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"Pensioni, la soluzione c’è: rendere flessibili le uscite", di Pierpaolo Barretta e Cesare Damiano

Quandola Lega Nord afferma di essere contraria al fatto che si tocchino le pensioni, siamo di fronte ad una mezzaverità. Quello che Bossi non dice è che questo governo, di cui la Lega fa autorevolmente parte, le pensioni le ha già abbondantemente toccate. Infatti, basta scorrere
i provvedimenti: innalzamento graduale dell’età pensionabile delle donne da 60 a 65 anni nel settore pubblico e privato; introduzione di una finestra fissa di un anno per tutti, anche per coloro che hanno maturato i 40 anni di contributi; decurtazione della rivalutazione al costo
della vita dell’assegno previdenziale, a partire dalle pensioni di importo corrispondente a tre volte il minimo; aggancio del momento di andare in pensione all’aspettativa di vita.
La seconda affermazione che va contestata è che ci troviamo di fronte ad un sistema statico, mentre in realtà anche la riforma Prodi-Damiano del 2007 ha previsto che le cosiddette pensioni di anzianità, dal 1 gennaio 2013, richiedano accanto ai 35 anni di contributi almeno 62 anni di età (la famosa quota 97). Molti di coloro che sollecitano un
ulteriore innalzamento dell’età pensionabile e ipotizzano il ritorno allo “scalone Maroni”, che è ormai sostanzialmente allineato alla riforma del 2007, sostengono inoltre che questa operazione si renderebbe necessaria per salvaguardare le nuove generazioni. Se questa affermazione non si risolvesse in una pura e semplice petizione di principio, perché l’obiettivo fondamentale del governo é quello di effettuare i tagli con lo scopo esclusivo di sanare i
conti, una quota dei risparmi del sistema previdenziale sarebbe dovuta servire per migliorare la condizione delle donne e dei giovani. Ad esempio, per meglio conciliare i tempi di vita e di lavoro o, nel caso delle nuove generazioni, per la piena totalizzazione di tutti i contributi pensionistici.
Tutto questo non è avvenuto e non è neanche lontanamente presente nelle previsioni legislative del governo. Allora, che cosa fare? Noi riteniamo che sia sbagliato procedere
per aggiustamenti successivi, chesono controproducenti e che continuano a pescare nel comodo serbatoio di risorse rappresentato dallo stato sociale, anziché guardare ai grandi patrimoni, alle transazioni finanziarie e alle rendite. Occorre voltare pagina recuperando, come da anni propone il Pd, il concetto di flessibilità insito nella Riforma Dini del 1995. Si stabilisca che il momento dell’uscita per andare in pensione, considerato il fatto che nel 2050
l’aspettativa di vita sarà ulteriormente cresciuta di 6 anni per uomini e donne, parta da una base minima di 62 anni e si proietti fino ai 70 anni. Che questa scelta sia libera e soggettiva per il lavoratore, consentendo l’applicazione di questa normaa coloro che conseguono unassegno pensionistico non inferiore, adesempio, a una volta e mezzoil minimo. Per i lavoratori entrati nel mercato del lavoro dal 1 gennaio 1996, che adotteranno pienamente il sistema contributivo, non si pone alcun problema: infatti, non ci saranno più distinzioni tra pensioni di anzianità e di vecchiaia o fra uomini e donne, in quanto l’assegno pensionistico sarà correlato ai contributi versati nell’arco della vita di lavoro. Per chi è nel cosiddetto “sistema misto”, perché non aveva maturato almeno 18 anni di contributi al 1 gennaio 96, o per chi è nel sistema retributivo, cioè le vecchie generazioni, si può stabilire la possibilità di scelta: restare nel sistema attuale più rigido, con un progressivo innalzamento del momento
di andare in pensione e con specifiche regole per coloro che svolgono lavori usuranti o che hanno maturato i 40 anni di contributi; oppure optare per il sistema flessibile. In questo ultimo caso tutti dovrebbero accettare la logica del contributivo pro rata. Ognuno potrà fare la sua scelta di convenienza in base alla sua situazione personale e familiare. Insistere, invece, sul solo innalzamento obbligatorio dell’età di pensionamento, significa mantenere in piedi il sistema attuale, fatto di retributivo, anzianità e vecchiaia. Proprio quel sistema che oggi si vorrebbe cambiare e che la Legge Dini ha di fatto, seppur troppo lentamente, superato.
Come ha giustamente ricordato Bersani questo sistema dovrà essere accompagnato da una logica di incentivi e disincentivi che, al tempo della Legge Dini, avevano un’età baricentro di 62 anni che oggi dovrebbe essere portata a 65-66 anni, tenuto conto dell’innalzamentodell’aspettativa di vita. Queste misure dovranno ovviamente riconoscere la piena totalizzazione dei contributi previdenziali dei giovani: anche unsolo giorno di lavoro regolare deve concorrere alla formazione di un unico montante pensionistico. Come si vede le alternative ci sono.
Tenere insieme riforme e consenso è la difficoltà della politica. Talvolta è possibile.

L’Unità 27.10.11