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"Bersani: siamo un collettivo basta divisioni giovani-vecchi", di Simone Collini

“Oggi avviamo un progetto che non ha precedenti nella storia della politica italiana”, dice Pier Luigi Bersani arrivando a Napoli per inaugurare una scuola di formazione riservata a ragazzi under-35 dellemregioni del Mezzogiorno che durera un anno (attraverso appuntamenti come questo e soprattutto mediante la costruzione di una rete on-line) e che sara poi estesa anche alle regioni del Nord. “Mi sembra una notizia no?”, e sorride. “Ma se
devo essere proprio sincero….” Il leader del Pd sa bene qual e l’attenzione mediatica riservata al Big Bang di Matteo Renzi e quale a questo appuntamento. Ma non si scandalizza, anzi ai duemila ragazzi che lo salutano con una standing ovation alla Mostra d’oltremare dice innanzitutto: “Stiamo facendo formazione alla politica, e allora la prima cosa da imparare e l’autonomia della politica. Rapporti amichevoli con la comunicazione,ma guai ad esserle subalterni. Anche perche il mestiere della politica non e il mestiere della comunicazione”.
Inevitabile, in una giornata come
questa, andare col pensiero alla Leopolda. Anche perche Bersani dedica una parte dell’intervento con cui apre Finalmente Sud alla questione del rinnovamento, insistendo pero su un fatto: “La distinzione fra giovani e adulti e una stupidaggine di proporzioni cosmiche. Tocca ai giovani andare avanti, a chi senno?Ma noi siamo un collettivo. Da soli non si salva il mondo. Nonsi puo dar l’idea che un giovane per andare avanti deve scalciare,
deve insultare”.
RICAMBIO SENZA CAMBIAMENTO
Ma non e solo questo cio che non convince Bersani, quando sente parlare della necessita, che pure riconosce, di rinnovare la classe dirigente del partito. Del resto se ha insistito, anche tra le perplessita di una parte dei vertici del Pd, per organizzare questa scuola di formazione e proprio perche giudica necessario “far girare la ruota”. Lo dice a questi
ragazzi che rappresentano i ricostruttori d’Italia, dal momento che senza il Sud l’Italia non puo farcela. Quello che pero non piace a Bersani e assistere a movimenti che sembrano prefigurare un “ricambio senza cambiamento”. E non e solo perche a muovere aspiranti rottamatori sembra piu che altro lo slogan “vai via tu che arrivo io che sono piu
giovane”. Dice il leader del Pd: “Serve un ricambio con cambiamento. Ci vogliono idee, metodi e protagonisti nuovi. Non una di queste cose senza le altre. Perche e inutile mettere il vino nuovo in otri vecchi. Non si possono contrabbandare per nuove idee degli anni 80. Abbiamo gia dato. Un riferimento a chi pensa si possa rispondere alla crisi in atto riproponendo le ricette sul mercato del lavoro lanciate da Reagan, Thatcher e rilanciate
in casa nostra da Craxi e soci. “Non possiamo riscoprire idee che ci hanno portato al disastro e venderle per cose nuove”.
Davide Zoggia, seduto tra le primefile insieme ad altri membri della segreteria, dice che il messaggio di Bersani serve a ribadire la necessita di un lavoro collettivo e che non ci sono interpretazioni legate a personalizzazioni: “Sbaglia percio chi, come Matteo Renzi, legge questo intervento come una critica nei suoi confronti. Bersani non ha nemmeno citato
Renzi, ha chiamato la classe dirigente italiana ad un’assunzione di responsabilita e a lavorare insieme per la ricostruzione del Paese”. Che poi è effettivamente il cuore del discorso che fa il leader del Pd di fronte ai duemila ragazzi arrivati a Napoli.
La ricostruzione per Bersani dovrà partire da una riscossa civica perche Berlusconi non e il solo responsabile, se ci troviamo in questa difficile situazione economica e sociale.
“C’era chi sapeva. Perche le classi dirigenti italiane hanno taciuto? Io ho una teoria: che oltre all’ideologia berlusconiana c’e un egoismo di classe, per cui a lungo si è pensato che i piedi se li bagnassero solo quelli di terza classe. Quando si son bagnati i piedi anche loro hanno iniziato a dire che qualcosa non andava. Ma adesso basta, con l’egoismo sociale
non si va da nessuna parte. Chi ha di più deve dare di più, altrimenti i piedi ve li bagnate pure voi. Senza equità il Paese non si salva.
Per ricostruire servirà però tempo e lavoro. Per questo e necessaria una scuola di formazione come questa. Che Bersani dedica alle 72 vittimedelle stragi di Oslo e di Utoya. Per ricordare quei ragazzi le autorità norvegesi dissero ai funerali che era stato attaccato quanto di meglio c’e in democrazia: i giovani impegnati in politica. Dice Bersani chiudendo l’intervento, prima che sul maxischermo partano le immagini di quel campeggio e di quei ragazzi sorridenti spazzati via dalla follia omicida: “Gli diremo che nel Sud dell’Europa la
fiaccola e accesa e va avanti”.

L’Unità 30.10.11

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Show Baricco-Chiamparino “Basta con la sinistra conservatrice”, e trionfa il modello-Torino, di Jacopo Iacoboni

Alla kermesse di Matteo Renzi la sveglia per il merito e l’innovazione la danno, non può essere un caso, due discorsi che respirano quello che resta di un esprit sabaudo
E da chi, se non da due torinesi, poteva venire l’onesta constatazione che la sinistra di questi anni in Italia è stata «quanto di più conservatore ci sia»?

Prima Baricco poi Chiamparino, c’è molto, oggettivamente, di un singolare esprit sabaudo, se è permesso dir così, in questo evento di Matteo Renzi alla Stazione Leopolda. Il discorso dell’ex sindaco – per chi avesse un minimo di orecchie – conteneva evidenti citazioni di Norberto Bobbio, soprattutto quel «paradigma» del filosofo che coniugava l’«equità» sempre dentro un orizzonte che ha a cuore la «libertà», in ogni senso declinata. Ma nella kermesse della Leopolda si sono poi ascoltate da molte bocche suggestioni che in questi anni sono venute all’Italia da una sinistra di professori torinesi, Giuseppe Berta, Luca Ricolfi, Luciano Gallino, atipica perché attenta non solo alla rivendicazione di diritti, ma al tema della crescita, del merito, dell’alleggerimento fiscale. È come se Renzi la sua candidatura l’avesse risciacquata in Po, assai prima che in Arno. Una mattina Matteo, prima di essere eletto sindaco, nel suo studio constatava: «Magari la sinistra italiana fosse più simile a Torino che a Roma…».

Racconta Chiamparino, durante il tragitto di ritorno in treno da Firenze, che «questa chiave, se posso dire, bobbiana, del riformismo torinese, è lo spirito innovativo che la sinistra del novecento può suggerire a una forza nuova. Noi dobbiamo certo batterci per la giustizia sociale, ma non possiamo neanche fare come se la lettera di Trichet e Draghi non esistesse». Tutele, cioè, ma ponendosi il problema di come crescere, e smuovere un’Italia incrostata.

Chiamarla «sinistra torinese» presupporrebbe una realtà omogenea, che ovviamente non esiste più. Un sentire diffuso però sì. Lo si coglie da anni nei dibattiti pubblici, nelle case, in quel che rimane della borghesia intellettuale della città. Nell’aprile del 2008, all’indomani del tracollo del centrosinistra alle comunali di Roma, sempre Baricco, reduce da una lezione sull’Hemingway di Un posto pulito, illuminato bene , confidava quello che ieri ha detto apertamente, e cioè di essersi allontanato da un qualche coinvolgimento nella sinistra Veltroni-D’Alema (che pure glielo aveva espressamente chiesto) in parte, certo, «perché non ho mai saputo fare politica, e questa è una stagione in cui ognuno dovrà fare quello che sa fare». Ma anche – forse soprattutto – perché «loro non volevano cambiare…». Non il morettiano «con questi non vinceremo mai» di piazza Navona, ma un più sobrio e piemontese «ognuno faccia quel che sa». Innovando, pensando al futuro, più ancora che all’oggi.

Stupisce poco che la folla che l’ha ascoltato a Firenze fosse la stessa che ha riempito la sala per Chiamparino. L’ex sindaco che ancora non ha deciso cosa farà da grande – è pronto a candidarsi alle primarie, annuncia, «ciò non significa che il mio coinvolgimento ci sarà solo se faccio il leader» – ricorda con qualche comprensibile ragione: «Sono stato io a riuscire a far dialogare per tre ore Giorgio Airaudo con Sergio Marchionne, durante la vertenza per il contratto a Mirafiori». E pazienza se l’accordo non lo trovarono: a Torino anche la sinistra radicale va a parlare col capo dell’industria più importante. Uno schema che con Landini, sul piano nazionale, risulta assai più difficoltoso; e risale, in fondo, a quella Fiom torinese che già con Bruno Buozzi sapeva praticare la via dell’apertura, prima dell’avvento del fascismo.

Il che non vuol dire solo bolsa litanìa riformista: ma, a volte, possibilità di tradurre in atti il radicalismo. Non è casuale che Chiamparino ricordi come, a Torino, la sinistra ascolti anche suggestioni che provengono da uomini come Airaudo, appunto, o Marco Revelli. O che si proponga a Renzi una feconda esperienza della Torino primi anni ottanta, quella che, dopo i 35 giorni alla Fiat, mette insieme, nei dibattiti di Casa Aurora, uomini come Annibaldi e Magnabosco, da una parte, con Arnaldo Bagnasco, Berta, il giovane Chiamparino, Cesare Damiano, dall’altra.

La sfida attuale, ovvio, è trovare altri percorsi e nuovi uomini, ma uno spirito non così differente. Meno politica, più innovazione. A Firenze, assieme alla presenza a sorpresa di Civati, è stato citato il lavoro intelligente di Ilda Curti, che ha gestito il pacchetto immigrazione con sagacia. I nuovi migranti sono platea irrinunciabile, per ricostruire. Volendo, Torino potrebbe dare anche altro; a saper scavare appena un po’.

La Stampa 30.10.11

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“Con l’effetto-Renzi, a sinistra primarie aperte più vicine”, di Stefano Folli

Dopo il week-end fiorentino della Leopolda, il Partito democratico si risveglia un po’ diverso. Le acque del centrosinistra sono ormai increspate e non solo per merito di Matteo Renzi. C’è una dinamica fra i volti nuovi del Pd che improvvisamente conquistano la scena e impongono i loro temi. Dal punto di vista mediatico è stata una buona idea la visita dell’altro giovane emergente, Civati, al convegno del sindaco fiorentino.

E poi ci sono anche i giovani del Mezzogiorno riuniti con Bersani a Napoli.
In generale si sta verificando un fenomeno ben noto in politica: quando si affermano protagonisti inediti, più freschi, percepiti con simpatia dall’opinione pubblica come interpreti della “modernità”, il vecchio gruppo dirigente appare da un giorno all’altro ossificato. Ed è qui l’essenza del successo di Renzi. Perché di successo si deve parlare, se si ammette che da oggi l’identità del partito dovrà tener conto delle novità.
Intendiamoci: per Renzi e i suoi amici il difficile comincia adesso. È facile raccogliere sorrisi e pacche sulle spalle quando si resta nel generico. Un buon comunicatore (e il sindaco di Firenze è più che buono, è ottimo) sa navigare nel mondo dei “media” come un pesce nell’acqua.

Man mano che la corsa si fa dura vanno però precisati i fatidici “contenuti”, le idee, le priorità. Occorre saper essere “moderni” restando però dentro una tradizione culturale che per Renzi coincide con l’incontro dei vari filoni riformisti che animarono le speranze poi deluse del primo Ulivo.
Sotto questo aspetto il sindaco dovrà fare uno sforzo nel suo intervento conclusivo di oggi. Dovrà essere molto più concreto e propositivo di quanto non sia stato finora. Qualcosa sul modello e nello stile indicato da quel personaggio davvero pragmatico che è l’ex sindaco di Torino, Chiamparino, intervenuto ieri.

Abbiamo capito che la partita si giocherà all’interno del Pd, senza fratture che nessuno si augura. Anche perché a questo punto della legislatura, con le elezioni in vista, eventuali punizioni inflitte ai «giovani che scalciano» (parole di Bersani non proprio ben scelte) sarebbero un suicidio.
Al contrario, il risultato politico di questa tornata di convegni, e in particolare della Leopolda, riguarda il processo delle primarie. Vedremo come finirà, ma non c’è dubbio che il tema ha acquistato una forza ineludibile che prima non aveva. Primarie “aperte”, alla francese. Non quelle ingessate, cosiddette «di coalizione», con il segretario Bersani come unico candidato del Pd. Date le circostanze, un ricorso alle primarie aperte sarebbe il vero «big bang» in grado di scuotere il centrosinistra e di presentarlo agli elettori sotto una luce realmente rinnovata.

Bersani dovrebbe essere il primo a cavalcare la tigre, perché in fondo ha poco da temere dai «nuovisti» se la sfida è per la leadership. Il segretario è solido ed è in grado di reggere agli attacchi, mentre ha tutto da perdere se lascia ai giovani lo spazio mediatico e in più passa per uno che non li capisce e li snobba. Da oggi, in ogni caso, il Pd, inteso come gruppo dirigente, dovrà badare a scrollarsi di dosso l’etichetta di «conservatore» e «passatista» che gli è stata appiccicata addosso. Può riuscirci, ma ci vuole un supplemento di fantasia. Il che non farà male all’esangue centrosinistra che si prepara al voto.

Il Sole 24 Ore 30.10.11