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"Missioni all’estero, si cambia passo", di Federica Mogherini

Tradizionalmente, sul tema della partecipazione italiana alle missioni internazionali si esibisce la continuità. Quasi che restare saldi nel solco tracciato da chi “c’era prima” fosse di per sé un valore. Forse perché questo è stato, finora, l’unico modo per evocare un consenso trasversale, bipartisan. Ma oggi, con un governo che non ha radici nei partiti ed un inedito sostegno parlamentare – trasversale per nascita, libero negli orientamenti per aspirazione – proclamare la continuità non serve più.
E così, al netto di qualche arrampicata sugli specchi che tenta Frattini (in preda ad un’imbarazzante crisi di ruolo che lo porta a fare il relatore parlamentare di un provvedimento che fino a due mesi fa firmava da ministro) e che La Russa per una volta si risparmia, la discontinuità è libera di venire allo scoperto.
Cosa c’è di così diverso, in questo decreto missioni? Molte cose, alcune fondamentali. Innanzitutto una piccola grande formalità: dopo tre anni di frammentazione del finanziamento, che era arrivato a volte a coprire anche solo uno o due mesi, il decreto dà ai militari e ai civili italiani che operano in teatri di crisi – ed ai nostri partner internazionali – un anno di certezze, rifinanziando quel fondo missioni che il governo Berlusconi aveva di fatto abolito. Sembra un dettaglio, ma è un grande segnale di affidabilità e serietà – che, di questi tempi, non guasta. Poi, due grandi affermazioni di principio: da una parte la necessità di un approccio “integrato” alla sicurezza – ovvero non solo militare ma anche e soprattutto diplomatico, civile, attento ai fattori di sviluppo economico e all’affermazione dei diritti umani.
Dall’altro, l’esigenza non più rinviabile di procedere speditamente sulla via dell’integrazione europea nel campo della difesa. Se si pensa alla sufficienza con la quale La Russa trattava questi temi, la discontinuità appare in tutta la sua evidenza. Ma entriamo nel merito: si tagliano quasi duecento milioni rispetto al 2011, facendo delle scelte selettive – l’opposto della logica dei tagli lineari cari a Tremonti. Cresce l’investimento in cooperazione civile, sia nel teatro dell’Afghanistan e del Pakistan sia nelle altre aree di crisi: 22 milioni in più non sono un’enormità, ma in rapporto ai fondi quasi inesistenti della cooperazione non sono pochi e, soprattutto, invertire la tendenza in un anno di difficoltà di bilancio come questo è un grande segale politico. Si rifinanzia, con un incremento, il fondo per lo sminamento. Parallelamente, diminuisce la spesa per la componente militare delle missioni, ma con delle scelte selettive. Cala di circa 200 unità la presenza militare in Afghanistan, coerentemente con il progressivo passaggio di consegne alle autorità afghane in molte zone del paese e con la riduzione degli altri contingenti Isaf; si pone termine ad alcune missioni minori, ormai esaurite dal punto di vista militare – come in Iraq, dove restano in piedi solo progetti di cooperazione civile; in Libano, pur assumendo il comando della missione Onu, si riduce il numero dei militari, ma meno di quanto prevedesse di fare il precedente governo – in virtù della maggiore instabilità dell’area che dal confine Libano-israeliano si estende fino alla Siria.
E poi, si sceglie di aumentare la presenza militare in aree strategiche per l’Italia e per l’Europa, dove il nostro valore aggiunto è riconosciuto sia dagli interlocutori locali sia dalle organizzazioni internazionali, e dove il rapporto costi-benefici è più alto: penso ai Balcani, di cui il precedente governo si era scarsamente occupato, o al sud Sudan.
Infine – last but not least – la Libia. Delle contraddizioni del governo Berlusconi è difficile dimenticarsi, dal baciamano in poi. Il governo Monti non può che avere tra i suoi obiettivi principali quello di ricostruire una credibilità perduta anche qui, nel mediterraneo, con quei paesi oggi impegnati in transizioni difficili e non univoche – dall’Egitto alla Tunisia, passando per la Libia, dove Monti sarà in visita ufficiale domani. Finito, mesi fa, l’intervento militare, oggi è prioritario dare seguito alle altre, successive risoluzioni delle Nazioni Unite: sostenere la nuova Libia nel momento più critico, quello della ricostruzione, della riconciliazione nazionale, della formazione di una struttura amministrativa e delle forze di polizia, dello sminamento del territorio e della bonifica dall’enorme quantità di armi in circolazione nel paese.
Per questo prevedere già per il 2012 un impegno, seppur minimo e ancora molto flessibile, di assistenza civile e militare alla complicata e delicata fase di costruzione della nuova Libia è una scelta saggia e lungimirante, che ben si accompagna alla volontà di recuperare un ruolo credibile e positivo nella regione del mediterraneo.
Dalle prossime settimane, superato il passaggio di ridefinizione della nostra partecipazione alle missioni internazionali, andranno affrontate altre ed altrettanto importanti questioni, a cominciare dalla revisione del sistema di difesa e, conseguentemente, della razionale allocazione delle risorse tra le diverse voci di bilancio, per finire con la rimodulazione di alcune scelte sulla produzione e l’acquisto dei sistemi d’arma – compresi gli f35. Il ministro Di Paola ha giustamente indicato nella prossima riunione del consiglio supremo di difesa prevista per l’8 febbraio un passaggio cruciale per questo processo. Toccherà contestualmente al governo e al parlamento svolgere una revisione del sistema di difesa che sia complessiva, razionale e trasparente.