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"Successi internazionali, soldi e calcio. Silvio e il complesso del numero uno" di Gian Antonio Stella

«Ghe pensi mi». «No, per favore: no!». Mettetevi al posto del Cavaliere: è dura, per chi è convinto di essere «di gran lunga il miglior presidente del Consiglio che l’Italia abbia avuto nei 150 anni della sua storia», sentirsi assediato dalle invocazioni a farsi da parte. Non è solo una questione politica: è una pugnalata al suo amor proprio.
Sono anni che il Cavaliere batte e ribatte: «In Italia nessuno può dire di aver fatto quanto ho realizzato io. Nemmeno in Europa c’è uno che abbia una caratura paragonabile a quella di Berlusconi. E in America solo Bill Gates mi fa ombra. Adesso direte che sono presuntuoso, che ho un complesso di superiorità. Ma parlano i fatti».
Una convinzione radicata: «Non c’è nessuno sulla scena mondiale che può pretendere di confrontarsi con me, nessuno dei protagonisti della politica che ha il mio passato, che ha la stessa storia che ho io. Quando mi siedo a fianco di questo o quel primo ministro o di un capo di Stato, c’è sempre qualcuno che vuol dimostrare di essere il più bravo e questo qualcuno non sono io. La mia bravura è fuori discussione: la mia sostanza umana, la mia storia, gli altri se la sognano».
Lui, spiegò al Senato, fece finire decenni di conflitto tra i blocchi mondiali: «Abbiamo ottenuto risultati straordinari. Ricordo che nel 2002, quando facemmo il vertice a Pratica di Mare, per la prima volta la Russia entrò nell’Occidente ponendo fine a quella guerra fredda». Lui mise in riga i litigiosi Obama e Medvedev: «A loro ho intimato, come presidente per la terza volta del G8, di non presentarsi da noi in Italia senza avere almeno siglato il Trattato per la riduzione degli arsenali nucleari, delle bombe atomiche». Lui fermò la guerra nel Caucaso salvando Mikhail Saakasvili dopo che i russi avevano deciso «di attaccare la Georgia, di arrivare a Tbilisi e, parole che cito testualmente, attaccare all’albero più alto il presidente georgiano».
Lui, ancora, fermò la crisi planetaria: «E quando l’amministrazione repubblicana non mosse un dito e lasciò fallire Lehman Brothers, questo signore andò a Washington e spese un giorno intero col presidente americano e venne fuori la decisione: destinare 700 miliardi di dollari affinché le banche americane non fallissero altrimenti sarebbe stato il disastro».
Tutti trionfi guadagnati grazie ai legami amichevoli stretti con i leader del pianeta attraverso «la diplomazia del cucù»: «Prendi uno sotto braccio e con tutti stabilisci un ruolo preferenziale. Siamo o no il Paese più autorevole e più simpatico nel Mediterraneo? E allora dobbiamo contare di più». Ovvio che tutti lo adorassero: «Ovunque mi trovi la gente mi si fa d’intorno, mi incoraggia e mi festeggia, confermandomi così quel 68,4% di stima e apprezzamento che è rivelato dai sondaggi e che rappresenta il record di tutte le democrazie occidentali».
Un delirio di amore che, stando ai numeri che forniva, crebbe fino a coinvolgere evidentemente una buona fetta dell’opposizione, dei comunisti, dei disfattisti e perfino dei «professionisti dell’odio»: «Ieri i sondaggi mi davano al 75% di popolarità, gli ultimi di stamattina sono al 77%». Al che Fabio Mussi tornò a ridacchiare su una sua vecchia battuta: «Quando arriverà al 100% ci faccia un fischio».
Sempre primo, primo, primo. Primo alle elementari quando faceva i compitini agli altri in cambio delle merendine. Primo nella tesi di laurea sulla pubblicità. Primo a «portare in Italia le canzoni di Aznavour e di Becaud». Primo per coppe e scudetti: «Il 27° trofeo conferma il Milan come il club più titolato al mondo e fa di me il presidente che nella storia del calcio internazionale ha vinto di più. Bernabeu, il numero due, ha vinto la metà…». Primo nel pianeta per la collezione di cactus. Primo a fare un’intera legislatura da premier. Primo per numero di giorni a Palazzo Chigi. Primo per new-town tirate su dopo un sisma. Primo per numero di donne: «Non è colpa mia se tutte si innamorano di me e non sono neanche colpevole del fatto che anche in questo campo sono il numero uno».
E poi primo contribuente d’Italia. Primo «perseguitato dalla magistratura di tutte le epoche, nella storia degli uomini, in tutto il mondo». Primo erede di De Gasperi, ma meglio: «Sono assolutamente certo d’essere l’uomo più democratico mai giunto a essere primo ministro d’Italia». Il giorno in cui Enzo Biagi gli chiese chi gli venisse in mente quando pensava «a un grande uomo di stato», rispose: «Direi Adenauer, Churchill, De Gaulle… Ma siccome siamo in campagna elettorale dico Silvio Berlusconi». Convinzione granitica: «Passerò alla storia», disse a Renato Farina, «preparate il monumento». Equestre, si capisce: «Solo Napoleone ha fatto più di me».
Una fiera delle vanità che per anni, fino a qualche mese fa, ha fatto sorridere non solo chi detesta il Cavaliere ma anche quanti gli sono amici. Il guaio è che le cose sono drammaticamente cambiate. E il peso di questo ego spropositato e titillato da laudatores come Don Luigi Verzé («Berlusconi è stato mandato dalla divina Provvidenza per salvare questo Paese. E lo sta facendo molto bene») rischia di pesare sul destino del Paese. «Da quando siamo al governo», disse anni fa, «è successo di tutto, dall’11 settembre, alla stagnazione, ad alluvioni e terremoti, dunque mi sta venendo un complesso di superiorità: meno male che ci sono io, perché un altro che avrebbe fatto?». Ecco il tema: lasciare, per un combattente come lui che ha «sempre vinto», non sarebbe solo una sconfitta politica. Sarebbe una disfatta personale. Umana. Esistenziale. Come può andarsene da vinto? Come può immaginare che forse, chissà, magari, altri possano fare meglio di lui? Eppure potrebbe essere questa l’ultima scommessa del Cavaliere: dare torto a chi rifiuta perfino di immaginare che lui possa avere la generosità istituzionale di farsi da parte. E dimostrare al mondo intero che, anche per lui, l’Italia viene prima di lui.

Il Corriere della Sera 03.11.11

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