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"La ferocia e la catarsi" di Bernardo Valli

Con la morte di Muammar Gheddafi finisce un incubo. Non costituiva più una minaccia. Il potere era ormai in mano agli insorti, ma l´idea che la “guida”, onnipotente per quarantadue anni, si potesse aggirare ancora nel Paese con i suoi fedeli, armato e pieno di progetti tendenti a mettere a ferro e a fuoco Tripoli, Bengasi, Tobruk, creava angoscia, alimentava le voci sui presunti nascondigli.
Si diceva che il raìs vivesse in un bunker, nel cuore della capitale, sotto i piedi dei manifestanti che lo dileggiavano o lo maledicevano. E a un certo punto sarebbe spuntato fuori pronto a punire gli insolenti, che l´avevano applaudito per decenni. Altri lo immaginavano al sicuro, con i suoi petrodollari, in qualche paese africano. O nel deserto. Altri giuravano che l´onore beduino, l´orgoglio tribale, lo costringesse a restare con i suoi. A morire con loro. Avevano ragione. La mancata cattura di Gheddafi ritardava l´installazione definitiva dei nuovi governanti a Tripoli. Alcuni di loro restavano a Bengasi come se la capitale, con Gheddafi in libertà, fosse insicura. E così avanzava a rilento la preparazione del nuovo assetto democratico. Insomma, la guerra di liberazione sembrava incompiuta. Non erano in pochi ad auspicare un processo, che avrebbe avuto il valore di una catarsi. Ma per la fine dei dittatori non ci sono regole precise. Il caso, e se non il destino la ferocia del momento, che non risparmia i liberatori, diventa una sentenza. Spesso non auspicata. O non gradita. Il dopo Gheddafi può comunque cominciare.
UNO DI FAMIGLIA
Muammar Gheddafi? Era uno di famiglia. Perché non ammetterlo? La storia fa questi scherzi, intreccia destini in apparenza senza nulla in comune. Muammar Gheddafi potrebbe figurare in un´italica foto di gruppo. Magari in un angolo, in un vasto panorama di volti, nazionali o non nazionali, più o meno ingialliti dalla storia più rapida del tempo, e con una patina più bizzarra che esotica. I confini della memoria patria sono assai più ampi di quelli geografici. E´ nato nella provincia di Misurata, quando la Libia era per l´Italia mussoliniana “la quarta sponda”, vale a dire parte del territorio regio. Lo sarebbe stata ancora per poco, perché quando Gheddafi venne al mondo, nel 1942, a una ventina di chilometri a Sud di Sirte, le forze corazzate dell´Afrikakorps del feldmaresciallo Erwin Rommel e le unità mobili italiane si rincorrevano nel deserto con l´VIII armata britannica. E quel micidiale su e giù, per migliaia di chilometri disseminati di morti (dei quali leggi ancora i nomi negli struggenti cimiteri di guerra), si sarebbe concluso con la sconfitta italo-tedesca e con la fine del periodo coloniale. Mentre Gheddafi muoveva i primi passi, l´Italia perdeva il più povero pezzo del suo “impero”, strappato poco più di trent´anni prima, nel 1911, all´impero ottomano, senza sapere che quel “cassone di sabbia”, voluto dal liberale Giovanni Giolitti, progressista e spregiudicato, nascondeva un tesoro: il petrolio che avrebbe fatto dello scalzo beduino di Sirte uno dei più ricchi dittatori del pianeta.
IL DESIDERIO DI RIVALSA
Nell´accampamento dei beduini nomadi dove è cresciuto, Muammar ha subito le conseguenze del Secondo conflitto mondiale quando era finito da un pezzo. Aveva sei anni, giocava con due cugini, ed è esplosa una mina lasciata dagli italiani. I suoi compagni sono stati uccisi e a lui è rimasta una cicatrice sull´avambraccio destro. Era come un marchio che gli ha ricordato per tutta la vita i dominatori coloniali, per i quali nutriva sentimenti ambigui, contrastanti. Da un lato un rancore profondo, un desiderio di rivalsa, attraverso insulti e dispetti, dall´altro una voglia di mantenere rapporti distesi, talvolta amichevoli, spesso tesi a dimostrare il conquistato rango di un uomo potente. Il suo petrolio alimentava gran parte dell´Italia automobilistica e il suo gas faceva funzionare, sempre nella Penisola, una buona porzione dell´industria. E´ ancora cosi. Con grande soddisfazione Muammar comperò il dieci per cento delle azioni Fiat, quando Gianni Agnelli a corto di denaro aveva bisogno di aiuto. Il beduino ha teso la mano all´aristocratico industriale piemontese, “re d´Italia senza corona”. E la sua vanità ebbe più di quel che sperasse quando Silvio Berlusconi, capo del governo di Roma, gli ha baciato la mano in pubblico, come un vassallo o un giullare.
L´INFANZIA DA PASTORE
Unico figlio maschio, faceva pascolare capre e cammelli, raccoglieva l´orzo e il grano, e aveva il dovere, l´onore, di imparare a leggere il Corano. I genitori non avevano conosciuto quel privilegio. Del Corano conoscevano a memoria molti versetti, ma non sapevano leggerlo. Se uno guarda oggi sui manifesti le ultime facce del raìs consumate, logorate, scavate, deformate da quarantun anni di potere, riesce difficilmente a immaginare l´infanzia pastorale di Muammar, tutta spesa ad accompagnare i pochi animali del deserto di proprietà della famiglia e a imparare, all´ombra di un palmeto, a memoria, le parole di Allah raccolte da Maometto.
MINACCE E BUFFONERIE
Quel ragazzo è diventato con gli anni un personaggio impossibile e inevitabile, capace di imporsi nel mondo. C´è riuscito grazie alla ricchezza del petrolio, ma anche con le sue assurde trovate ideologiche e teologiche, con le sue buffonerie, con le sue minacce, con i suoi discorsi spesso incomprensibili, ed anche con le azioni terroristiche seguite da atti di contrizione. E´ una vita che suscita stupore; ma suscitano stupore anche i potenti della terra che l´hanno via via bombardato, condannato, messo al bando ma anche accolto con tutti gli onori, e riverito. E che spesso sono stati complici dei suoi delitti, e dei suoi fallimenti.
L´ULTIMA RESISTENZA
Il solo limite che ha saputo imporsi è stato quello di autonominarsi colonnello, dopo il colpo di Stato, ma di non darsi gradi più alti. Non ne aveva bisogno. Era la “guida” e gli bastava. Come rivoluzionario ha sposato tante cause preoccupandosi soprattutto che fossero estremiste. Si è proclamato “luce”, faro, del mondo arabo, e poi il padre, il “saggio” dell´Africa, senza mai diventare né l´uno né l´altro. Il finale è stato una tragica beffa, avvenuta nel furore e nel sangue: nel 1969 ha cacciato dal trono Idriss che da emiro della Cirenaica era diventato re della Libia; e nel 2011 lui, Gheddafi, è stato relegato dalla rivoluzione (favorita dalla vicina “primavera araba”, in Tunisia e in Egitto) nella sola Tripolitania. E´ finito ammazzato nella Sirte natale, dove era nato sotto una tenda. Va a suo onore essere morto insieme ai suoi. Non è fuggito con valige di petrodollari. L´orgoglio del beduino ha retto. Gli va riconosciuto. Non è scappato.
STUDIO, PREGHIERE E ORGOGLIO
L´orgoglio gli viene dalla famiglia, dalla tribù, a lungo impegnate durante il primo Novecento nella lotta contro gli occupanti italiani. La politica lo cattura molto presto. Il primo richiamo è quello nazionalista arabo di Gamal Abdel Nasser, che nel ‘52, con gli “ufficiali liberi” egiziani, ha cacciato re Faruk, e che nel ‘56 ha nazionalizzato il Canale di Suez, sfidando Francia e Inghilterra, i potenti azionisti del corso d´acqua artificiale che collega il Mediterraneo al Mar Rosso. Un´ammirazione senza limiti per il raìs del Cairo, in quegli anni campione del risveglio arabo, accompagna Gheddafi all´università, dove frequenta la facoltà di legge, e poi all´accademia militare di Bengasi, dove crea un gruppo di “ufficiali liberi unionisti”, simili a quelli egiziani. Solo la via militare, pensa, può condurre a una rivoluzione capace di strappare la Libia dall´isolamento in cui la tengono la monarchia, e la forte presenza di forze armate britanniche e americane. Al ritorno dall´accademia militare inglese di Sandhurst, dove ha seguito un corso di sei mesi, impone ai suoi compagni, diventati cospiratori, una vita ascetica nell´attesa di passare all´azione: soltanto studio e preghiere, niente tabacco, alcol e sesso. La disfatta araba del 1967, durante la guerra dei sei giorni con Israele, affretta i piani che nel settembre ‘69 sfoceranno in un riuscito colpo di stato. Un colpo esemplare.
GLI ITALIANI ESPULSI
In quei mesi Muammar Gheddafi raggiunge una popolarità internazionale. E´ un giovane ufficiale di 27 anni, fotogenico, asciutto, i lineamenti regolari, sobrio nel linguaggio, che ha abbattuto una monarchia debole e corrotta. E che ha il coraggio di espellere le basi militari americane e britanniche. Un anno dopo espellerà gli italiani rimasti in Libia, ad eccezione di quelli che lavorano per la Fiat e per l´Eni. Le giornaliste straniere che lo intervistano ne sono affascinate. Ma presto affiora la megalomania, che diventerà galoppante. Alla morte di Nasser, nel settembre ‘70, pensa di potergli succedere come campione del panarabismo. I soldi non gli mancano. Ma il tentativo di creare una federazione, sia pure “elastica”, con Egitto e Siria fallisce subito e Gheddafi perde la fiducia dei leader arabi, al punto che nel ‘73, per la guerra del Kippur, sempre contro Israele, non viene neppure consultato. Per reazione lui lancia allora una specie di rivoluzione culturale, invita a bruciare i libri stranieri, in particolare quelli dei “comunisti ebrei”. La sola lettura nobile è il Corano, che deve essere la guida dei patrioti, degli amici della rivoluzione.
IL LIBRO VERDE E LA JAMAHIRIYA
Di fronte all´opposizione che cresce e che contiene a stento, Gheddafi ricorre alle classi popolari, ai beduini, ai giovani, ai quali propone la sola vera democrazia “dopo quella ateniese”. Attua in quel periodo un´ampia distribuzione della ricchezza dovuta al petrolio. Al tempo stesso predica un potere popolare diretto. Cosi nasce il Libro Verde, nel ‘76, in cui si teorizza una terza via, una forma di governo inedita, articolata in congressi di base, ai quali appartengono automaticamente i cittadini, e in altrettanti comitati più ristretti, in sindacati, in associazioni, che formano una piramide al vertice della quale c´è il Congresso generale del popolo, istanza suprema della Jamahiriya, vale a dire lo Stato delle masse. E´ una forma di socialismo ispirato a suo avviso dall´Islam, che resta “il messaggio eterno”. Nel frattempo, sentendosi abbastanza robusto, Gheddafi avvia nel ‘77 una forte repressione, e uccide una trentina di oppositori. Le stragi saranno da allora sistematiche. Cosi gli arresti arbitrari, senza processo e le torture.
Deluso dagli arabi si rivolge all´Africa, e si impegna in una guerra nel Ciad, dove porta al potere Gukuni Oueddei, un suo protetto, che entra nella capitale, N´Djamena, su un carro armato libico. Il presidente Reagan lo considera a la mano di Mosca in Africa. E più crescono i sospetti americani e più Gheddafi si allinea sul blocco sovietico. In seguito a una serie di attentati, negli aeroporti di Vienna e di Roma, nell´aprile dell´86, l´aviazione americana bombarda Bab Al-Aziziya, il quartier generale dove si pensa a torto che si trovi Gheddafi. Gli attentati del dicembre ‘88 a Lockerbie contro un Boeing della PanAm e dell´anno successivo nel Niger contro un DC10 della francese UTA sono imputati ai servizi segreti libici. Ci vorranno dieci anni, e le sanzioni dell´Onu, per convincere Gheddafi a riconoscere la responsabilità. E a rimborsare col tempo i parenti delle vittime. Ma la svolta avviene quando George W. Bush invade l´Iraq di Saddam Hussein.
IL NEMICO BIN LADEN
Il raìs libico è preso dal panico, teme di subire la stessa sorte e comincia a collaborare con gli Stati Uniti alla caccia dei jiadisti di Al Qaeda. Gheddafi diventa il nemico di Bin Laden. Le sue carceri sono già affollate da musulmani integralisti che si sono opposti al regime. La collaborazione con la Cia è dunque facile. Lo è anche con i servizi inglesi. E con quelli degli altri paesi occidentali. E´ tuttavia quando annuncia l´abbandono del programma nucleare che avviene il suo rientro in società. Nicolas Sarkozy lo accoglie a Parigi e gli consente di montare la sua tenda a due passi dal Palazzo dell´Eliseo. Silvio Berlusconi gli offre a Roma una platea di ragazze desiderose di conoscere le sue idee sulle donne. E´ il trionfo. L´Occidente assetato di petrolio lo festeggia, dimenticando i milleduecento prigionieri uccisi dagli sgherri di Gheddafi nel carcere di Tripoli. La restituzione dei loro corpi sarà all´origine della manifestazione del 17 febbraio a Bengasi, quando incomincia l´insurrezione.

La Repubblica 21.10.11

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“QUEL CORPO PROFANATO”, di VITTORIO ZUCCONI

È accaduto di nuovo, lo abbiamo visto nel gorgo di violenza che le immagini del linciaggio di Gheddafi hanno registrato: il culto della personalità degenera nell´odio per la persona, l´adorazione del vivo chiede la profanazione del morto. Quella testa spelacchiata da vecchio ancora riccioluto, non più coperta dai truccatori e dai costumi di scena, che galleggia tra la folla che lo lincia, lo sballotta e lo ucciderà, impone la domanda che oggi conta: gli esecutori di Gheddafi saranno migliori di colui che hanno con tanta brutalità torturato e finito?
In queste deposizioni senza pietà, che espongono il nemico come un trofeo di caccia, buttato sul cofano di una camionetta proprio come una capra abbattuta mentre bela ancora per chiedere pietà e si dibatte, si strozza in gola il grido di liberazione e di gioia che dovrebbe sempre accogliere la caduta dei tiranni. Non si riesce a gioire per scene da bassa macelleria, anche quando il finale era già stato scritto e meritato da quando lui aveva deciso di resistere per vanità e cecità nel ridotto della propria città natale. Pur sapendo che la sua resistenza avrebbe immolato altre centinaia di libici.
È stato un abisso di orrore quello nel quale il raìs ridotto a un vecchio implorante e sanguinante è stato risucchiato, con una furia vendicativa che fa rabbrividire e fa ripensare alle voci sulle torture e le violenze dei ribelli contro i loro prigionieri lealisti, richiamo alle torture dei “liberatori” americani nel carcere di Abu Grahib e all´orrore dei cadaveri dei figli di Saddam esibiti alle telecamere. La sua inutile resistenza, la furia bestiale e vile della folla, da branco in rivolta contro il “lupo alfa” ormai spelacchiato e impotente, entrano, insieme con la profanazione dei corpi di Mussolini, della Petacci, degli altri gerarchi fascisti, nell´archivio delle dittature accecate e condannate all´oscenità del finale.
Tutti gli uomini del destino sono sempre gli ultimi a capire che il destino gli ha voltato le spalle. Ogni vendetta sembra giustificata da chi li ha sofferti. Tutto già visto, nella sequenza culminata nell´immagine forse più desolante, quella del ragazzino al quale è stata messa in mano una pistola d´oro come a Scaramanga, l´assassino professionale del film di 007. Per lui, per il suo linciaggio divenuto esecuzione voluta, a freddo, quando era ancora ferito, invocava pietà e la testona pelata si dibatteva, più che di gloria transitoria si sarebbe dovuto usare l´anatema attribuito a Bruto sul cadavere di Giulio Cesare: «Sic semper tyrannis», questa è sempre la sorte dei tiranni.
Sono stati pochi, e molto fortunati, i despoti che sono riusciti a scampare al rito feroce dell´esposizione dei loro resti per il ludibrio e il consumo dei sudditi e del resto del mondo. Furono. nella storia recente, Stalin, morto a settantacinque anni nel proprio letto, di emorragia cerebrale; Mao Zedong, ucciso da un infarto a 83 anni; Francisco Franco, onorato e da molti rimpianto; Idi Amin, il sanguinario “Re di Scozia” che devastò l´Uganda, curato nell´agonia in un attrezzatissimo ospedale dell´Arabia Saudita o “Papa Doc” Duvalier, saggiamente rifugiato in Costa Azzurra per sfuggire ai machete degli Haitiani che proprio lui aveva mobilitato per mozzare la testa agli oppositori. Di Pol Pot, il signore dei “campi della morte” in Kampuchea, vedemmo il corpo senza vita, perché soltanto quella foto avrebbe potuto convincere i cambogiani che l´assassino di due milioni di innocenti non c´era più.
Gheddafi ha chiesto pietà, mormorando «non sparatemi, non sparatemi» e non ne ha avuta come non ne aveva avuta lui nel quasi mezzo secolo di regno. È tardi per invocare “in articulo mortis” quella misericordia umana che non si è concessa agli altri da vivi. Guardando l´ultima espressione congelata sul viso quando dovette sentire la canna della pistola d´oro premuta alla tempia, si è assaliti dalla nausea. Occorre fare uno sforzo per ricordare espressioni e volti che invece non vedremo mai, quelli dei passeggeri, delle madri, dei loro figli piccoli, che vissero i cinque minuti – un tempo interminabile – ancora allacciati ai sedili del mozzicone di Jumbo Jet che cadeva nella spirale del volo PanAm 103, nei giorni del Natale 1988. Quell´aereo civile che il morto di oggi ordinò di far esplodere a undici mila metri di quota, senza nessuna colpa.
Naturalmente è facile, per noi che non siamo stati rinchiusi nelle tane o abbandonati nel deserto a morire di sete, dove il Colonnello teneva in ostaggio i migranti per ricattare e mungere soldi alla tremante Italia, per chi non è rumeno, per chi non ebbe parenti, amici, gassati ad Auschwitz o fucilati sulle piazze dei paesi dell´Appennino, provare orrore e repulsione per questi riti barbarici esposti come un atto di nascita del futuro. Ma i coniugi Ceaucescu, passati dalla satrapia più sfacciata sopra il loro Paese al plotone di esecuzione e poi all´esposizione dei resti, il Saddam Hussein pescato dal buco come una talpa irsuta e poi impiccato nel buio di un processo grottesco, il Mussolini in Piazzale Loreto, sono la conferma necessaria, lugubre e morbosa, della fine. Lo aveva capito, nella sua diabolica e allucinata intelligenza, Adolf Hitler, negandosi ai vincitori russi e quindi garantendosi un prolungamento di esistenza immateriale, come un incubo. Lo sapevano anche gli Americani, quando fecero la scelta di gettare nell´Oceano Indiano il cadavere di Osama Bin Laden, per evitare il sussulto di pietà che anche il suo corpo distrutto dai proiettili avrebbe sollevato.
Cercava di scappare, con una carovana di fuggiaschi e di gerarchi, verso una salvezza che per lui non poteva più esserci, sotto il mandato di cattura internazionale per crimini contro l´umanità. Mentre osserviamo, perché siamo costretti a farlo, perché sono immagini della nostra storia di cui Gheddafi è stato tanta parte, la foto di lui ripreso dal basso, la cicatrice del foro d´ingresso del proiettile della tempia, la gioia stranita del ragazzo al quale hanno messo in mano la pistola d´oro come fosse quella del colpo di grazia, ci chiediamo perché non avesse imboccato una delle vere e sicure vie di salvezza che tanti erano stati pronti a offrirgli, quando si era capito che la sua nazione si era stancata di lui. Troppo superbo, troppo arrogante, per accettare un processo, nel quale si sarebbero anche aperti troppi armadi di scheletri internazionali.
Non sarà rimpianto, come non sono stati rimpianti i Saddam, i Pol Pot, gli Hitler. «Sic semper tyrannis». Ma nel momento della fine, mentre implorano i loro aguzzini, anche i tiranni tornano a essere soltanto uomini. E i loro esecutori, da vittime, tornano a essere carnefici.

La Repubblica 21.10.11

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“Il Cavaliere: sic transit gloria mundi”, di FILIPPO CECCARELLI
Vatti a fidare dei dittatori pazzi, ma ancora meno conta sull´onestà dei presidenti e dei ministri italiani. Un giorno ti incensano e ti spupazzano per Roma, il giorno dopo ti bombardano; un giorno bussano a quattrini oppure firmano con Gheddafi un trattato d´amicizia perfino imbarazzante.
E poi, appena ammazzato, gioiscono per le sorti della democrazia o magari si trovano a esprimere pensose riflessioni in latino ecclesiale sulla caducità delle cose terrene, sic transit gloria mundi e così via, avanti un altro.
Ora, la politica internazionale non è roba da cuoricini. Ma quel che colpisce, nell´approccio del governo, è la più vistosa e scombinata esagerazione, la fantasmagoria, di direbbe, del voltafaccia. Per cui il ministro La Russa che oggi si commuove al telefono con l´indomita rappresentante degli italiani cacciati dalla Libia è lo stesso che due anni fa voleva prestare le Frecce tricolori al regime e anzi si diceva «orgoglioso» che la nostra pattuglia fosse applaudita laggiù.
Applausi evitati in extremis, per la verità. Così come solo all´ultimo momento fu scongiurato che nel giugno del 2009 Gheddafi parlasse con tutti gli onori nell´aula di Palazzo Madama. Il presidente del Senato Schifani, ieri prodottosi in un sermoncino sul «percorso verso la democrazia» eccetera, aveva tranquillamente concessa quell´aula – dopodiché il Colonnello riversò il suo delirio nella Sala Zuccari.
E Frattini, che adesso dice assai più di quello che sarebbe decoroso, beh non molto tempo fa si diede addirittura da fare con la Svizzera, rendendosi incauto garante, per sbrogliare certi impicci famigliari del tiranno libico. E la Carfagna? Gli organizzò un cenone con 700 donne – senza contare le amazzoni, a prova di illibatezza con ciondolo-ritratto del Principale al collo o le 530 ragazzette dell´agenzia “Hostessweb” che il Colonnello si fece recapitare in torpedone. La stessa cura riversata dal sindaco Alemanno, quello dei valori della Cristianità: dopo avergli lasciato piantare il tendone a villa Pamphili se lo portò in Campidoglio per il solito rito del balcone sui fori.
E si potrebbe andare avanti a lungo e anche parecchio indietro nel tempo ricordando le specialissime relazioni con l´Avvocato Agnelli e poi con Andreotti, a cui nel 1993 Gheddafi si offrì di pagare l´avvocato; e con Craxi, che lo chiamava “Capitan Fracassa”, ma nel 1986 gli salvò la pelle; quindi con Lambertow Dini e poi ancora con Prodi e con D´Alema, che dall´uomo ucciso ieri in quel modo terribile l´altroieri ebbe in dono una scimitarra berbera, chissà dove l´ha messa.
Però, diamine, quanto ad amicizia e finta amicizia, calore e ipocrisia, sorpresine, regaloni e miserabili tradimenti Berlusconi ha sbaragliato qualsiasi altro concorrente italiano. O almeno: dal giorno in cui andò a ricevere Gheddafi all´aeroporto nonostante il torcicollo fino a quello in cui gli mandò aerei da guerra per fargli la festa, ecco: mai la diplomazia è trascesa in forme così grottesche alimentando un immaginario in cui gli interessi nazionali facevano drammatico e buffo cortocircuito con foto di nipotini mostrate sotto la tenda, gigantografie dei due leader sui muri di Tripoli, tornei equestri tra cavalieri berberi e carabinieri, lacrime per il colonialismo e sonnellini, plateali doni di cammelli, moschetti, anelli, complimenti per le uniformi e i costumi di scena, anche lusinghe sul numero dei figli pure illegittimi attribuiti al raìs, «su questo campo non ti batto». Fino all´indimenticabile baciamano: «Un´emozione – scolpì il Cavaliere inaugurando la tv del suo amico Tarak Ben Ammar – che porterò nel mio cuore per tutta la vita».
Cosa non è accaduto negli ultimi anni! Dall´addestramento della scorta di Gheddafi da parte dei Nocs fino al mito fondante e alla leggenda primigenia del bunga bunga, come raccontato da un ilare Berlusconi a Ruby, ma pure a Sarkozy (colta l´arietta, a villa Madama la Lagarde, parruccona, si allontanò). «Colonnello, lei è come Berlusconi» gli disse una volta Sgarbi. E per la verità non intendeva sul piano estetico, pur avendo frequentato i due leader lo stesso chirurgo estetico nella persona del dotto Ribeiro.
Era un riconoscimento per molti versi antropologico, esistenziale. Forse anche un modo per ricordare che il potere è una bestia feroce, una spada sopra la testa, un congegno per ingannare la morte, ma solo la propria, e chissà per quanto.

La Repubblica 21.10.11