attualità, politica italiana

"Equità e risanamento. Il resto lo faremo dopo le elezioni", di Gianni Cuperlo

Non chiediamo all’esecutivo di emergenza di realizzare cose che spetteranno a un governo di alternativa. Certo non sarà indifferente il ricorso alla patrimoniale e il ripristino delle condizioni di legalità. C’era il governo Berlusconi. Partiamo da qui. E se c’era e oggi non c’è più il merito è anche di opposizioni ferme e di un Pd determinante. Adesso ci attendono ore cruciali che faranno emergere il profilo e la natura dei protagonisti, a cominciare dai partiti. Per noi parla Bersani e lo fa con chiarezza: prima viene il paese, la salvezza del paese. E la via d’uscita, adesso, significa un governo di emergenza in grado di invertire le tendenze peggiori delle ultime settimane. Dovrebbe essere scontato. Nelle cose non lo è. La vecchia maggioranza è implosa. I leghisti sono rifluiti in Padania mentre il PdL si è rotto in tronconi, l’uno contro l’altro armati. Una condizione difficile che il capo dello Stato affronterà nelle prossime ore con l’autorevolezza che gli italiani gli riconoscono e nella volontà di convincere anche i più riluttanti dello sbocco necessario. Se, come ci auguriamo, a quello sbocco si approderà forse è possibile dire qualcosa sul “come” e sul “quanto”. Sulle cose che realisticamente un altro governo potrà fare e sulla durata indicativa del suo mandato. Intanto, sul merito. Questo possibile governo di emergenza e transizione non sarà il governo di una parte. Non lo sarà della loro ma neppure della nostra. È una soluzione ponte dove tutti hanno l’obbligo di un passo indietro e, al contempo, il diritto di rivendicare qualcosa. L’abilità del timoniere, dunque, starà anche nel governare l’imbarcazione in un mare tutt’altro che piatto. Per questo raccontare il passaggio davanti a noi come condizionato soltanto da ricette prescritte (“lacrime e sangue…..ma ce lo chiede l’Europa!”) è una lettura poco oggettiva e agli occhi nostri inaccettabile. Il nuovo governo, se otterrà la fiducia, governerà. Segnalerà le sue priorità e strategie. Tornerà al merito dopo un triennio di abbagli e pastrocchi, di interessi privati smerciati per bene pubblico. Si occuperà dell’interesse generale, del ripristino di condizioni di legalità, di rimettere sulle gambe una nazione in ginocchio. Sarà un’impresa che avrà bisogno del sostegno leale di quanti hanno a cuore il destino comune. L’autorevolezza della guida è fuori discussione, ma dal nostro
punto di vista e per le cose dette conterà il peso effettivo che avranno alcune scelte di equità e giustizia sociale.
Per dire, non sarà la stessa cosa se di fronte a conti da accomodare e una crescita da rimettere in moto si userà, a parte tutto il resto, lo strumento di una patrimoniale oppure no. E scelgo questo esempio per la sua portata simbolica (sulle forme come ovvio si può discutere). Potrei aggiungere che non sarebbe secondaria la snellezza del governo,
il numero di ministri e sottosegretari, la novità dei volti e il loro profilo tecnico. Quindi è legittimo oltre che coerente con le nostre posizioni chiedere a chi dovesse arrivare dei netti segni di discontinuità con quelli di prima.È chiaro che toccherà al premier trovare la quadra. Ma la dinamica dei fatti spingerà verso la ricerca costante di una proporzione, attributo stesso per la vita della maggioranza numericamente più estesa dell’intera storia repubblicana.
Riconoscere questa natura al governo entrante equivale a un retropensiero sul suo destino? Tutt’altro. Direi che è vero l’opposto. Vuol dire prenderne da subito le misure
e capire per tempo ciò che sarà nelle sue disponibilità e ciò che, per forza di cose e per una coerenza dei principi di ciascuno, dovrà essere rinviato a un tempo successivo, quando superata l’urgenza centrodestra e centrosinistra torneranno a rappresentare in forma compiuta un campo di forze, interessi, valori. In altre parole la prima vera forma di adesione al progetto di salvezza nazionale e allo strumento prescelto è non chiedergli di fare cose che non può fare e che spetteranno a un governo di alternativa. E allora certo che da subito, nell’affrontare le emergenze, si devono gettare le basi della ricostruzione, e qui l’elenco è noto: i provvedimenti necessari sul versante economico, del rasserenamento dei mercati e dei principali detentori del nostro debito, la riforma della legge elettorale e il dimezzamento dei parlamentari con i relativi costi, una batteria concertata di misure sociali per alleggerire il peso della crisi sui più deboli. Ma è altrettanto evidente che per le condizioni in cui versa l’Italia bisognerà subito dopo aggredire mutamenti radicali per i quali sarà vitale il passaggio nelle urne. Il solo in grado di rinnovare il mandato del popolo sovrano a una parte, un programmam di riforme, una visione del paese. Ne va della nostra democrazia come intuisce chiunque rivolga lo sguardo a un malcontento penetrato nelle fibre del tessuto sociale. Sentimento destinato ad accentuarsi se non si ricompone il legame tra
la dimensione istituzionale, le culture politiche e le diverse forme della rappresentanza sociale, dalle associazioni ai sindacati e ai movimenti. Quanto al tempo, la legislatura di fatto è già entrata nella sua fase conclusiva e nessuno è in grado di prevedere quanti mesi serviranno a riportare il sereno dopo le tempeste dell’ultimo scorcio. Ho scritto riportare il sereno, perché se dovessimo pensare in termini di recupero integrale dei guasti prodotti dalla destra dovremmo, come ho accennato, ragionare di anni. Detto ciò so bene che l’uscita di scena di Berlusconi è destinata a creare una scomposizione e ricomposizione del quadro politico e del tema sarà bene discutere seriamente.Ma penso
anche che sarebbe un errore capitale scommettere su questo passaggio per sovvertire lo schema del nostro bipolarismo, magari allo scopo di approdare a una torsione centrista del Pd e all’isolamento delle altre componenti della sinistra più responsabile e di governo. Ripeto, la fase che si apre è una straordinaria fase di emergenza. Ma appunto “emergenza”. Farne derivare conseguenze improprie per l’assetto futuro delle alleanze potrebbe compromettere la radice stessa e la vocazione di quel progetto – il partito unitario dei democratici
italiani – nel quale abbiamo investito tradizioni e culture tra le quali, non prima ma neppure ultima, quella della sinistra italiana. Non mi ricordo chi ha detto tempo fa che non avrebbe desiderato morire socialdemocratico. Altri potrebbero dire di non voler morire moderati. Forse entrambi hanno ragione. La saggezza popolare suggerisce, nei limiti del possibile, di rinviare la morte comunque. Al più tardi possibile. Ecco, sia lasciato a verbale.

L’Unità 13.11.11

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“L’occasione per le riforme”, di FEDERICO GEREMICCA

C’ è un errore che il nascente governo Monti, e i partiti che decideranno di sostenerlo, non dovrebbero commettere: e cioè definire il proprio orizzonte programmatico solo in rapporto all’emergenza economico-finanziaria che pure si troverà a fronteggiare. Segnando la sua nascita, nei fatti, la fine della cosiddetta Seconda Repubblica, il nuovo esecutivo dovrebbe rapidamente porsi l’obiettivo di sostenere la Terza con quelle innovazioni costituzionali (e di regole elettorali) la cui assenza ha certo contribuito anche al mesto naufragio del governo Berlusconi. Avendo i partiti politici autolesionisticamente dimostrato, fin qui, di non esser in grado di varare riforme che ne scalfiscano l’influenza e il potere (a vantaggio, naturalmente, di un miglior funzionamento del sistema nel suo insieme) tale opera riformatrice può esser invece tentata oggi – con speranze di successo – da un governo nel quale i partiti, appunto, si limitano ad assolvere a un compito da retrovia. Non riuscire nell’impresa – o non tentarla nemmeno – rischia infatti di condannare anche la prossima legislatura (e dunque l’avvio della Terza Repubblica) ad una vita stentata e grama: e ad una conclusione che potrebbe essere non molto diversa dalla fine toccata alla Prima ed alla Seconda.

Già troppi elementi, infatti, rendono assai simili l’epilogo delle legislature 1992-‘94 e 2008-2011, per non ritenere che sia il caso finalmente di intervenire. Il primo elemento è senz’altro l’assoluta e deludente incapacità mostrata dai partiti di autoriformare un sistema – ieri come oggi – evidentemente contraddittorio e traballante. Alla fine del terribile biennio ‘92-‘94, furono fondamentalmente Tangentopoli e i magistrati a suonare la campanella di fine ricreazione: oggi i titoli di coda scorrono per la spinta dei mercati e le pressioni dell’Europa. In entrambi i casi, crisi praticamente imposte dall’esterno: ieri in ragione della corruzione dilagante, oggi a causa di inettitudine e cattivo governo. Non può essere considerato un caso il fatto che la prima legislatura della cosiddetta Seconda Repubblica – con l’avvento al governo di Silvio Berlusconi – durò quanto durò (appena due anni) e finì come finì. A fronte di una legge elettorale marcatamente maggioritaria e di un assetto sempre più bipolare, infatti, il sistema istituzionale non fu dotato degli aggiustamenti e delle semplificazioni necessarie. E’ da allora che si cominciò a discutere di fine del bicameralismo perfetto, di uno statuto dell’opposizione, della riduzione del numero dei parlamentari, eccetera eccetera.

Da allora ad oggi, ad ogni scadenza elettorale, i partiti hanno inserito queste riforme nei propri programmi elettorali: non se ne è mai fatto nulla, e il sistema politico-costituzionale è rimasto bicefalo (un po’ maggioritario, un po’ proporzionale) con conseguenze che sono – da anni – sotto gli occhi di tutti. Oggi si ripropone – e non per una libera scelta dei partiti, ma in ragione di un’emergenza drammatica – la possibilità di pensare seriamente agli aggiustamenti di cui il sistema politico ha mostrato di avere un disperato bisogno. A quindici anni di distanza dall’ultimo esecutivo (presieduto da Lamberto Dini) in qualche modo paragonabile a quello che dovrebbe esser guidato da Mario Monti, il ritorno di un governo tecnico potrebbe render possibile le riforme promesse e mai realizzate da tre lustri in qua. Occorrerà, naturalmente, l’impegno e il consenso dei partiti: quantomeno dei partiti maggiori. E non è detto che, giunti al punto cui si è giunti e in un clima che dovrebbe rapidamente «raffreddarsi», stavolta questo non diventi realmente possibile. La pre-condizione, ovviamente, è che il governo Monti veda la luce.

L’alternativa, del resto, rischia di essere esiziale. Chi chiede che «la parola torni al popolo» e che «la democrazia non ceda il passo alla tecnocrazia» dovrebbe infatti avere l’onestà di dire che parola potrebbe mai pronunciare il popolo e che successo marcherebbe la democrazia con una legge elettorale che – stando a tutti i sondaggi – non produrrebbe alcuna maggioranza al Senato, con tutto quel che ne discende. L’occasione per completare un percorso riformatore finora appena accennato, dunque, c’è. Buttarla al vento assieme al governo Monti – al di là del possibile tracollo economico che questa ipotesi determinerebbe – sarebbe un delitto: e a guardarla dal punto di vista degli stessi partiti, anzi, qualcosa di assai simile a un suicidio…

La Stampa 13.11.11