attualità, politica italiana

"Nel giorno dei convenevoli l´humour del premier e il silenzio del Cavaliere", di Concita De Gregorio

Non si ricorda a memoria d´uomo, a Montecitorio, un cortile affollato da tanta cordialità trasversale, Verdini e Ghedini sorridenti almeno quanto Fioroni e Franceschini, non si ricordano applausi e risate da destra e da sinistra alle battute british del neopresidente (“preferisco che mi chiamiate professore. Come diceva Spadolini i presidenti passano, i professori restano”).non si ricorda una maggioranza di 556 voti né tanto fair play istituzionale, con Berlusconi che si alza e va a stringere la mano ai tutti i neo ministri, uno per uno, ai banchi del governo e Monti che fa passare un quarto d´ora e restituisce la cortesia. Si inerpica tra i banchi della destra e si ferma da Tremonti, a lungo, da Gelmini, parla fitto, sale fino a Giorgia Meloni, torna in basso verso Prestigiacomo, poi di nuovo da Berlusconi seduto nel suo banchetto accanto ad Alfano. Gianni Letta vigila dall´alto, seduto tra nella tribuna degli ospiti proprio accanto a una scolaresca. Monti gli riserva un lungo omaggio in apertura di discorso. Berlusconi ancora non è arrivato, a quell´ora.
Quando l´ex presidente entra in aula – è da poco passata l´una e mezza, siamo alle dichiarazioni di voto, sta parlando Casini ossequiosissimo – entra scortato da Cicchitto, sale fino alla terza fila di banchi, scivola verso il posto al fianco di Alfano: è proprio l´ex Guardasigilli ad indicare a Berlusconi con l´indice teso verso l´alto Gianni Letta lassù. E allora si salutano di lontano, Monti li segue con lo sguardo e sorride, Fini dal banco della presidenza alza la testa e saluta, anche Maroni dai banchi della Lega oggi all´opposizione si volta e saluta. Una nuova geografia dell´aula, triangolazioni fino all´altro giorno impensabili, scambi di convenevoli inauditi. Posti in piedi, soprattutto, stamani.
L´arrivo di 18 ministri tecnici, non eletti in Parlamento e dunque privi di posto a sedere nell´emiciclo, costringe altri diciotto parlamentari a sedersi uno in braccio all´altro, Tremonti e La Loggia dividono lo sgabello in due, uno spettacolo, Gelmini per un poco resta in piedi, Guido Crosetto trova posto nei banchi di An e Giorgia Meloni resta senza, in piedi in ultima fila a mandare sms. È la rappresentazione plastica della politica che lascia posto ai professori, si ritira un poco, quel tanto che basta e però resta lì a riempire tutti i vuoti.
Resta lì con la mano sulla spina, aveva detto giusto l´altro ieri Berlusconi ed è anche per questo che oggi gli hanno consigliato di non parlare, in aula, non farsi prendere la mano, non metterci la faccia, sedare, sopire. Monti non ha gradito la battuta sullo staccare la spina («Sarebbe arduo decidere se questo governo deve considerarsi un rasoio o un polmone artificiale», è la freddura applauditissima dall´intero emiciclo, salvo Lega. Il rasoio taglia, il polmone artificiale serve a un malato molto grave…) e allora Berlusconi, che a mezzogiorno aveva pronto un discorso con accenno a elezioni eventuali, viene caldamente consigliato dai Ghedini dai Verdini e da Gianni Letta, soprattutto. Lascia perdere, fai parlare Alfano, tra l´altro non è niente male se nella diretta tv il sostegno a Monti lo lasci dare a qualcun altro, non ci mettere la faccia ché perdi forza, sembra una sconfitta. Convinto in mezz´ora, Berlusconi legge distrattamente i fogli che Alfano gli passa per una supervisione rapida e poi, mentre quello parla, un poco si appisola.
Fuori, in cortile, fervono trattative e previsioni. Il tema del giorno è mantenere l´equilibrio, assegnare le poltrone ‘forti´ in modo bilanciato, dunque se D´Alema lascia il Copasir per andare agli Esteri sarà Maroni a presiedere l´organismo di controllo sui servizi segreti, che in quanto ex ministro dell´Interno darà continuità a quel mondo di riferimento, non si può proprio scompaginare tutto.
I sottosegretari tutti tecnici, questo è ovvio, e allora sono le commissioni a fare da camera di compensazione degli equilibri politici. Denis Verdini fa la parte del gran tessitore, oggi. Scherza persino, «non dovendo più convincere gli incerti a passare con noi, ho molto tempo libero», si dedica a ricordare la sua antica consuetudine con Monti ai tempi di Spadolini, «viene da quel mondo lì, un mondo molto alto, un gruppo coeso». I fiorentini colgono il retrogusto della frase. Poi immagina scenari fatti di patrimoniale e di amnistia, avverte che bisognerà stare attenti alle piazze, accenna appena alla decisione della Cassazione sulla sentenza De Benedetti, ché magari la somma dovuta da Berlusconi di qualcosa potrebbe anche calare.
Casini è raggiante. Bocchino omaggia le donne al governo e sorride al prefetto Cancellieri, la nostra Merkel – già la chiamano da destra con l´affetto che Berlusconi ha riservato a quella vera.
Tutti si affannano a dire che di compromesso storico non c´è traccia, imparagonabile. Per i posti da sottosegretario fervono le trattative, quotatissimi gli ex democristiani in pensione oggi buoni come tecnici, in almeno due casi i nomi evocati corrispondono a defunti – che peccato, si rammarica Crosetto.
Il compito è arduo. «Difficilissimo – aveva detto Monti in Senato – altrimenti ho il sospetto che non mi troverei qui». Ma oggi, di fronte a questi 556 voti e a tutti questi rallegramenti e sorrisi è il giorno del “ce la faremo”. Arriveremo a fine legislatura. Abbiamo molto da fare e dobbiamo farlo. «È un´occasione irripetibile», ha appena detto in aula Casini. Tremonti, seduto davanti a Berlusconi, si volta brevemente per un´occhiata. Silvio tace. Non parlerà, per l´uscita di scena da capo del governo, per il suo primo giorno in aula seduti sui banchi ha in serbo il gran gesto delle strette di mano. I ministri sono colti alla sprovvista. Un paio si alzano in piedi. Alla chiama del voto sfilano uno dopo l´altro, in quest´ordine, Casini Berlusconi Bersani D´Alema e Chicchitto. Votano tutti sì. Quando Berlusconi esce è Monti a restare. Al centro dell´emiciclo saluta i deputati finchè l´aula non si svuota. In piazza, fuori, dei caroselli della settimana scorsa non è rimasto nessuno.

La Repubblica 19.11.11

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“Insulti, risse sfiorate. E Scilipoti mette il lutto”, di MOnica Guerzoni

Mussolini vota no. Alfano accerchiato Meloni: «La parola torni agli elettori». Alessandra Mussolini l’avrebbe pure votata, la fiducia a Mario Monti. Ma poi ha sentito parlare Di Pietro, Casini e Bersani, poi ha saputo che l’idv Franco Barbato si era fatto tagliare i capelli all’aperto sulla piazza Montecitorio, per festeggiare la caduta di Berlusconi. Ha visto il presidente della Camera, Gianfranco Fini, «che rideva dal suo pulpito lassù»… E ha cambiato idea: «È stata una questione emotiva, proprio non ce l’ho fatta».
Due soli voti contrari oltre ai 59 della Lega: la Mussolini, deputata del Pdl, e Domenico Scilipoti. Il «re dei peones» si è presentato alla Camera con il lutto al braccio, distribuendo manifestini mortuari con una gran croce nera e la scritta «Oggi è morta la democrazia parlamentare/Il Popolo sovrano ne dà il triste annuncio al Paese». E quando ha preso la parola per annunciare il suo voto contrario, il deputato di Popolo e territorio ha consegnato ai posteri la sua viscerale avversità a un governo «criptopresidenziale». Ma quel che i tabulati non raccontano è la febbre che contagia trasversalmente il Pdl, è la tensione che mette uno contro l’altro i berlusconiani della prima ora e gli ex An vicini alle posizioni di Matteoli e La Russa. Forze contrapposte che in futuro, teme chi lavora per l’unità del partito, potrebbero diventare forze centrifughe.
Nervosismo, rivendicazioni incrociate, parole grosse. Succede quando sta per prendere la parola Antonio Di Pietro e quando, tra i banchi del Pdl, attorno al segretario Angelino Alfano si chiude a testuggine un capannello di scontenti. Ecco Giorgia Meloni, da giorni tristissima per il governo di emergenza. Ecco Fabio Rampelli, Marco Marsilio e Mario Landolfi, altri ex An che tifavano per il voto anticipato. E poi Deborah Bergamini, Manuela Di Centa, Micaela Biancofiore, Ignazio Abrignani, Giuseppina Castiello… Tra le mani dei deputati gira un sondaggio riservato, che racconta come più di un terzo degli elettori del Pdl — fra il 35 e il 45 per cento — non comprenda la scelta di sostenere Monti.
La Meloni è la più scatenata, alza la voce, chiede al leader di piantare ben saldi i paletti per contenere il nuovo esecutivo: «Dobbiamo batterci perché la parola torni agli italiani nel minor tempo possibile». Anche Rampelli non crede nel «potere taumaturgico» di Monti, invoca «mani libere» sui provvedimenti economici e insiste nel dire che «almeno la metà del gruppo non condivide il sostegno» al successore di Berlusconi. Alfano è pressato, fisicamente accerchiato. Vogliono che mostri i muscoli, che respinga la «minaccia» di Monti di far sfiduciare i partiti dagli elettori, se non lo sosterranno. Ma il segretario non si schioda dalla linea di Berlusconi e richiama all’ordine, chiede ai suoi di non differenziarsi e di restare uniti, perché «non è il momento di cedere ai frazionismi».
Altero Matteoli ha smentito di aver mai paventato una scissione, eppure il fantasma di una futuribile rottura tra le due anime del Pdl resta nell’aria. «Maldipancia forti ci sono — spiegherà Osvaldo Napoli —. Ma spero prevalga il buon senso. Uniti abbiamo un potenziale forte, rompendoci corriamo il rischio di essere cancellati…». Ma è pochi metri più in là che la discussione si accende e tra i banchi roventi del Pdl si sfiora la rissa. Colpa di un dossier sulla Sardegna che alcuni deputati dell’isola, che guardano con simpatia al nuovo inquilino di Palazzo Chigi, consegnano a Monti senza averne informato i corregionali. Settimo Nizzi, ex sindaco di Olbia e amico di Berlusconi, prende di petto lo scajoliano Salvatore Cicu. «Pezzo di m!», lo sentono gridare. Nizzi smentirà insulti, ma intanto volano spintoni, si mettono in mezzo anche Mario Landolfi e Paolo Russo e, per evitare il peggio, arrivano i commessi.
Facce segnate, strappi annunciati e qualche sorpresa. Viviana Beccalossi (vicina a La Russa) non voleva votare, ma all’ultimo si è rassegnata e ha detto sì. Altri invece, come Gianfranco Rotondi, hanno scelto il non voto per marcare il dissenso. Antonio Martino è andato di persona ad annunciare all’«amico Monti» che non lo avrebbe votato. E il premier? Ha allargato le braccia. Alla fine sui tabulati gli assenti sono 12, tra cui Pippo Gianni (Pid) e i pidiellini Maurizio Del Tenno, Francesco Colucci, Marcello De Angelis. Assente anche la portavoce di Prodi, Sandra Zampa del Pd: «Ho avuto un malore». Alfonso Papa, arrestato per l’inchiesta P4, non ha ottenuto il permesso di lasciare i domiciliari. E così, vista la scarsità di posti a causa del ritorno degli ex ministri, la sua poltrona è andata a Giulio Tremonti. Succede anche che il ministro per i rapporti con il Parlamento, Piero Giarda, non riconosca Anna Maria Bernini, costretta a lasciare le Politiche europee dopo soli tre mesi. Qualcuno fa le presentazioni, il professore sorride affabile ma chiede lumi sull’identità della signora. Attimi di comprensibile imbarazzo e, finalmente, una vigorosa stretta di mano.

Il Corriere della Sera 19.11.11