sofferenza sociale ben più acuto.
Gli spaccatutto incappucciati nostrani sono portatori di un arsenale ideologico per nulla rappresentativo delle realtà di disoccupazione, precariato, povertà che affliggono l´Italia contemporanea. Sono meri guastatori, cui dava solo fastidio il clima di comprensione e simpatia che da alcuni giorni cominciava ad aleggiare intorno alla protesta degli indignati.
Ieri mattina lo stesso Mario Draghi, pure additato come supremo rappresentante della cupola tecnocratica contro la quale era stata indetta la manifestazione, aveva riconosciuto le buone ragioni della protesta (anche se di certo non ne condivide gli obiettivi). E il premio Nobel statunitense Paul Krugman invitava i suoi colleghi economisti e i “sapientoni della finanza” a un esercizio di umiltà, visto il fallimento delle loro ricette: «I dimostranti hanno ragione». Così poteva, doveva accadere pure a Roma. Scendevano in piazza le avanguardie di un movimento rappresentativo di quella maggioranza della popolazione – forse non il “99 per cento” scandito negli slogan, ma comunque una larga maggioranza – rimasta vittima troppo a lungo di una scandalosa ripartizione del benessere a favore di pochi. Si erano inventati un linguaggio e delle forme di lotta aspre ma innovative, capaci di scavalcare i recinti di un confronto politico retrogrado. Proponevano soluzioni eretiche rispetto ai dogmi delle istituzioni finanziarie internazionali, forse impraticabili ma che era doveroso prendere in considerazione, come il default pilotato e il reddito di cittadinanza.
Temo che da oggi per un po´ non si potrà più scherzare sulla “santa insolvenza”, né discutere più seriamente sulla legittimità della lettera inviata dalla Bce al nostro governo. Perché gli indignados qui in Italia sono stati calpestati dai black bloc e ancora una volta, inevitabilmente, prioritario diviene il ripristino della sicurezza urbana. Un tetro alibi di ferro, regalato a una politica capace solo di balbettare di fronte ai giovani che rialzano la testa. A togliere loro la speranza, stavolta, ci provano degli zombie, sbucati fuori dal passato oscuro della nostra democrazia malata.

La Repubblica 16.10.11