attualità, partito democratico

"Come diceva D’Alema tre anni fa…", di Stefano Menichini

A chi nel Pd offriva letture negative del voto in Molise, Massimo D’Alema ha risposto in maniera secca: dicano quello che vogliono, io presiedo una Fondazione e faccio analisi. Intendeva dire che la sua valutazione positiva era fondata su dati oggettivi, non sulle opportunità dello scontro politico interno.
D’Alema ha ragione: presiede Italianieuropei, che è un luogo dove si svolgono studi seri. Talmente seri, che è proprio da una di queste analisi di Italianieuropei – una delle più ampie, articolate e approfondite svolte in tempi recenti – che muove da qualche anno l’intero impegno di Europa per tenere ancorato il Pd al progetto e alle ambizioni originarie, contro i pericoli di riflusso, di ripiegamento, e in sostanza di rassegnazione alla ineluttabilità delle attuali percentuali elettorali.
Era il 14 maggio 2008 e Berlusconi aveva da poco vinto le elezioni. Il gruppo dirigente del Pd venne chiamato da D’Alema in piazza Farnese per ascoltare dai più validi analisti alcune ragioni profonde del voto: non solo i flussi, ma la qualità e le motivazioni del comportamento elettorale degli italiani che, sventurati, si erano appena rimessi nelle mani sbagliate.
Essendo stato gentilmente ospitato, ricordo bene quella sessione, perché mi rimase impressa la fotografia dell’Italia allora scattata da Natale, Calise, Bonomi e altri.
Mi sono chiesto spesso in questi anni che uso abbiano fatto di quelle informazioni i capi del Pd presenti (c’erano tutti, Veltroni armeggiava con le suonerie di un iPhone allora novità assoluta).
Affido la sintesi di quelle analisi allo stesso D’Alema, a un suo commento ad alta voce durante l’incontro: «Non siamo solo noi a essere sganciati dal paese, anche i nostri elettori lo sono».
Era una conclusione perfetta. Gli analisti avevano appena spiegato che la continua deriva a destra dell’elettorato italiano aveva lasciato al Pd (il Pd del 33 per cento!) una rappresentanza che rispetto alla media nazionale era: più anziana, meno presente nei settori più produttivi del paese, più scolarizzata ma meno dinamica nel mondo del lavoro, meno ottimista sui destini propri e del paese.
Gli elettori democratici avevano in comune con i compatrioti berlusconiani almeno una cosa (in realtà, una tra molte altre attinenti ai costumi e agli stili di vita): l’essere pienamente post-ideologici, scarsamente fedeli alle appartenenze partitiche e sindacali, pragmatici ma anche molto sensibili al carisma personale del leader.
La lettura che nel dopo-Veltroni è stata data di queste analisi mira in sostanza al consolidamento di questa situazione, cercando di migliorare su tre assi: recuperare il radicamento perduto nel mondo del lavoro attivo; insidiare la Lega tra i ceti popolari del Nord; offrire, invece che il carisma della leadership, la solidità di un partito tornato a funzionare comme il faut.
Non so se stia funzionando, anche come semplice operazione di consolidamento. Ho paura di no, a parte forse l’operazione sulla Lega e contro la Lega.
I veri luoghi del lavoro continuano a essere frammentati, spesso invisibili, sostanzialmente irraggiungibili in barba a qualche riaffiorante nostalgia fordista, e il Pd rimane nonostante gli sforzi soprattutto un partito dei garantiti e degli inclusi.
In sostanza la base di consenso del Pd rimane invariata (che vuol dire: destinata alla contrazione per ragioni demografiche), ma nel frattempo si sta vistosamente spostando (io direi, guastando) il suo sistema di valori.
Anni di frustrazioni politiche non sono trascorsi invano e ora si sommano al senso di rabbia e di impotenza di fronte a un sistema incapace di autoriformarsi e autorigenerarsi, e all’insicurezza per il proprio status economico personale.
Il risultato – qui si chiude il cerchio con sondaggi e analisi del mercato politico – è quell’enorme maggioranza di italiani, tantissimi elettori del Pd, che secondo Nando Pagnoncelli sono convinti che il centro della crisi italiana siano i privilegi della casta, e che intaccare questi privilegi possa essere una leva positiva per uscire dalla recessione.
Si tratta di una evidente regressione di cultura politica, affine e parente del giustizialismo. E di un grande pericolo per il Pd, che del sistema è considerato in fin dei conti parte (anche perché, qui e lì, lo è davvero): diciamo che questi anni si stanno rivelando i meno indicati, per proporre il modello di partito di massa organizzato come valida alternativa al partito carismatico, a sua volta in obiettiva crisi.
Quel che è successo a Marco Pannella al corteo di sabato scorso, non sarebbe forse successo a qualunque altro volto conosciuto si fosse presentato in piazza come ha fatto lui? È per la sua diversità, che gli hanno sputato addosso, o perché «sono tutti eguali» e solo un bel servizio d’ordine avrebbe evitato qualcosa di simile a Bersani, a Veltroni, a D’Alema, ma perfino a Grillo e a Vendola?
Quel famoso seminario del 2008 lasciò a Veltroni e ad altri l’idea che si dovesse insistere a spezzare la gabbia del consenso tradizionale “di sinistra”; a D’Alema e a un altro pezzo del Pd diede invece la conferma che la via per la rivincita su Berlusconi fossero le alleanze politiche con partiti più capaci di rappresentare i ceti più moderni, per non parlare del feticcio dell’elettorato cosiddetto “cattolico”, il tutto sotto l’ombrello del sistema elettorale tedesco.
Il paradosso di oggi è che, con questo avvelenamento del clima sociale e questo impoverimento dei valori, entrambe le strade potrebbero risultare precluse.
Quel 43 per cento e oltre di elettori che non si dichiarano nei sondaggi, in gran parte delusi dal centrodestra ma non solo, non trovano attraente il Pd e neanche il Pd in combinazione con Casini o con Vendola. Pagnoncelli premette sempre, quando mostra a Ballarò i suoi dati sul centrosinistra vincente, che va posta questa enorme riserva sulle sue previsioni: e in effetti, se il 27 per cento tuttora attribuito al Pdl appare incredibile e “virtuale”, perché invece dovremmo pensare che la stessa cifra attribuita al Pd sia realistica e a portata di mano?
Ecco perché c’è fastidio e allarme nella dirigenza democratica verso ciò che si muove fuori dall’attuale arco dei partiti, o verso ciò che si agita nei partiti fuori dai binari precostituiti: è la consapevolezza di non sapere o di non poter rispondere a una domanda di novità totalmente post-ideologica che era latente già nel 2008, e che l’inutile legislatura berlusconiana ha solo procrastinato, drammatizzandola e riempiendola per di più di quei contenuti anticasta così ingannevoli eppure così sentiti a livello popolare.
La possibilità di recuperare rispetto a questa situazione, non tranquillizzante, è data dalla stessa velocità dei mutamenti politici: noi stessi, solo sei mesi fa, nel pieno della primavera italiana, non avremmo scritto parole così pessimiste.
Occorre riavviare il circuito positivo “milanese”. Fidarsi delle persone, anche delle più distanti, anche dei non-elettori. Dare loro spazi, occasioni: primarie, referendum, che alla fine non sono mai andati male. Non ostacolare ma premiare chi spicca nel Pd per qualità e caratteristiche che sono apprezzate nella politica contemporanea, e anzi trovare altre figure del genere, anche fuori dal partito.
Non incistarsi sulla coppia destra-sinistra, che non spiega più tutto da tanto tempo: davvero siamo sicuri su chi sia più “di sinistra”, nel senso di uomo progressista e di mentalità aperta, fra Mario Draghi e Maurizio Landini? È una politica di movimento, quella che chiediamo, anche un po’ noiosamente.
Sarebbe stato meglio che, avendo capito come andavano le cose e quali erano i limiti strutturali del centrosinistra riformista, si fosse partiti fin dal primo giorno dopo quel seminario di Italianieuropei del 2008: è andata diversamente, altre scelte sono state fatte, e c’è anche da dire che tante profezie di sventura e di decesso prematuro sono state smentite.
Quindi c’è tempo, c’è ancora tempo, per «riagganciare» davvero questo partito al suo paese.

da Europa Quotidiano 20.10.11