attualità

"Islamismo e petrolio", di Lucio Caracciolo

L´esecuzione di Gheddafi sarà forse l´inizio della fine della rivoluzione libica. Forse. Di certo è una tappa importante della controrivoluzione geopolitica pilotata dalle petromonarchie del Golfo e dagli islamisti. Ossia dagli esclusi della prima ondata insurrezionale che dal 17 dicembre 2010 ha scosso il Nordafrica, a partire dalla Tunisia e dall´Egitto. Sisma percepito con terrore dall´Arabia Saudita e dai suoi satelliti nel Golfo.
Regimi assolutisti che sposano il pubblico purismo islamico (di rado praticato in privato) al vincolo strategico con l´America, fondato sullo scambio fra energia araba e asset militari a stelle e strisce rivolti contro l´arcinemico comune: l´Iran.
Dopo il panico, la prima profilassi sotto specie di pioggia di dollari: quasi duecento miliardi elargiti pronta cassa dal re saudita ai suoi grati sudditi, varie decine dagli emiri del Golfo. Ma due eventi chiave marcano quasi contemporaneamente l´avvio della controrivoluzione: l´invasione saudita del Bahrein e la guerra per rovesciare Gheddafi, erratico nemico di Riyad e di quasi tutti i regimi arabi, oltre che degli islamisti.
Il 12 febbraio le truppe saudite entrano a bandiere spiegate nel Bahrein in rivolta, nel timore che cada in mani iraniane. Buon esempio di “aiuto fraterno” che in tempi e contesti diversi avrebbe suscitato almeno la riprovazione delle nostre democrazie. Nulla di ciò. Anzi, sospiri di sollievo a Washington come a Londra, a Pechino come a Berlino, a Tokyo come a Parigi. Insomma ovunque si teme che la primavera araba possa estendersi ai custodi del più strategico tesoro energetico – le monarchie arabe del Golfo – tralignando in inverno globale.
Proprio in quei giorni maturava in Cirenaica la rivolta contro Gheddafi. Dove l´insofferenza popolare per l´oppressione del duce libico affrettava il tentativo di colpo di Stato di alcuni ex fedelissimi del colonnello, supportati dall´intelligence e da forze speciali francesi e britanniche. Scarsa attenzione si dedicava alla contingenza che le prime armi fossero state distribuite ai ribelli da un commando islamista che aveva assaltato la caserma di Derna. Meno ancora al fatto che l´organo principe della disinformazione rivoluzionaria si confermava Al Jazeera, canale satellitare qatarino controllato dal più autocratico fra i petromonarchi, l´emiro al-Thani. Un dittatore che vuole esportare la democrazia, sia pure molto lontano da casa sua – meglio, per tenercela lontana: un paradigma da segnalare nei futuri manuali di politologia.
Quasi inosservata passerà poi la recente notizia delle dimissioni del direttore di Al Jazeera, smascherato da WikiLeaks come agente della Cia e prontamente sostituito da un cugino dell´emiro.
Inoltre, solo nella liberazione di Tripoli verrà pienamente in luce il ruolo decisivo delle brigate islamiste nella liquidazione del regime, ben più robuste delle raccogliticce milizie del Consiglio nazionale di transizione, referente dei franco-inglesi e della Nato nella guerra contro Gheddafi. Le brigate islamiste erano e restano guidate da un jihadista doc come Abdel Hakim Belhaj. A ispirarle è lo sceicco Ali al-Salabi, esponente dei Fratelli musulmani, il quale ha chiesto e probabilmente otterrà le dimissioni del “primo ministro” del Cnt, Mahmud Jibril, e degli altri “secolaristi”. Di qui le persistenti rivalità fra i rivoluzionari libici, che si contendono armi in pugno quote di potere e di territorio.
In attesa di stabilire chi sortirà vincitore dalla partita fra gli eversori del gheddafismo – temiamo ci vorrà del tempo e del sangue – questi e molti altri elementi inducono a stabilire che la rivoluzione libica segni insieme la fine di un´odiosa tirannia e un passaggio rilevante nella controrivoluzione guidata dalle petromonarchie del Golfo. Una reazione ambiguamente assecondata dagli Stati Uniti, da altre potenze occidentali e non solo, accomunate ai sauditi nell´interesse a scongiurare la destabilizzazione della Penisola arabica. Evento in sé catastrofico, che nella crisi economica attuale assumerebbe riflessi apocalittici.
La sincronia fra invasione saudita del Bahrein e rivolta in Libia non è dunque meramente temporale, ma geopolitica. Si consideri solo che da questo doppio evento sono scaturite, fra le altre, queste conseguenze: a) il rapido declino delle istanze laiche e progressiste nelle piazze arabe e nordafricane, in parallelo all´emergere di vari gruppi islamisti, dagli scaltri Fratelli Musulmani agli estremisti salafiti, spesso d´intesa con gli autocrati sunniti del Golfo, Qatar in testa; b) il parallelo riaffermarsi delle Forze armate come centro del potere egiziano, non scalfibile dalle formazioni politiche emergenti; c) la rinuncia, almeno finora, a qualsiasi intervento occidentale o arabo in Siria – dove al-Assad massacra a man salva gli oppositori – per timore che il prossimo regime si riveli più pericoloso dell´attuale; d) il riesplodere degli istinti antisraeliani e antisemiti al Cairo e altrove; e) la parossistica tensione fra Arabia Saudita e Iran, dopo il presunto tentativo iraniano di assassinare l´ambasciatore saudita a Washington. Il rischio di una guerra preventiva di Gerusalemme contro Teheran ne risulta accentuato.
È presto per trarre un bilancio delle manovre in corso lungo la nostra periferia meridionale. Non è tardi per provare a interpretarle a partire non dai nostri desideri o dalle nostre edificanti semplificazioni, ma dalle ragioni e dagli interessi dei protagonisti, per quanto esoterici o esecrandi possano apparirci. Anche per evitare di caderne vittime.

La Repubblica 22.10.11

******

“Ustica, Lockerbie, i petrodollari tutti i segreti che muoiono col raìs”, di Vittorio Zucconi

In 42 anni di regno è stato il “cattivo” bombardato e poi il “figliol prodigo” riaccolto
Gli investimenti italiani nella Fiat, nelle grandi banche e persino nella Juventus. Più che un sospiro è un vento di sollievo, quello che si alza oggi dalle Cancellerie europee, da Washington, dai palazzi dei governi, dal potere economico europeo al pensiero che il «cane pazzo» come lo aveva chiamato Reagan non potrà più parlare. In 42 anni di regno sullo scatolone di sabbia divenuto cisterna di petrolio, sempre al centro dei giochi e degli intrecci tra la parte del “cattivo” bombardato e poi del “figliol prodigo” riaccolto con onori e offerte di ragazze, Muammar Gheddafi ha portato via con sé verità e segreti che valgono politicamente molto più degli almeno 100 miliardi di dollari che aveva disseminato in banche e quote societarie dall´Italia alla Svizzera alla Francia alla Russia.
La “pazzia” della quale aveva parlato Ronald Reagan prima di lanciargli addosso nel 1986 i suoi bombardieri F111 in un´inutile missione di rappresaglia per l´attentato alla discoteca “La Belle” di Berlino dove morirono tre militari americani, era una follia scaltra, lubrificata dai miliardi che la Banca nazionale della Libia e il suo braccio per gli investimenti, la Lafico, distribuiva con generosa sapienza e totale cinismo. Forte dei più grandi giacimenti di petrolio in Africa, e diciannovesimi nel mondo, integrati da quei giacimenti umani di disperati che affluivano dal continente sulle sponde del Mediterraneo e lui usava per ricattare e minacciare soprattutto l´Italia, Gheddafi ha sempre saputo infilarsi nelle crepe della Guerra Fredda, giocando fra le parti come “non allineato” quando gli faceva comodo, avvicinandosi all´una o all´altra per ottenere quegli armamenti che abbiamo visto dispiegarsi – tutti di fabbricazione sovietica – nelle battaglie contro i ribelli, accumulando migliaia di missili portatili terra-aria che oggi sono scomparsi, entrando negli incubi dei servizi di sicurezza di tutto il mondo. Quegli stessi servizi segreti che hanno sempre usato e temuto i Libici, incerti sul ruolo che lui abbia giocato, se proteggendo e finanziando il terrorismo fondamentalista, o facendo il doppio gioco, quando, dopo l´11 settembre, capì che gli conveniva di più entrare nella “coalizione del Bene” cara a Bush e rinunciare a programmi di armi nucleari.
Ma se le bombe, e i missili, come quei due “Scud” che avrebbe lanciato contro l´isola di Lampedusa sempre nel 1986, prima di capire che sarebbero stati molto più efficaci e terrorizzanti i barconi di migranti per piegare l´Italia e farsi pagare il blocco, erano l´espressione fragorosa e micidiale della sua astuzia, il danaro divenne la sua arma letale. Da quando, nel 1976, la Libia acquistò quasi il 10 per cento della proprietà Fiat, cercando di imporre il licenziamento del direttore della Stampa Arrigo Levi, dollari e missili, bombe e investimenti – spesso un eufemismo per non parlare di corruzione – sono andati a braccetto. E i misteri, quelli che ha portato con sé nel linciaggio finale immortalato dai videotelefonini, sono cresciuti.
Nella sua corte del “Bunga Bunga” – l´espressione resa internazionalmente celebre da Silvio Berlusconi avrebbe la propria origine proprio da Gheddafi – la vita privata del Colonnello, che nessuna intercettazione potrà mai rivelare, si compiaceva di corpose amazzoni di guardia, di feste sicuramente eleganti, di bizzarre vicende come le accuse a quattro infermiere bulgare accusate di avere deliberatamente diffuso il virus dell´Aids, l´Hiv, in Libia. «Era un cane ed è giusto che sia morto come un cane» ha detto una di loro, Valya Chervenyashka, ieri. «Sono felice».
Meno felici saranno probabilmente coloro che da decenni vorrebbero conoscere la verità sul DC9 dell´Italia caduto nelle acque di Ustica o gli inglesi che cercano di scoprire perché Toni Blair fosse diventato improvvisamente grande amico del Colonnello, ospite di suoi voli privati, visitatore frequente in Libia per grandi affari. O i giornali che vorrebbero sapere di più sulle strette relazioni fra la polizia segreta libica e l´intelligence britannica, come poi con la Cia che inviava anche i Tripoli i prigionieri scomodi da Guantanamo per essere torturati, rapporti scoperti in casse di documenti su camion in viaggio nel deserto.
Le impronte digitali del Colonnello, del “re dei re”, del lucidissimo pazzo, sono nella grande banche italiane, come Unicredit, in società sportive come la Juventus, a conferma di un antico feeling fra la Fiat e la Lafico libico, nella oscura e ridicola odissea del figlio calciatore, sballottato fra tre società italiane, a partire dal Perugia di Gaucci, e rimasto celebre, oltre che per la sua totale inettitudine sportiva, per gli hotel di lusso che riservava per se stesso e la propria corte. Soldi suoi erano – e sono – in Finmeccanica come furono dentro i forzieri elettorali del pio Jimmy Carter, il religiosissimo presidente Usa eletto nel 1976, il cui fratello Billy, formidabile consumatore di birra, era stato addirittura assunto come lobbista per Tripoli.
Nessuno rimpiangerà Gheddafi morto, soprattutto non coloro che gli leccarono le mani da vivo. La pietà pelosa che ha accompagnato le scene ripugnanti del massacro finale nasconde troppe code di paglia. I soli che possono davvero rammaricarsi per il silenzio della tomba che lo attende sono uomini e donne ormai anziani, che persero figli e nipoti sul volo Pan Am fatto esplodere per ordine di Tripoli. «Avrei preferito vederlo alla sbarra in processo, poterlo guardare negli occhi e chiedergli che cosa gli avesse fatto la mia Helga» dice oggi il reverendo scozzese John Mosey che perse la figlia su quell´aereo. Ma anche per lui e per il suo dolore, quegli occhi si sono chiusi sulla verità.

La Repubblica 22.10.11