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"Lo strappo delle minoranze violente", di Marco Rossi Doria

Il corteo si sta formando. Giovani dottori e infermieri da anni a contratto. Docenti precari e non. Disabili a cui tolgono aiuto. Operai in cassa integrazione da mesi. Donne giovani e non giovani, spesso con i figli, che stanno perdendo il lavoro e la dignità. Immigrati che lavorano al nero nei campi e nell’edilizia. E tanti ragazzi, universitari e lavoratori. Da Nord e da Sud. E non sono venuti con i bus e i treni speciali pagati dalle grandi organizzazioni, ma a spese proprie. Ci sono i suoni e i colori uguali agli altri 900 cortei del mondo. Bande, bongos, striscioni costruiti fuori da partiti e sindacati, teatro di strada. Colpisce l’assenza di astio e faziosità. Non è una piazza antiberlusconiana. E’ come se fosse il giorno nel quale nessuno s’interessa più a quell’anziano signore del tv color, come se finalmente si sapesse che abbiamo altro da fare.

Cos’è questa piazza? C’è la richiesta di poter fare bene il proprio lavoro o di poterne fare uno. Ma il tema è il mondo che vogliamo. Attenzione: non quello che non vogliamo, cosa più facile. Così, quando parli in giro le parole sono sul come tenere in piedi la cooperativa, come garantire la qualità dei servizi, come inventare lavoro, a chi può servire la cosa che hai imparato all’università. E c’è il chiedersi di mercato, competizione, produzione, senza questa finanza però. E con in testa i vincoli del pianeta, i consumi possibili, un altro modo di lavorare, le conoscenze e le tecnologie che lo rendono possibile. E c’è anche il desiderio o la richiesta o l’attesa di un’altra politica.

Poi ci sono anche le bandiere e gli spezzoni organizzati con i simboli del secolo breve. Mentre li guardo, incontro un’educatrice che conosco. Ha venticinque anni. «Non li guardare troppo mi dice -, sono fatti così, anche oggi devono mettere il loro bollino. Li trovi in ogni città. Vengono alle assemblee. Stanno sul web. Non ascoltano e riportano tutto alle loro ricette». Sì, in Italia è più difficile che altrove ricercare nuove risposte alle domande comuni. Perché ogni nuovo moto che nasce nel mondo deve fare i conti con la presenza di chi riconduce le cose alle categorie, ai segni e al lessico del secolo scorso, come non accade in altre parti del mondo. Presto la tristezza sparisce però. Il corteo è troppo più grande.

Ma ecco che – fuori da ogni rapporto con le diverse anime della piazza – piccoli gruppi si preparano. Vestiti di nero. Senza alcuna manifestazione di rabbia, in modo preordinato. Tutti con tascapane e casco. Alcuni sono più vecchi. Molti giovanissimi. E’ fuorviante chiamarli black bloc. Ci rassicura ma non spiega. Forse si deve finalmente dire che si ritrovano insieme professionisti della guerriglia urbana legati all’ eco dei brutti miti degli anni Settanta e piccole fraternità marginali, fondate sull’esaltazione del gesto distruttivo, giovani che cercano l’identità così, nelle curve degli stadi, nella rissa di quartiere, nell’occasione di piazza. A sera, calata l’adrenalina, li trovi ai soliti bar.

Sulla piazza ancora in formazione si capisce il pericolo. Lo capiamo in molti. Ma non c’è un servizio d’ordine che possa intervenire e la polizia non viene a chiedergli conto. Sarebbe anche difficile farlo. In poche decine di minuti la giornata va a finire male. L’energia positiva viene violentemente scippata nonostante gli sforzi di tanti. Solo qualche spezzone di corteo pacifico, indomito, ce la fa. La frustrazione è enorme. Molte persone piangono. In tanti riconoscono che la polizia non ha attaccato in modo indistinto e che i manifestanti hanno creato un solco profondo con chi ha violato la giornata. Queste due cose hanno evitato esiti ancora peggiori e sono una promessa di possibilità.

Restano le domande. Perché dopo decenni tornano sempre le minoranze violente che tolgono potere ai tanti? Quali lunghe rimozioni permettono ancora questa cosa terribile? Il governo nazionale e una politica bloccate – così chiaramente incapaci di dare risposte alle domande del Paese – non contribuiscono a farci ritornare ogni volta indietro?

Delle cose si possono fare. I processi rapidi e rigorosi, che sapppiano inchiodare chi è stato alle sue responsabilità. Il sostegno – da parte di un movimento che voglia continuare a pensare e a manifestare – della necessità, per chi è stato violento, di scontare la pena. E un dibattito politico che per una volta eviti di avvitarsi intorno ai soliti cliché e dia spazio ai temi di questa piazza. Perché sono preziosi.

La Stampa 17.10.11

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“Lo snodo tra politica e antipolitica”, di GIAN ENRICO RUSCONI

Perché succede solo qui?», «Perché anche oggi ci tocca vergognarci?», si chiedeva ieri il direttore di questo giornale commentando le violenze di Roma confrontandole con le manifestazioni pacifiche degli «indignati» del mondo intero. Manca «un pensiero costruttivo» – continuava -, riferendosi non solo all’evidente impotenza delle classi dirigenti, ma anche all’incapacità del discorso pubblico e giornalistico di offrire accanto alle diagnosi critiche (spesso catastrofistiche) prospettive positive. Prospettive che non ricalchino le inconsistenti assicurazioni governative.

C’è insomma incapacità di trasmettere – ai giovani innanzitutto – se non ottimismo, quantomeno una sobria certezza che il nostro Paese ha risorse e strumenti per farcela. Non sfasciando le banche, ad esempio, ma riportandole al loro ruolo economico corretto.

Ma per fare questo ci vuole una politica intelligente, forte e coraggiosa.

Una politica che può contare sul consenso di chi pur sentendosi tartassato o addirittura «privato del futuro», è disposto ad affrontare una fase dura di passaggio, perché ha fiducia nel progetto di chi lo dirige. Questo significa «partecipare» in una democrazia rappresentativa.

Democrazia rappresentativa? Fiducia nella classe dirigente? Consenso? Politica? Sono parole diventate incomprensibili, impronunciabili per un’intera generazione. Eppure questa generazione, rimobilitandosi, azzerando il consenso politico convenzionale, incomincia a suo modo a fare politica da capo senza nessuna delle ideologie tradizionali (avendo inconsciamente forse soltanto quella di «democrazia diretta»).

Come si è arrivati a questa estraneazione tra il linguaggio dei giovani in piazza e quello della politica convenzionale che risuona, stonata, sulla bocca di qualche politico che sta dalla loro parte? C’è un qualche nesso tra l’estraneazione dei linguaggi pubblici e la violenza distruttiva comparsa nei momenti più intensi della mobilitazione? Proprio nei momenti della polemica reinvenzione della partecipazione politica? Come spiegare questa violenza, oltre che condannarla senza esitazione?

Si obietterà che la violenza urbana si è manifestata in modo clamoroso in molte altre parti d’Europa ancora recentemente. A Londra alcuni mesi fa, nelle banlieues di Parigi anni orsono o ancora in modo meno esteso in alcuni Paesi nordici. Ieri da noi il pensiero è corso subito a quanto è accaduto Genova in occasione del G8 di qualche anno fa. Un episodio che non a caso è rimasto profondamente impresso nella memoria collettiva.

Ma la situazione che si è creata recentemente con i cosiddetti «indignati» presenta alcune novità. Innanzitutto come forma di mobilitazione non nasce in Italia quasi all’improvviso, come in altre parti del mondo. Nei mesi scorsi ci sono state le imponenti manifestazioni delle donne, dei sindacati, di altri gruppi di mobilitazione civile. Lo si riconosca o no, c’è una continuità oggettiva, un allargamento della mobilitazione a partire da parole d’ordine specifiche che alla fine convergono nella contestazione della politica dei governi in generale e del governo italiano in particolare. In alcuni casi questa contestazione è esplicita e puntuale, in altri assume tratti più generali. Ma non si può negare che la manifestazione romana avesse in sé oggettivamente un potenziale politico più netto e mirato che non quella a New York o altrove.

Qui si inserisce la violenza organizzata dei black bloc. Che avessero o no programmato i loro atti vandalici, essi sapevano che a Roma potevano agire come a Genova. Potevano introdurre nella manifestazione una componente che le avrebbe fatto cambiare natura. Venivano «dal di fuori» (non necessariamente da fuori Italia), ma certamente da «fuori dal movimento», eppure erano in grado di condizionarlo. Non c’è bisogno di ipotizzare complotti. Si sono comportati d’istinto come criminali politici che giocano sulla fragilità della fase di incertezza che sta attraversando il Paese e quindi sui potenziali ambivalenti di rinnovamento e di regressione che portano in sé i nuovi movimenti. E’ sin troppo facile denunciare i black bloc come corpi estranei ed ostili alla società civile. Ma alla loro maniera delinquente segnalano uno snodo cruciale che il nostro Paese sta attraversando tra politica, antipolitica e prepolitica.

Davanti ad una classe politica estenuata e logorata, come antidoto molti guardano alle risorse alternative che potrebbero provenire dalla «prepolitica» – un concetto che si sta diffondendo quasi a surrogare l’abusata espressione di «società civile». In questo contesto per singolare coincidenza oggi a Todi c’è un importante incontro di responsabili di associazioni cattoliche che programmaticamente si collocano tra politica e prepolitica. In questi anni abbiamo visto un mondo cattolico diviso. Una sua parte significativa è stata sedotta, ricattata, resa complice (tramite i suoi rappresentanti tuttora ben istallati nel sistema berlusconiano) dalla politica che oggi boccheggia. Adesso qualcosa si muove. Le attese sono molte, forse esagerate. Ma sullo sfondo di una Roma vandalizzata va mobilitata ogni risorsa

La Stampa 17.10.11

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“La piazza e i nerovestiti”, di ADRIANO SOFRI

1. Il governatore Draghi ha detto due cose ottime. Prima, che i giovani arrabbiati hanno ragione. Dopo, che è stato un peccato. Draghi era diventato l´avversario principale della manifestazione, lui e Trichet e la lettera di istruzioni. Che ha precetti insopportabili, e un orizzonte assai discutibile. Però fa le veci di un inesistente governo politico e dunque economico europeo.
La Bce sta all´economia italiana come la Procura di Milano stette alla politica. Piuttosto sbrigativamente, il “movimento” ha fatto di un´estrema ipotesi – l´uscita dall´euro e la disdetta del debito – addirittura uno slogan. Rivendicando di fatto la restituzione della politica confiscata dalla finanza agli Stati e ai governi nazionali: prospettiva tristissima. Magari la “confisca” delle scelte nazionali avvenisse ad opera di un governo federale europeo. Il quale, nonostante i passi indietro e le frustrazioni per la supplenza della Bce, deve restare l´obiettivo di un´alternativa alla crisi e allo scioglilingua della crescita. È un peccato – come direbbe Draghi – che nelle sinistre ereditarie e in nuovi lanciatori di sassi torni ogni volta il riflesso condizionato delle sovranità statali: che si tratti del diritto internazionale o della invadenza finanziaria.
2. La plastica citazione dell´estintore, il crocifisso decapitato: mancava solo l´assalto a una chiesa copta. Ogni volta che una grande manifestazione viene sequestrata da riti compiaciuti di violenza, mi devo ricordare d´esser stato lanciatore di sassi. È solo un caso di vecchiaia, o è cambiato anche qualcos´altro? Mi pare di sì. Intanto, l´attenzione alla nonviolenza, o almeno l´appannamento del fascino della violenza, qui e nel mondo. Si sono prese distanze, a volte maramaldesche, spesso rispettose e sofferte, da intere tradizioni combattenti: hanno giocato fortemente il femminismo e la scoperta dell´agonia del pianeta. Che la ribellione che scuote i paesi arabi, a un costo spaventoso, abbia preso la strada della nonviolenza, è una meraviglia imprevista, qualunque infamia prenda il ritorno all´ordine. Anche la ribellione negli Stati Uniti, che emula quella degli anni ´60, ma con un presidente nero e senza un Vietnam da cui disertare. Da noi, c´è un pensiero che a chiunque della vecchia generazione gira per la testa, sia che lo esorcizzi sia che ci rimugini: che se il contesto internazionale, la politica e le forze di polizia fossero quelle degli anni´70 – cominciati in realtà con una strage di Stato nel 1969 e finiti molto più tardi – una consunzione di governo come quella dell´Italia di oggi avrebbe già sperimentato sangue e colpi di mano. Che questo non sia successo – non ancora, per scongiuro – dipende da tanti fattori, ma anche da un cambiamento nelle forze dell´ordine. Le quali diedero una complessiva orribile prova di sé, e della loro guida politica, dieci anni fa a Genova; e loro gruppi e membri, in circostanze più quotidiane, si rendono responsabili di crimini e soperchierie. Si riparlava ieri della morte in caserma del giovane Giuseppe Uva, per la tenacia di una sorella, come per Stefano Cucchi. Tuttavia la polizia, le polizie, sono diverse. E sono diversi i giovani che si trovano di fronte. È più difficile descrivere gli uni come figli di papà col capriccio della violenza e gli altri come figli del popolo votati all´obbedienza cieca. Però, temo – parliamo di cose mal conosciute, perché la società si è fatta opaca e straniera a se stessa – a questi cambiamenti non ha corrisposto un cambiamento adeguato di mentalità e sentimenti. I “guastatori nerovestiti” (così li chiamava ieri il Manifesto, oscillando fra questa definizione e altre più cattivanti) sembrano persone che hanno deciso che impiego fare del proprio tempo e delle proprie mani, puntuali agli appuntamenti altrui. Non sono affare di dialogo, non nel breve periodo, comunque: andranno a finire da qualche parte, e speriamo che non sia la parte peggiore. Tutt´al più, conviene riconoscere che non sono così pochi come ci piacerebbe. E che centinaia di giovani attrezzati, e figuriamoci migliaia, sono in grado di far deragliare qualunque corteo pacifico, e tanto più quanto più grande è la partecipazione a quel corteo, come a Roma. La questione vera è nella moltitudine di ragazze e ragazzi giovanissimi, delle scuole più che dell´università, che la sismologia della crisi spinge nelle strade e che sono soli, devono inventarsi o prendere in prestito idee drastiche – che non eccedano la lunghezza di uno striscione – e imparano che almeno un punto fermo c´è: lo scontro con la polizia, ineluttabile e nobile, un´iniziazione. Può servire uno stadio o la piazza, magari passando con la stessa divisa dagli stadi alle piazze. Questo è un punto cruciale. Lo scorso 14 dicembre romano, gli scontri furono intensi e rabbiosi come uno sfogo, e furono essenzialmente l´azione spontanea di questi ragazzi. Sbaglia chi assimila le due giornate. Al contrario, il 15 ottobre ha esposto molti di quei ragazzi all´arruolamento dei sottufficiali di carriera nerovestiti, perché bisogna avere argomenti forti per dissociarsi quando la bagarre si scatena, e le cariche non distinguono: e soprattutto un argomento fortissimo, che battersi contro la polizia non è un dovere morale, né una prova di sé.
3. Corollario inevitabile. Le manifestazioni hanno bisogno di tutelarsi, e dunque di avere un servizio d´ordine. Ma i servizi d´ordine non sono la soluzione, solo un suo ingrediente. I servizi d´ordine che si illudano di essere autosufficienti diventano incubatori di violenza concorrente con quella che vogliono sventare. Non c´è niente di peggio di una polizia parallela. Le manifestazioni non possono tutelarsi da disastri simili che con l´accordo fra manifestanti e polizia. Questo avviene, più o meno ipocritamente, ed è avvenuto anche alla vigilia di sabato, ma non abbastanza e non bene, evidentemente. Non me ne intendo, ma concordare lo svolgimento di manifestazioni che si vogliono libere e nonviolente senza ipocrisia vuol dire assegnare agli uni e agli altri la responsabilità che spetta loro. E ostacolare l´impiego strumentale della polizia per convenienze come l´allarme suscitato dalla violenza e le accuse mosse agli avversari politici. Anche la polizia non può risolvere da sola una violenza come quella di sabato (quando pure non sia lei a provocarla): tanto più se miri a non farci scappare il morto. E il morto, sabato, sarebbe stato un carabiniere, se non fosse scappato.
4. Ultimo punto. Ormai il rapporto fra politica di professione e “movimento”, cioè movimenti, è diventato un capitolo della separazione fra garantiti e precari: quelli che di politica vivono, e stentano sempre più (ammesso che ci provino) a “infiltrarsi”, come dovrebbero, nei movimenti; e quelli che non hanno di che vivere o poco, e ne nutrono la propria politica. Topi di città e di campagna, che non si incontrano. I secondi pensano di ricominciare da zero. I primi pensano per lo più che i movimenti passano, gli assessori restano. Possono avere brutte sorprese.

La Repubblica 17.10.11

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“Quei violenti si dovevano fermare prima del corteo” – Intervista a Emanuele Fiano

“Quell`uomo ha visto la morte in faccia, è vivo per miracolo”: è una scena di terrore, quella che il carabiniere ha raccontato al suo letto dell`Umberto I° a Emanuele Fiano. Il responsabile per la sicurezza Pd ieri ha portato un saluto e la solidarietà agli agenti e ai manifestanti feriti l`altro giorno, tra di loro anche l`autista del blindato dell`Arma che è stato accerchiato e dato alle fiamme in piazza San Giovanni. «Ho incontrato anche il ragazzo di Sel che si è ferito alla mano cercando di neutralizzare una bomba carta tirata in mezzo al corteo. Per fortuna non ha perso le dita come si era detto, però ha perso funzionalità e gli servirà la chirurgia plastica».
Quaranta feriti tra le forze dell`ordine e una ventina di manifestanti: un bollettino di guerra.
Si poteva evitare?
«E’ esattamente questo il punto più importante, il tema della prevenzione. Martedì in Senato sentiremo da Maroni cosa deve dirci il governo, ma ci pare che ci fossero tutte le informazioni per impedire a questi violenti di professioni di arrivare alla manifestazione e mescolarsi alla parte pacifica, che era poi il 99%. Servivano controlli e filtri, insomma tutta un`attività di separazione della parte sana del corteo da quella violenta che non può che spettare allo Stato, anche se in alcuni momenti sono stati gli stessi manifestanti ad adoperarsi e hanno applaudito le forze dell`ordine quando sono riuscite a isolare i peggiori elementi».
Inevitabile quindi una riflessione sulla gestione della piazza?
“Crediamo al questore e al prefetto quando dicono che la strategia delle forze dell`ordine ha cercato di evitare situazioni più difficili o estreme, ma l`intenzione di bloccare i manifestanti all`interno del percorso, per proteggere le sedi istituzionali e i centri nevralgici, mi lascia l`impressione che occorressero molti più uomini e mezzi per poter raggiungere lo scopo. Infatti in diverse situazioni, a cominciare da quella a San Giovanni che poi purtroppo è degenerata, abbiamo visto che i violenti erano in maggioranza rispetto alle forze di polizia che dovevano contrastarli. Penso infatti a quegli uomini e a quelle donne in divisa che devono operare sempre piu spesso senza strumenti e dotazioni, aggiungo anche mettendo a repentaglio la propria dignità, perché non è certo facile andare in una piazza sapendo di prendere le botte». I tagli alla sicurezza, come si è visto sabato scorso, rendono sempre più difficile il compito delle forze dell`ordine.
«Sono stati tagliati 4 miliardi negli ultimi 4 anni al comparto sicurezza e di fronte a questo, francamente, fa davvero sorridere che due membri del governo come Mantovano e Crosetto dicano di voler cancellare l`ultimo taglio di 60 milioni. E una posizione strumentale che ricade sulle stesse forze dell`ordine che affrontano sulla propria pelle le scelte dell`esecutivo».
A proposito di strumentalizzazioni: c`è il rischio che quelle centinaia di violenti oscurino le ragioni di chi ha diritto a scendere in piazza?
«A prescindere da ogni dietrologia, noi dobbiamo essere la diga contro ogni trasformazione della protesta in violenza. Il dissenso è il cuore della democrazia, la violenza il suo nemico e non la sopporteremo mai, in qualsiasi forma o modo».

L’Unità 17.10.11

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“Le spranghe e i bastoni poi i colpi in faccia mai vista tanta violenza”, di Mauro Favale

Mi hanno colpito in pieno viso, mi hanno rotto il naso, la faccia. Ho aperto lo sportello e via
Mi sono venuti addosso, credo avessero anche un´asse di legno. Hanno sfondato il finestrino
Ero sul mezzo da solo, stavo indietreggiando ma le ruote sono rimaste incastrate. «Anche queste sono esperienze». Il sorriso di Fabio è tirato, quasi una smorfia di rassegnazione. Gira gli occhi verso la finestra alla sua sinistra, guarda fuori dalla stanza al primo piano del policlinico Umberto I di Roma che divide con altre due persone. È ricoverato da poco più di 24 ore, da quando con un balzo e con il sangue che gli colava sulla faccia è riuscito a scappare dal blindato dei carabinieri che stava guidando in piazza San Giovanni, nel momento cruciale degli scontri di sabato, subito prima che il mezzo finisse definitivamente nella mani dei “neri”, distrutto e incendiato. Il trofeo di una giornata di guerriglia che tutti ricorderanno a lungo. «Sono sceso e ho corso. Ho corso e basta finché i miei colleghi non sono riusciti a salvarmi». Stringe il cellulare tra le mani, ha un occhio gonfio e viola che sembra una grossa prugna. «Guardi il naso: è tutto storto, rotto», si gira, mostrando il suo profilo al senatore dell´Idv Stefano Pedica che è passato a portargli la solidarietà sua e di Antonio Di Pietro. L´altra notte non ha dormito, è stanco. Ha 31 anni, indossa una maglietta bianca. Con un fazzoletto si tampona l´occhio gonfio.
Come sta?
«Così, come mi vede. E mi è andata bene. Domani verrò operato. Poi mi diranno per quanto ne avrò».
Cosa è successo quando l´hanno attaccata?
«Ero sul blindato, da solo. Con me non c´era nessun altro, il mezzo era vuoto. Stavo indietreggiando. Mentre facevo manovra sentivo che le ruote giravano a vuoto. Sull´asfalto c´era di tutto: cubetti di porfido, bastoni, assi di legno, segnali stradali».
Ed è rimasto incastrato.
«Sì. Mi sono venuti addosso, mi hanno attaccato in quel punto. Credo avessero spranghe e un´asse di legno, qualcosa di appuntito, perché sono riusciti a rompere prima lo specchietto e poi direttamente il finestrino. È allora che mi hanno colpito».
Dove?
«In pieno viso. Mi hanno rotto il naso, la faccia. Meno male avevo il casco. Solo così mi sono salvato».
E a quel punto?
«Ho aperto lo sportello, sono sceso giù e ho cominciato a correre. Me li sentivo dietro, mi lanciavano di tutto. Fortunatamente sono riuscito ad arrivare dopo pochi metri vicino ad alcuni colleghi che mi hanno messo in sicurezza».
Non ha pensato di difendersi in qualche modo?
«Ho pensato solo a correre, il resto quasi non riesco a ricordarlo».
Sente di aver rischiato la vita?
«Diciamo che sono stato molto fortunato».
Aveva già avuto esperienze di scontri in piazza?
«Di manifestazioni ne ho fatte, sì. Ma una cosa del genere non l´ho mai vista».
È stato al G8 di Genova o in piazza del Popolo il 14 dicembre?
«No, non ero a Genova e nemmeno agli scontri di dieci mesi fa. Però mi hanno detto che sabato è stato molto peggio. Mi hanno mostrato qualche foto. Ho visto il mezzo che guidavo in fiamme, completamente distrutto».
Quell´immagine è diventata il simbolo della manifestazione.
«Sì, ho visto. Però ho visto anche tantissimi manifestanti pacifici che se la sono presa con i teppisti, li hanno cacciati via, gli urlavano contro. Questa, nonostante tutto, è stata per me una grande soddisfazione. Manifesta, se vuoi, contesta anche. Ma fallo pacificamente».

La Repubblica 17.10.11

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“E l´abbraccio tra la ragazza e il poliziotto diventa il simbolo dell´altra San Giovanni”, di MARIA NOVELLA DE LUCA

Piazza San Giovanni brucia, è il pomeriggio di due giorni fa: la ragazza e il poliziotto si guardano, parlano, sembrano capirsi. È un attimo, un “secondo rubato” come ha scritto qualcuno su Facebook, uno spicchio di pace in un giorno di guerra. Sono vicini, quasi volessero superare un checkpoint invisibile, lei fa parte del gruppo dei pacifisti, lui le appoggia paterno una mano sulla spalla, con un gesto che assomiglia ad una carezza: non siamo nemici, non doveva andare così. Un “abbraccio”, forse, tra reduci di un giorno sbagliato. Intorno gli ultimi scontri, la piazza in macerie, il fumo tossico che annerisce il cielo. Guardatela questa foto, anzi questa sequenza di foto, che la Rete ha eletto a simbolo del cuore vero della battaglia degli indignati d´Italia: isolati i violenti la protesta è di tutti, ragazzi senza lavoro e celerini con stipendi da fame, giovani e vecchi, chi picchia e chi scappa con la stessa paura, anche se poi accade che ci si trovi sui lati opposti di una piazza, che contiene in realtà il disagio di entrambi. Lo scriveva Pasolini, era il 1968, oltre quarant´anni fa.
Quello che colpisce tra la ragazza e il poliziotto sono gli sguardi diretti, fermi, senza astio e senza paura, anzi quasi complici e consapevoli che sabato a Roma è morta la speranza di molti. E infatti la fotografia gira su Facebook, gli amici la inviano agli amici, molti erano lì, a San Giovanni, “guardate, era giusto avanzare con le mani alzate”, “la global revolution è pacifica”, “ecco chi siamo davvero”. Perché c´è molto ancora da raccontare di quel 15 ottobre di sangue quando la guerriglia ha oscurato il sogno italiano del “Rise up”, il mondo che si solleva e insorge contro la dittatura dell´economia drogata. C´è da raccontare che allontanati i “neri” con i loro sacchi di spranghe, è accaduto l´impensabile: i ragazzi e i poliziotti hanno parlato, faccia a faccia. Del resto per ore un folto gruppo di manifestanti aveva cercato di fermare gli scontri, stendendosi sull´asfalto, facendo barriera umana tra i black bloc e i blindati. Provando a dialogare con i caschi azzurri in assetto di guerra, come fa, appunto, la ragazza della fotografia, e anche un altro giovane che al celerino stringe la mano.
«Potremmo essere i vostri figli e fratelli – spiegavano esausti i giovani “indignati” di “Assemblea piazza San Giovanni”, coraggioso presidio pacifista – perché ci avete attaccato con tanta violenza senza distinguere tra chi aggrediva e chi no, tra di noi c´erano mamme, bambini, nonni, disabili, vi tagliano gli stipendi, rischiate la vita, perché ubbidite a questi ordini…». Gli agenti ascoltano. Silenziosi. Poche parole: «È il nostro mestiere, noi dobbiamo isolare i violenti». Non è facile con un divisa addosso, e in mezzo ad una città a ferro e fuoco, parlare con un gruppo di giovani che ti guardano negli occhi. Però ci si può stringere la mano: “Coraggio ragazzi”.

La Repubblica 17.10.11