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«Che flessibilità volete ancora? Noi siamo già stati licenziati» di Rinaldo Gianola

Nel dibattito sui «licenziamenti facili», definizione troppo dura e radicale secondo alcuni professori e ministri che più scientificamente si alternano a «Porta a porta» per argomentare di «flessibilità in uscita», bisognerebbe dare la parola a qualcuno che è davvero interessato all’argomento. Giovanni Ferravante, operaio di 56 anni, originario di Benevento e da una vita residente a Settimo Torinese, ha qualche idea precisa e saggia. Racconta:«Sono in cassa integrazione straordinaria, la mia azienda la Global Business è in liquidazione. Quando sento in televisione che vogliono cambiare la legge per rendere più facili i licenziamenti penso che sono diventati tutti matti. È una follia pensare di licenziare, vuol dire non sapere cosa sta succedendo nelle aziende, nelle fabbriche. Oggi le imprese fanno quello che vogliono, ci buttano fuori quando non serviamo più. Io sono fortunato: andrò in mobilità e poi in pensione, i miei colleghi di 30-40 anni, invece, non hanno speranze, è un’impresa trovare un posto. Mia moglie lavora, mio figlio di 25 anni si è laureato, si occupa di biotecnologie, lavora con una borsa di studio fino amarzo dell’anno prossimo. E poi chissà. I giovani non trovano lavoro perchè le aziende dicono che hanno poca esperienza, noi vecchi non ci vogliono più. Se uno oggi ha cinquant’anni viene considerato un rottame però ci dicono che dobbiamo andare in pensione sempre più tardi. Allora, mettetevi d’accordo. I lavoratori sono stati abbandonati dalla politica. Ho votato a sinistra, anche Rifondazione ma poi li ho mollati perchè si dividevano su tutto. L’ultima volta ho votato per Di Pietro. Ci vorrebbe più rispetto per noi operai». Quanti casi come questo ci sono in Italia? Nell’ultimo triennio sono scomparsi più o meno 500mila posti di lavoro, un altro mezzo milione di lavoratori è stato coinvolto nei processi di cassa integrazione. Una parte è rientrata al lavoro, ma una larga parte ha alimentato il bacino degli espulsi dai processi produttivi e occupazionali. Proporre di facilitare i licenziamenti, di favorire la «flessibilità in uscita» in un momento di terribile crisi sociale come questo può apparire davvero una provocazione. Facciamo un esempio concreto di come vanno le cose oggi nel nostro Paese. La Cisl della Lombardia ha appena diffuso un’analisi da cui risulta che nella regione «locomotiva d’Italia », che produce circa il 20% del Pil nazionale, negli ultimi tre anni ci sonostati 167mila licenziamenti. Il leader regionale della Cisl Gigi Petteni commenta: «Questo dato dimostra che le aziende che vogliono ridurre il personale non hanno bisogno di leggi che facilitano i licenziamenti, abbiamo bisogno invece di politiche attive per occupare queste migliaia di lavoratori licenziati». Ma anche i sindacati rischiano di predicare nel vuoto. È sorprendente che in Italia oggi ci siano ministri, esponenti politici, intellettuali magari vicini alla sinistra che pensano davvero che i lavoratori dipendenti con le loro assolute garanzie oaddirittura privilegi siano un freno allo sviluppo dell’economia e alla crescita dell’occupazione. Sono anni, ormai, che i garantiti del posto fisso hanno perso la loro presunta sicurezza e basterebbe elencare i nomi delle aziende in crisi, che hanno deciso pesanti piani di riorganizzazione e di tagli occupazionale, per smentire questo pensiero. Sono centinaia le imprese chehanno licenziato, sono centinaia di migliaia, ancora oggi, i posti di lavoro in pericolo nel nostro Paese. Fiat,Finmeccanica, Eutelia, Fincantieri, Vinyls, Indesit, A.Merloni, Telecom, lameccanica, la chimica, il tessile, tantissime imprese hanno tagliato e ristrutturato. La mannaia ha colpito anche il settore bancario e assicurativo, dove sono stati allontanati decine di migliaia di occupati, e anche tra gli intermediari di Borsa, nel “miglio quadrato” di piazza Affari, la crisi si è presentata con la riduzione dei posti di lavoro. La flessibilità in uscita c’è e funziona, fin troppo. Ecco un caso emblematico di crisi industriale che poteva finire in tragedia sociale, ma che per ora è stata tamponata con la resistenza e la responsabilità dei lavoratori. Valentino Marciò, 46 anni, sposato, due figli, lavora all’Iveco di Brescia da 24 anni. Licenziamenti facili? «Cosa volete ancora da noi operai? Non vi basta la crisi, la cassa integrazione, il salario da fame? Qui all’Iveco siamo in 2600, negli ultimi anni i volumi di produzione sono caduti per la crisi. L’azienda voleva tagliare, buttare fuori mille persone. Noi abbiamo resistito e li abbiamo convinti a fare i contratti di solidarietà perunanno. Anche questa è flessibilità. Oggi le imprese si sentono di poter fare tutto quello che vogliono e questa idea dei licenziamenti è strumentale perchè vogliono approfittare della crisi, spremere i lavoratori, farla pagare ai sindacati, buttare fuori quei rompiballe della Fiom, chi non abbassa la testa. C’è un sacco di gente, anche a sinistra, che parla di cose che non conosce, che non sa cosa vuol dire stare in fabbrica, vanno in te a dire scemenze. Volete la riforma del mercato del lavoro? In Germania chi perde il posto ha una busta paga più alta della mia. Il nostro mercato del lavoro è lo sfruttamento di giovani di 20, 30 anni che restano precari a vita. Voto per Vendola, ama mi convince poco. Vorrei che i lavoratori contassero di più, che la politica e il sindacato fossero più attenti. La verità è che oggi l’operaio si sente spesso solo, isolato». Con poche speranze e illusioni sono rimasti in molti lavoratori. La crisi è stata accompagnata da un fenomeno diffuso in tutto l’Occidente: il lavoro perde valore sociale e culturale, non è più un riferimento forte ed essenziale per le forze politiche che un tempo ispiravano la loro azione proprio sulle condizioni di vita dei lavoratori. Luigi Pani, 42 anni, un figlio, è dipendente della Saturno, azienda torinese in amministrazione controllata, che operava nell’indotto Fiat. Racconta: «I licenziamenti facili ci sono già. Quando sento certi dibattiti in tv mi viene da piangere, pare che se c’è la crisi e l’economia non riparte è colpa nostra che non lavoriamo abbastanza e rivendichiamo troppi diritti. Ma questa è una realtà falsa. I rapporto di forza sono tutti a favore delle imprese. Noi non contiamo più niente, questa è la verità Dobbiamo solo stare zitti e accettare tutto quello che i padroni decidono per noi. Sono sempre stato attento alla politica, ma non ci credo più. L’ultima volta a Torino ho votato per Grillo, per protesta ma non serve a nulla. Sai qual è la vera novità in Italia? Lo smartphone. Se non ce l’hai non sei nessuno».❖

L’Unità 02.11.11