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"Gli eroi del fango", di Maurizio Crosetti

C’è un´Italia che a mani nude salva l´Italia, è questo il meglio di ciò che siamo: scavando, spalando, togliendo fango con un secchiello o con un assurdo pezzetto di legno, disperatamente, eppure quasi con gioia. Un´Italia orgogliosa e invisibile, nella melma ma non ancora devastata dentro, non ancora alluvionata nel profondo. Storie esemplari di piccoli eroi: anche questo hanno proposto le infinite ore d´acqua, buie come una notte che non passa, lucenti come un uomo e una donna quando non s´arrendono, anche se forse ne moriranno.
Cristian Silvestri, 21 anni, per mezza giornata l´avevano dato per disperso. Invece era pure lui in via Fereggiano. «Tornavo dall´Università, mi sono rifugiato dentro una macelleria quand´è arrivata la piena, c´era gente attaccata alle ringhiere, ho afferrato una donna, l´ho tolta dall´acqua, poi altre due. L´ho fatto perché dovevo». Uscito dalla lista dei morti, poi su Facebook per avvertire gli amici. E in strada, nel silenzio che viene dopo l´ecatombe. Ora un cagnolino bianco annusa il fango. Un bambolotto nudo, riverso sulla schiena, si prende l´acqua in faccia e sembra una creatura. Due volontari, lui e lei, si baciano sulla bocca con un sorriso e poi spalano. Solo rumore di pioggia, e il ruggito del torrente color terra.
Francesco Plateroti, 45 anni, benzinaio, aveva concluso il turno di notte. Dalla sua stanza, proprio sopra l´androne della morte, sente gridare aiuto. Scende in basso, vede Domenico, il figlio di Angela Chiaromonte: lei non ce la farà, invece il ragazzo lo salva passandogli un pezzo di legno, il ramo di un albero, perché si aggrappi e non s´arrenda. «Mi urlava “salvami, ti prego, salvami!”, e poi “prendete mia madre, è la sotto!”, abbiamo fatto il possibile. Ho tirato fuori dal fango anche il mio amico Vincenzo Ranieri, che è in pensione. L´ho afferrato per la vita, ma per la donna non c´è stato niente da fare».
Si può essere piccoli eroi anche con un minimo gesto di calore, porgendo un panno asciutto e una tazza di tè: come quella che Armanda Verdona passa al benzinaio Francesco. E si può esserlo solo aiutando, senza neppure dire nome e cognome: come la ragazzina di 16 anni che ora racconta in Rete quei momenti, nell´androne diventato una tomba: «Abbiamo fatto la catena umana, abbiamo salvato prima il ragazzo e poi il signore, il ragazzo lo conoscono i miei amici che giocano a pallone con lui, nel Baiardo, abbiamo la stessa età. Mi dispiace tanto per la sua mamma Angela».
C´è puzza di gasolio, rumore di idrovore e compressori in un silenzio da cattedrale. Mentre piove altra notte sulla città, dentro questo assurdo arcipelago genovese, i ragazzi del Cus Genova Rugby si danno appuntamento in piazza Manzoni. Poi andranno in via Fereggiano, a spalar via la morte. Hanno appena aperto un gruppo su Facebook che si chiama “Noi nel fango ci muoviamo bene”: nell´elemento naturale si affanna anche Francesco Avignone, 21 anni, studente all´Accademia delle belle arti e angelo del fango. «Abbiamo scavato con le mani, con le scope di saggina, con i secchielli, con pezzi di legno, con tutto quello che trovavamo. Speravo ci fosse più gente insieme a noi, più volontari, pazienza. I rugbisti hanno forza e coraggio. Alcuni di noi erano stati anche alle Cinque Terre, qualche giorno fa, e domattina saremo di nuovo qui. Ma scrivete per piacere che vengano tutti, anche l´Esercito, chiunque».
I piccoli eroi si muovono dentro lo scirocco che comincia a picchiare sulle case color pastello, alzando i baveri e nuvole d´altra acqua: svuotano l´oceano con un catino di plastica. Hanno mantelline gialle, mangiano panini a brevi morsi. La paura è un silenzio che scende dalla montagna, insieme all´allarme di una nuova piena. Si scappa ai piani alti delle case, il terrore è questa cosa gelata che proviamo tutti, mentre ci stanno dicendo di fuggire, di correre. Poi l´allarme rientra: non il sentimento di essere povera cosa, vite precarie in prestito. Come Bennardo Sanfilippo, il poliziotto che cercò il corpo della moglie Angela e trovò quello della bimba Janissa. Come Serena Costa, 19 anni, che aveva preso il fratellino Danilo a scuola: «È annegata per riportarmi a casa, avevo la sua mano stretta tra le mie, poi l´ho sentita andare», e così Serena è morta schiacciata tra due auto. Come la mamma albanese, Shpresa Djala, prima a scuola e poi affondata. Come Evelina l´edicolante, che lavorò tra i giornali al posto del marito Attilio, influenzato, e ora lui dice: «Si è sacrificata per me».
I piccoli, esemplari eroi di quest´Italia con l´anima asciutta, senza paura del fango che fa marcire il cuore, assomigliano ad Emanuele Gissi, 38 anni, ingegnere, comandante provinciale dei Vigili del fuoco. Gli stessi pompieri che abbiamo visto in tivù e su Internet mentre salvano i bimbi dell´asilo, portandoli all´asciutto a cavalcioni uno per uno, con delicato amore, come se fosse solo un gioco. Via così, dall´acqua che spaventa. Il comandante Emanuele ha salvato almeno dieci persone, quelle del pullman numero 82, proprio davanti alla casa della tragedia: «Li abbiamo fatti uscire da quella trappola, erano appesi alle ringhiere, abbiamo aperto i portoni del palazzo diventato un rifugio». Poi è andato nella cantina, dove cinque donne stavano affogando. Si è messo la muta, è sceso nel fondo dell´abisso: «Per due volte ci siamo tuffati, non è servito». E invece sì, che è servito: a farci sentire tutti più vivi, adesso e qui, nella tormenta che dovrà pur finire.

La Repubblica 06.11.11

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“Tutte le colpe per una tragedia”, di GIOVANNI VALENTINI

Stavolta hanno ragione sia Bagnasco sia Berlusconi: il primo ad ammonire che “la natura va rispettata”, il secondo a riconoscere che “s´è costruito dove non si doveva costruire”.
Con la differenza, però, che l´uno (da uomo di Chiesa) predica bene e l´altro (da uomo di governo) razzola male. L´apocalisse di Genova mette drammaticamente allo scoperto le responsabilità di tutti, vecchie e nuove; l´incuria e il degrado; l´abbandono del territorio e i tagli dei fondi statali; ma anche l´incapacità dell´amministrazione locale a fronteggiare un´emergenza ampiamente prevista e annunciata.
Sappiamo bene, e qui l´abbiamo ripetuto fin troppe volte, che il dissesto del Malpaese ha origini complesse e remote. E tuttavia, in questa occasione, emerge una responsabilità più immediata e diretta di chi governa una città critica come Genova, con un territorio morfologicamente a rischio, compromesso da una lunga pratica di cementificazione, speculazione e abusi edilizi, ancor più che dalle sue caratteristiche naturali. Di fronte a una tale situazione endemica, l´amministrazione comunale non ha saputo né prevenire né contenere i danni e soprattutto non ha saputo impedire questo tragico bilancio di vite umane.
Da giorni era scattato l´allarme della Protezione civile sul pericolo, definito “elevatissimo”, che incombeva su Genova e sulla Liguria. È chiaro che, in uno stato di allerta, nessuno può rimuovere le cause più profonde di un disastro di queste dimensioni: dal cambiamento climatico al dissesto idrogeologico. Ma che senso ha, allora, invitare la popolazione a restare a casa e poi lasciare aperte le scuole, i negozi, gli uffici? O non sospendere la circolazione e chiudere le strade al traffico privato?
Qualche tempo fa, in attesa di un uragano che fortunatamente si rivelò meno violento del previsto, l´amministrazione cittadina di New York e la stessa Casa Bianca decretarono il coprifuoco. Il sindaco e perfino il presidente degli Stati Uniti furono accusati di inutile allarmismo. Ma non conviene, allora, eccedere in cautela e prudenza quando è minacciata la sicurezza collettiva, piuttosto che affidarsi al caso o alla buona sorte? Il sindaco di Genova non avrebbe fatto meglio a seguire l´esempio del suo collega americano?
Senza buttare la croce addosso a nessuno, e senza cercare a tutti i costi un capro espiatorio, bisogna dire che né il Comune né la Regione, né tantomeno il governo nazionale, si sono dimostrati all´altezza della situazione. Quella che manca in realtà è un´autentica e profonda cultura ecologica, in grado di modificare radicalmente la difesa del suolo e quindi di gestire le eventuali emergenze, partendo dalla consapevolezza che queste purtroppo ci sono e ci saranno anche in futuro.
Basta consultare del resto l´ultimo rapporto dell´Ispra, l´Istituto superiore per la Protezione e la Ricerca ambientale, per verificare la “mappa del rischio” regione per regione. E si tratta di un ente pubblico, finanziato dallo Stato, da tutti noi cittadini e contribuenti. L´Istituto registra e denuncia testualmente “un consumo di suolo elevato in quasi tutti i Comuni studiati e un incessante incremento delle superfici impermeabilizzate”, ricoperte cioè di cemento, asfalto, plastica, materiali metallici, “causato dall´espansione edilizia e urbane e da nuove infrastrutture, con una generale accelerazione negli anni successivi al 2000”. A che servono dunque tutti questi rapporti, questi studi, se poi restano lettera morta?
Il fatto è che la difesa dell´ambiente è forse l´unico settore in cui i danni prodotti dai tagli di bilancio, a parte il valore della vita umana, sono destinati prima o poi a superare i rispettivi risparmi. Costa senz´altro di più ricostruire che prevenire. Ma, a cominciare proprio da qui, occorre recuperare in primo luogo un´etica collettiva della responsabilità: nei confronti della natura, del prossimo e di noi stessi.

La Repubblica 06.11.11