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"Gli immigrati al tempo della crisi", di Fabrizia Bagozzi

La Caritas presenta il suo rapporto annuale sugli stranieri. Sono ormai il 7,5% della popolazione italiana, anche se sul piano numerico non sono molti di più rispetto all’anno scorso (poco meno di 5 milioni), sono sempre più radicati nel nostro paese anche se inevitabilmente si trovano esposti alla crisi più degli italiani, pur facendo meno fatica e rientrare nel mercato del lavoro (dequalificato, sommerso e irregolare: un altro campo da gioco rispetto al nostro).
Il tradizionale rapporto di Caritas Migrantes sull’immigrazione in Italia – giunto alla sua ventunesima edizione – ci restituisce l’istantanea di una situazione ormai consolidata, pur se attraversata in pieno dall’impasse dell’economia e ostacolata dal combinato disposto di una legislazione ostile (senza scomodare il reato di clandestinità su cui si è messa di traverso la Corte di giustiza europea, basta ricordare un permesso di soggiorno che dura solo 6 mesi dopo la perdita del lavoro), da una burocrazia lenta e farraginosa e da una politica dei flussi di ingresso poco realistica.
Elementi a cui del resto fa da contraltare una strategia di contrasto all’immigrazione irregolare – rimpatri, espulsioni, trattenimenti nei Cie – che funziona appena un po’ meglio degli ultimi anni, ma che rimane costosa e poco efficace.
Il dossier stima che il totale degli stranieri regolari nel nostro paese ammonti a 4.968mila persone, una cifra che si discosta di poco rispetto a quella dell’anno scorso. Ai 4.500mila di residenti computati dall’Istat (335mila in più rispetto al 2009) Caritas Migrantes invita a includere anche circa 400mila regolari non ancora iscritti all’anagrafe.
E a tener conto del fatto che, fra regolarizzati e nuovi venuti, le nuove presenze sono state 500mila, all’incirca lo stesso numero di stranieri la cui autorizzazione al soggiorno regolare è venuta meno (sia che siano stati rimpatriati, siano che siano diventati irregolari, stimati comunque in circa 500mila). Cresce il numero dei minori stranieri: un milione, 100mila in più ogni anno. Mentre le seconde generazioni hanno doppiato quota 600mila, una cifra che rende evidente l’urgenza di una nuova legge sulla cittadinanza.
Gli immigrati in Italia – 2.100.000 dei quali occupati – stanno pagando duramente il prezzo della crisi. Perché se è vero che costituiscono un decimo della forza lavoro, sono determinanti in più di un comparto produttivo, e rinforzano il mercato grazie un livello di attività più elevato, vivono sulla loro pelle la caduta del tasso di occupazione, più alta dell’anno scorso e doppia rispetto a quella degli italiani.
Una situazione che colpisce in maniera diversa le comunità straniere del nostro paese. Più in difficoltà gli albanesi e i marocchini, prevalentemente occupati nell’industria in fase di forte stallo.
Meno in sofferenza filippini, polacchi e ucraini, in cui la componente femminile (prevalente) trova lavoro nei servizi alla persona (anziani e famiglie). In ogni caso, nel 2010, l’occupazione straniera è cresciuta di 183mila unità, soprattutto in settori di lavoro poco qualificati.
Per quanto riguarda il contrasto all’immigrazione regolare, il dossier mette in evidenza luci e ombre, in un generale trend mai particolarmente brillante. Su 50.717 rintracciati sul territorio nazionale, poco più di 20mila sono stati allontanati (con un tasso di efficacia del 40%, 5 punti in più rispetto all’anno scorso).
Fra questi, 16mila sono stati espulsi o riammessi, 30.430 – un numero che continua a essere molto alto – non hanno invece ottemperato al provvedimento di espulsione. 7.039 gli imigrati transitati nei Cie, poco meno della metà dei quali rientrati nel proprio paese (un dato molto lontano dal 68% del 2005, ma pur sempre di 10 punti più alto rispetto al 2009). Rimane il fatto che, nota Caritas Migrates, costi e inefficenze rimangono elevati, mentre una delle strade più adatte a ridurre l’iregolarità (flussi d’ingresso realistici) rimangono lettera morta.

da Europa Quotidiano 28.10.11

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“Occidente, nessun muro può fermare gli immigrati”, di Mario Baudino

L’economista indiano Jagdish Bhagwati: “Espellere i clandestini non serve: ritornano. Bisogna accettare il fatto che sono qui”. E’ riconosciuto come uno dei più importanti studiosi – e teorici – del commercio internazionale, docente alla Columbia e ascoltatissimo consigliere di organismi come le Nazioni Unite o il Wto. Jagdish N. Bhagwati, nato a Mumbai nel ‘34, vive in America ma ha mantenuto orgogliosamente la cittadinanza indiana, e c’è sicuramente la sua opera di studioso dietro il grande sviluppo economico del Paese, dove torna ogni volta che può, fedele all’idea che gli «emigrati intellettuali» devono coltivare un principio di «lealtà». In agosto ha pubblicato una lettera aperta al presidente Obama, ribadendo una sua idea chiave: il timore che i liberi commerci con i Paesi in via di sviluppo tolgano posti di lavoro nei Paesi ricchi è infondato. Qualcosa di molto simile pensa dell’immigrazione, non quella di alto livello ma quella delle masse povere, e lo ha spiegato ieri alla Fondazione Einaudi di Torino aprendo un convegno su questi temi organizzato dal Centro studi Luca d’Agliano, con il Centre for Economic Policy Research, la Commissione Europea e la Compagnia di San Paolo. La sua analisi riguarda gli Usa, dove la politica sull’immigrazione, spiega, è andata incontro a un clamoroso fallimento. Ma può estendersi a tutto l’Occidente, Europa compresa.
Professore, la questione è economica ma anche e forse soprattutto etica. Lei è uno studioso dell’immigrazione. La ritiene un fenomeno storico, o un diritto di ogni essere umano?
«Il problema è tutto qui. Emigrare, andare via in cerca di salvezza o di miglior fortuna, è un diritto naturale, che per fortuna oggi viene generalmente riconosciuto. Entrare in un altro Paese è tutta un’altra questione. Gli animali difendono il loro territorio. E le persone spesso si comportano alla stessa maniera».
Senza riuscirci?
«La mia analisi sulla politica americana giunge a questa conclusione: arrestare i flussi di immigrazione è impossibile. Abbiamo costruito una barriera difensiva sulla frontiera con il Messico che nel ‘92 costò 326 milioni di dollari e nel 2010 è arrivata a farcene spendere 2958. Si sono lanciate operazioni di sapore bellico senza alcun risultato. Anzi, l’immigrazione illegale è aumentata. Questa era la politica di Clinton. Ora con un altro presidente democratico, Obama, si è inasprita la pressione su quanti sono entrati nel Paese, fino alla vera e propria privazione dei diritti elementari. E anche qui senza risultati perché l’idea di essere disumani con gli immigrati non fa parte della cultura americana».
Se ce la fai a passare, magari a prezzo della vita, poi ti tratto bene. Non è ipocrita?
«Semmai è un atteggiamento schizofrenico. Se non vedi che cosa succede alla frontiera, stai tranquillo. La parte sinistra del cervello ti dice: sono illegali. La parte destra invece ti ripete: sono immigrati, e noi siamo un Paese di immigrazione. È un atteggiamento molto americano, ma mi piace ricordare quel che disse Max Frisch, lo scrittore svizzero, a proposito proprio degli immigrati italiani del dopoguerra: abbiamo chiamato braccia e sono venuti uomini».
E da uomini vanno trattati.
«A questo punto non li puoi espellere. Anche perché non serve a nulla. Ritornano. Anni fa propendevo per una maggior tutela dei confini. Ora dico: accettiamo il fatto che sono qui. Il confine resta un elemento simbolico, ma di lì in poi lasciamo che gli Stati, parlo degli Usa, competano. Gli immigrati si spostano, gli Stati “cattivi” perdono forza lavoro, quelli “buoni” ne guadagnano».
Anche con la recessione e la crisi mondiale?
«Certo non è un buon periodo per mettere mano alle legislazioni. Però resta vero che quella americana ha fallito. Alla fine, il numero degli immigrati non è un problema. Sono semmai le leggi sbagliate che lo fanno crescere. Dobbiamo riconoscere che non c’è modo di impedire alla gente di spostarsi, e nel caso di venire in America. Ai miei studenti faccio spesso l’esempio di Al Capone: in pieno proibizionismo, i suoi camion di whisky arrivavano regolarmente a destinazione. So che è una posizione molto controversa, ma non ci posso far nulla».
Vale anche per l’Europa?
«Forse voi pagate ancora una mentalità imperiale. Arrivano dalle vostre ex colonie, questo può provocare un senso di superiorità, sbagliato. In America è diverso. E poi, sa quando la frontiera del Rio Grande ha cominciato a diventare un problema? Nel ‘24, quando si bloccò l’immigrazione soprattutto di cinesi e giapponesi per la costruzione delle ferrovie. I messicani prima, e gli altri latino-americani subito dopo, presero semplicemente il loro posto».
Ma una politica delle porte aperte regge dal punto di vista economico?
«Le rispondo con una battuta che circola fra gli economisti: sul Rio Grande le imprese che lavorano alla barriera col Messico si bloccano improvvisamente. Che è successo? Semplice: non ci sono più clandestini da far lavorare».

La Stampa 28.10.11