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Dopo Gheddafi

L’epilogo di sangue deve diventare oggi il prologo di una nuova stagione che mette in capo al governo transitorio la grande responsabilità della ricostruzione materiale, civile e politica. E quella della necessaria pacificazione. Le crude immagini dell’esecuzione del colonnello Gheddafi chiudono la prima fase della rivoluzione/guerra di Libia. Si tratta di un epilogo tragico, purtroppo ampiamente prevedibile dopo gli inviti del Segretario di Stato americano Hillary Clinton di 48 ore fa a prendere il Rais “vivo o morto” e dopo la scelta del CNT di mettere una taglia cospicua sulla testa dell’uomo. Avremmo preferito un Tribunale Internazionale dove giudicare il dittatore responsabile di tanti massacri, ma il gorgo della violenza generata ha scelto la scorciatoia della giustizia sommaria. E non ci sono piaciute – senza amore di polemica spicciola – le dichiarazioni di alcuni esponenti del governo italiano, passati con indifferenza dal baciamano allo sberleffo, secondo la peggiore delle tradizioni patrie.

L’epilogo di sangue deve diventare oggi il prologo di una nuova stagione che mette in capo al governo transitorio la grande responsabilità della ricostruzione materiale, civile e politica. E quella della necessaria pacificazione, condizione necessaria per mantenere il Paese unito.
La Libia non ha storie democratiche alle spalle da ricordare, non ha una memoria genetica di pluralismo da risvegliare. Dalla monarchia di re Idris alla grande Jamahyria di Gheddafi, i libici sono passati da un autoritarismo all’altro, entrambi privi di solide istituzioni che non fossero le appendici strumentali del capo, e non hanno mai avuto quella società civile plurale di conio europeo (borghesia, professioni, ong e sindacati) ma semmai una ragnatela tribale modernizzata dai proventi dell’economia petrolifera.
E’ dunque un cammino impegnativo quello che si apre oggi. Impegnativo per le autorità di governo ma anche per i Paesi davvero amici, non quelli che si sono affannati a catturare un applauso elettorale in queste settimane di guerra ma quelli che si sentono pronti, oltre che a ricostruire le infrastrutture, a costruire una inedita democrazia.

Occhi puntati sulla riva Nord dell’Africa nelle prossime settimane. Domenica va al voto per l’assemblea costituente la Tunisia del post Ben Ali. Fra novembre e dicembre voteranno poi Marocco ed Egitto.
Mentre nel Golfo si spara e si lotta in Yemen e in Bahrein, mentre in Medio Oriente proseguono i rimpasti di governo in Giordania e le violente repressioni in Siria, il Maghreb può e deve mandare il messaggio che la primavera araba non è sfiorita, che la passione politica dei ragazzi che abbiamo incontrato sei mesi fa è ancora vitale, che la controrivoluzione felpata dei gattopardi, dei militari, dei “barbuti” non ha guadagnato terreno. E’ importante per i Paesi che stanno per votare per il loro futuro; è importante forse più per quelle opinioni pubbliche ancora schiacciate dal giogo delle autocrazie che attendono di capire se la “rivoluzione è possibile”.

L’Italia, anche quella del declino berlusconiano, ha comunque una parte del suo destino nel Mediterraneo, ha un interesse in più che lo spazio geo-politico di nostra pertinenza sia uno spazio di pace, di dialogo,di sviluppo economico. Già, di sviluppo economico. Perché una possibile crisi della primavera araba consiste proprio nella circostanza che l’Occidente e l’Europa hanno incitato, applaudito e talora aiutato i rivoltosi, ma l’economia si è fermata e gli aiuti sono stati modesti, fornendo così un argomento di leva ai nostalgici del tempo andato e ai mestatori delle epoche di crisi. Insomma, mai come in queste circostanze, le scelte della politica incideranno davvero sui destini delle persone.

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