attualità

"Senza ambiguità", di Claudio Sardo

I teppisti e i violenti, identificati nelle immagini dei Black bloc, non sono una propaggine naturale e inevitabile dei centomila manifestanti di sabato a Roma.Ne sono piuttosto la negazione politica e antropologica. Sono i devastatori. I violentatori, come ha titolato l’Unità usando una metafora estrema. Ieri i resoconti dei quotidiani erano divisi tra due opposte interpretazioni. A destra ovviamente prevaleva la lettura contraria alla nostra: i criminali sono stati descritti come un’espressione del movimento, con il corollario della delegittimazione completa delle istanze e delle aspettative dei manifestanti.Vadetto, a onor del vero, che qualcuno anche a destra comincia a interrogarsi sulla portata mondiale di questa ribellione. In fondo, di fronte al dominio della finanza,emerge una domanda primordiale di politica democratica. Ciò che ha colpito ieri è stata la posizione de il Manifesto. Nell’editoriale Valentino Parlato ha scritto che gli scontri con la polizia e le manifestazioni di violenza erano «inevitabili». Anzi, che «è bene, istruttivo che ci siano stati». Il senso di queste parole non sta certo in una giustificazione soggettiva della violenza, piuttosto nella sottolineatura del suo carattere strutturale,comeunriflesso della violenza della crisi. Tuttavia il ragionamento conduce a un esito non accettabile, per di più simile a quello della destra.
In nessuna piazza del mondo si è vista la violenza devastatrice dei black bloc nostrani: e non basta certo la crisi del nostro sistema politico per giustificarla. Anzi, è proprio il contesto mondiale a evidenziare l’estraneità di questi delinquenti mascherati. Naturalmente nessuno
può negare la radicata contiguità di alcuni gruppi antagonisti. Ma il problema in questo caso non è il riflesso strutturale della crisi, bensì la vulnerabilità di un movimento allo stato nascente e perciò ancora «liquido». Toccherà ora agli indignati andare oltre l’indignazione per costruire reti di solidarietà e forme politiche. È una strada difficile, mala sola produttrice di cambiamento per la società. In questo percorso la condanna senza esitazioni e ambiguità della violenza è condizione morale e civile. La reazione anti-black bloc della stragrande maggioranza del corteo di sabato è un segno positivo, che indica quanto sia avvertita la pericolosità (innanzitutto per quel popolo) della violenza cieca. E reazionaria.

L’Unità 17.10.11

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“Anarchici, No Tav e ultras il melting pot dei 12 arrestati e uno su quattro è minorenne”, di Carlo Bonini

Un mattinale di questura non è lo specchio del mondo. Ma quello di ieri, domenica 16 ottobre, è un lacerto su un sabato di odio. I “neri” in arresto sono dodici (oggi in Tribunale a Roma, l´udienza di un gip dovrà convalidarli o meno), mentre 11 hanno lasciato la questura nella notte precedente, denunciati a piede libero per «resistenza aggravata» e «possesso di armi improprie atte a offendere». Piccoli numeri per “piccoli reati”, certo. Che tuttavia documentano qualche storia. E qualche data di nascita. Che raccontano, tanto per cominciare, che cinque di questi ragazzi e ragazze non hanno ancora 18 anni (sono stati tutti rilasciati). Mentre la memoria politica della generazione cui appartengono i maggiorenni (tra i 20 e i 30 anni) ha conosciuto a stento la Prima Repubblica e il suo crollo.
I romani sono molti. E chi non vive in città, arriva dalla sua cintura urbana. Dalla solitudine disperante e sociopatica delle sue periferie. Alessandro V. e suo fratello gemello Giovanni (30 anni) sono di Ienne, un quadrante di case popolari oltre Tor Bella Monaca, chiuso tra la Casilina e Torre Gaia. Giuseppe C. (21 anni) vive ad Ardea, la lingua di cemento che senza soluzione di continuità allunga Roma a sud Ovest, verso il litorale Pontino. A poca distanza da Pomezia dove, sabato mattina alle 11, i carabinieri fermano una 600 verde su cui viaggiano un uomo e tre ragazze. La macchina, intercettata da una pattuglia dei carabinieri, è diretta a Roma. Prova ad abbozzare una fuga. Che finisce subito. Dal bagagliaio della seicento, saltano fuori cinque zaini con quattro caschi da motociclista, dieci maschere antigas con i filtri montati, cinquecento biglie di vetro e una grande fionda per tirarle. E ancora: quattro mefisti neri, quattro parastinchi, due mazzette da muratore, un piede di porco, «quattro bottiglie – annota il verbale di sequestro – con liquido bianco, la cui natura è da accertare».
L´uomo alla guida si chiama Pierfelice P. e non è esattamente un ragazzino. Ha 40 anni e vive a Rovereto (provincia di Trento). La sua storia di anarco-insurrezionalista è antica e lunga, come i suoi precedenti di polizia («porto d´arma impropria, violazione delle disposizioni di ordine pubblico, devastazione e saccheggio, oltraggio») e la sua condizione di «sottoposto a misura di prevenzione». Accanto a lui, in macchina, siede la sua compagna. Si chiama Federica R., ed è di 9 anni più giovane. Anche la sua foto segnaletica è da anni negli schedari della polizia di prevenzione e del Ros dei carabinieri. Anche lei è anarchica da sempre. Da quando, nel 2001, cominciano le annotazioni al terminale del Viminale. È accusata di reati di un qualche peso («associazione con finalità di terrorismo, propaganda e apologia sovversiva, associazione a delinquere, adunata sediziosa, stampa clandestina»). Ed è imputata a Perugia in un processo in cui risponde del piano che, due anni fa, avrebbe dovuto paralizzare la rete dell´Alta Velocità. Un gancio d´acciaio deposto con una canna da pesca sulla linea elettrica della Roma-Orte, da far trascinare dal pantografo dei treni in corsa lungo la linea, per tranciarne l´alimentazione.
«Federica non è una qualunque», racconta uno dei carabinieri che su di lei ha lavorato in questi anni. «Ha testa». Come ce l´hanno le amiche che le siedono accanto nella seicento. Chiara Z., 39 anni, marchigiana di san Benedetto del Tronto, e Caterina C., sarda di Bari Sardo (Nuoro), 41 anni. Anarco-insurrezionaliste come lei. La prima (Chiara) – si legge ancora nei brogliacci di polizia – ha «precedenti per adunata sediziosa, rissa, violazione delle disposizioni su riunioni in luogo pubblico». Caterina frequenta la redazione di “Radio Onda Rossa” e ha già conosciuto le questure per le occupazioni cui ha partecipato.
Sabato, Pierfelice, Federica, Chiara e Caterina, non riescono a raggiungere Roma con il loro “carico”. Ma per una macchina – la loro – che viene fermata, altre decine entrano in città. Lo prevede il piano di mobilitazione che i “neri” hanno scambiato in rete (ed è in rete, non a caso, che ora gli addetti alla sicurezza del Viminale dicono di aver concentrato queste prime battute della loro inchiesta). Quel piano che a Roma, in piazza san Giovanni prima e in questo mattinale, poi, fa incrociare storie di chi arriva da lontano. Come Valerio P., 21 anni, salentino di san Pietro Vernotico (provincia di Brindisi). Una residenza ufficiale a Lecce, dove vive la famiglia e una stanza a Bologna, dove frequenta l´università. Raccontano che quando torna a casa frequenti il centro sociale “Caos”, che bazzichi la curva degli ultras del Lecce. Che lo conoscano in parecchi. Non come Giovanni C., un anno più vecchio di Valerio, pugliese come lui, ma di Terlizzi (Bari). Gli agenti del commissariato Prati lo arrestano in piazzale Appio, non lontano da san Giovanni e quando lui si siede sulla sedia del commissariato comincia a raccontare una storia che con la Puglia non ha più a che fare da tempo. Da quando ha scelto di andare a vivere a Barcellona. In Italia – racconta Giovanni a chi lo ha arrestato – “scende” quando c´è da fare la “guerra”. Come sabato.

La Repubblica 17.10.11

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“Il black bloc: ci addestriamo in Grecia”, CARLO BONINI E GIULIANO FOSCHINI

F. è un “nero”. Ha 30 anni all´anagrafe, una laurea, un lavoro precario e tutta la rabbia del mondo in corpo. Sabato le sue mani hanno devastato Roma. È da un anno che ci prepariamo. Ad Atene ci hanno insegnato che la guerriglia è un´arte e che si vince con l´organizzazione
Abbiamo agito divisi in falangi, come fanno i reparti della celere. Per noi questa è una guerra Ed è appena all´inizio E lui, ora, ne sorride compiaciuto. «Poteva esserci il morto in piazza? Perché, quanti morti fa ogni giorno questo Sistema? Chi sono gli assassini delle operaie di Barletta?».
Non i poliziotti o i carabinieri a 1.300 euro al mese su cui vi siete avventati, magari. Non quelli che pagano a rate le macchine che avete bruciato. Non il Movimento in cui vi siete nascosti.
«Noi non ci siamo nascosti. Il Movimento finge di non conoscerci. Ma sa benissimo chi siamo. E sapeva quello che intendevamo fare. Come lo sapevano gli sbirri. Lo abbiamo annunciato pubblicamente cosa sarebbe stato il nostro 15 ottobre. Ora i “capetti” del Movimento fanno le anime belle. Ma è una favola. Mettiamola così: forse ora saranno costretti finalmente a dire da che parte stanno. Ripeto: tutti sapevano cosa volevamo fare. E sapevano che lo sappiamo fare. Perché ci prepariamo da un anno».
Vi preparate?
F. sorride di nuovo. «Abbiamo fatto il “master” in Grecia».
Quale “master”?
«Per un anno, una volta al mese, siamo partiti in traghetto da Brindisi con biglietti di posto ponte, perché non si sa mai che a qualcuno viene voglia di controllare. E i compagni ateniesi ci hanno fatto capire che la guerriglia urbana è un´arte in cui vince l´organizzazione. Un anno fa, avevamo solo una gran voglia di sfasciare tutto. Ora sappiamo come sfasciare. A Roma, abbiamo vinto perché avevamo un piano, un´organizzazione».
Quale organizzazione avevate?
«Eravamo divisi in due “falangi”. I primi 500 si sono armati a inizio manifestazione e avevano il compito di devastare via Cavour. Altri 300 li proteggevano alle spalle, per evitare che il corteo potesse isolarli. L´ordine che avevano i 300 era di non tirare fuori né caschi, né maschere antigas, né biglie, né molotov, né mazzette fino a quando il corteo non avesse girato largo Corrado Ricci. Non volevamo scoprire con gli sbirri i nostri veri numeri. E volevamo convincerli che ci saremmo accontentati di sfasciare via Cavour. Ci sono cascati. Hanno fatto quello che prevedevamo. Ci hanno lasciato sfilare in via Labicana e quando ci hanno attaccato lì, anche la seconda falange dei 300 ha cominciato a combattere. E così hanno scoperto quanti eravamo davvero. A quel punto, avevamo vinto la battaglia. Anche se loro, gli sbirri, per capirlo hanno dovuto aspettare di arrivare in piazza San Giovanni, dove abbiamo giocato l´ultima sorpresa».
Quale?
«La sera di venerdì avevamo lasciato un ducato bianco all´altezza degli archi che portano in via Sannio. Dentro quel Ducato avevamo armi per vincere non una battaglia, ma la guerra. Il resto delle mazze e dei sassi lo abbiamo recuperato nel cantiere della metropolitana in via Emanuele Filiberto».
Sarebbe andata diversamente se avessero caricato subito il corteo in largo Corrado Ricci e vi avessero isolati.
«Non lo hanno fatto perché, come ci hanno insegnato a fare i compagni greci, sono stati confusi dal modo in cui funzionano le nostre “falangi”».
Come funzionano?
«Siamo divisi in batterie da 12, 15. E ogni batteria è divisa in tre gruppi di specialisti. C´è chi arma, recuperando in strada sassi, bastoni, spranghe, fioriere. C´è chi lancia o usa le armi che quel gruppo ha recuperato. E infine ci sono gli specialisti delle bombe carta. Organizzati in questo modo, siamo in grado di assicurare un volume di fuoco continuo. E soprattutto siamo molto snelli. Ci muoviamo con grande rapidità e sembriamo meno di quanti in realtà siamo».
È la stessa organizzazione con cui funzionano i reparti celere.
«Esatto. Peccato che se lo siano dimenticato. Dal G8 di Genova in poi si muovono sempre più lentamente. Quei loro blindati sono bersagli straordinari. Soprattutto quando devono arretrare dopo una carica di alleggerimento. Prenderli ai fianchi è uno scherzo. Squarci due ruote, infili un fumogeno o una bomba carta vicino al serbatoio ed è fatta».
Parli come un militare.
«Parlo come uno che è in guerra».
Ma di quale guerra parli?
«Non l´ho dichiarata io. L´hanno dichiarata loro».
Loro chi?
«Non discuto di politica con due giornalisti».
E con chi ne discuti, ammesso che tu faccia politica?
«Ne discuto volentieri con i compagni della Val di Susa».
Sei stato in val di Susa?
«Ero lì a luglio».
A fare la guerra.
«Si. E vi do una notizia. Non è finita».

La Repubblica 17.10.11

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«Una mano spappolata per rimuovere una bomba», di Al. Ar.

La sua mano, forse, si salverà. Magari non ci sarà un pezzo di pollice, ma la mano destra di Enzo Mastrobuoni dovrebbe ricominciare a funzionare, a dispetto di quel petardo che sabato pomeriggio gli è esploso fra le dita. Voleva toglierlo di mezzo quel petardo Enzo, 52 anni e un lavoro da sindacalista nella Confederazione degli agricoltori. Aveva paura che potesse far male a qualcuno, nella folla della manifestazione.

Racconta, adesso, dal suo letto del Policlinico di Roma: «Erano circa le quattro del pomeriggio. Il nostro pezzo di corteo, ovvero noi di Sel, era all’altezza di San Pietro in Vincoli quando si sono avvicinati a noi una trentina di incappucciati con i bastoni. Avranno avuto una ventina d’anni, non di più. Avevano un accento napoletano. Hanno cercato di entrare nel corteo e noi abbiamo fatto dei cordoni per bloccarli. Gli abbiamo anche gridato: “Vergogna, andate via”. E loro, per vendetta, ci hanno tirato addosso quei petardi».

Tre o quattro sono stati i petardi che gli incappucciati hanno lanciato contro i manifestanti inermi: Enzo si avventa contro uno di questi con un calcio. Inutilmente. Il petardo non si muove da terra. Lui allora si china per allontanarlo con le mani. Ma il petardo esplode.

«Ho provato un dolore che non so raccontare», dice ancora Enzo. Poi aggiunge: «Per fortuna vicino a me c’erano i vigili del fuoco che hanno spento l’incendio sopra la mia mano. E poi un medico, non so da dove venisse: mi ha fatto una medicazione per strada con le bende. Credo sia stato lui a salvarmi le dita».

Enzo Mastrobuoni è nel direttivo romano di Sel. Di manifestazioni ne ha fatte davvero molte, era anche a Genova dieci anni fa per il G8. «Ma non ho mai visto i violenti che se la prendevano con i manifestanti, che attaccavano il corteo. Qui bisogna ragionare, prendere provvedimenti al nostro interno per isolare questi violenti: è una deriva che non fa bene a nessuno, mette in pericolo le manifestazioni».

Nel suo letto del Policlinico Enzo Mastrobuoni ieri ha ricevuto la visita di Renato Schifani. Il presidente del Senato non ha esitato dopo aver ascoltato i suoi racconti: «Lei è un eroe civile, grazie».

Il Corriere della Sera 17.10.11