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"I laureati non sono tutti uguali", di Marco Meloni

L’abolizione del valore legale del titolo di studio è come l’araba fenice, ma in questo caso “cosa sia nessun lo sa”. Il suo ruolo nel dibattito pubblico si riduce spesso a una sfida tra due tifoserie che non si comprendono, né si sforzano di capire di cosa stiano parlando. Proviamo piuttosto a entrare nel merito delle questioni, per cogliere davvero l’opportunità di varare riforme utili in tempi rapidi e far maturare il nostro discorso pubblico. Partiamo dai fatti. Come ha correttamente ricordato ieri su queste colonne Giliberto Capano, non possiamo abolire qualcosa che non esiste.
Il complesso concetto di valore legale dei titoli, studiato tempo fa da Sabino Cassese, richiama un insieme di norme che, in termini generali, disciplinano da un lato l’autorizzazione ad istituire le università, e dall’altro la capacità delle medesime di rilasciare attestati dotati di effetto giuridico. A loro volta, a questi ultimi sono connessi la facoltà di svolgere esami di stato per l’esercizio di alcune professioni (medico, ingegnere, eccetera), i meccanismi di reclutamento tramite concorsi e le progressioni di carriera nella pubblica amministrazione.
Entro questi confini, il Pd ha formulato una serie di proposte volte a introdurre maggior rigore nell’affidamento della capacità di conferire titoli di laurea, ad affievolire gli effetti formali di questi ultimi per premiare le capacità individuali e a eliminare le storture tipiche della logica del “pezzo di carta”. Entrando nel merito, crediamo anzitutto che le norme recentemente adottate per l’accreditamento debbano prevedere requisiti rigorosi e verifiche periodiche, in termini di qualità della ricerca e della didattica, di strutture al servizio degli studenti, di corretto rapporto tra numero di docenti e di studenti. Per questo è fondamentale il corretto funzionamento della valutazione.
Quanto agli effetti del titolo rilasciato degli atenei accreditati, è chiaro che chi è responsabile della vita di un paziente o della tenuta di una diga è bene che sia laureato in medicina o in ingegneria. Ma vi sono ampi spazi d’intervento. Anzitutto si può abolire il valore legale del voto di laurea, ovvero la facoltà di considerarlo ai fini di un concorso. I concorsi – che devono tornare a essere l’unica via di accesso all’impiego pubblico – dovranno essere organizzati meglio, ma le competenze di ciascun candidato saranno affidate totalmente alle prove concorsuali tarate sulle specifiche esigenze di ciascuna pubblica amministrazione. Allo stesso scopo mira l’ampliamento delle classi di laurea che consentono l’accesso ad impieghi che non richiedono competenze specifiche.
Ancora, si può cancellare la connessione tra l’acquisizione di un titolo di studio nel corso della carriera nelle pubbliche amministrazioni e le progressioni interne. La finalità è bloccare i diplomifici, che da un lato mortificano il sistema universitario, dall’altro sottraggono impegno al lavoro dei pubblici dipendenti orientandoli verso l’acquisizione di titoli di studio fittizi. È invece interesse delle amministrazioni valorizzare le competenze acquisite dai dipendenti attraverso la valutazione delle capacità mostrate “sul campo”. Si dovrà poi ampliare nel massimo grado possibile la fruibilità della laurea triennale e riconoscere lo specifico valore formativo del dottorato di ricerca, oggi per niente valorizzato dalle pubbliche amministrazioni.
Si tratta di misure semplici ed efficaci che garantiscono effettivamente che il formalismo non prevalga sulle capacità e sul merito individuale. Ora sarebbe invece sbagliato allontanarsi dal nocciolo della questione, allargando la discussione ad altri temi. L’unico effetto sarebbe infatti impedire ogni riforma e rimandare alla prossima occasione un confronto fondato solo su preconcetti.
Perciò è insensato pensare che si possa parametrare il voto di laurea al ranking delle università, col paradosso di attribuire ai titoli di studio un valore legale addirittura maggiorato. La differente preparazione fornita da un corso di laurea potrà emergere attraverso le migliori performance individuali nelle prove concorsuali. Altrettanto sbagliato è collegare questo tema con l’aumento della tassazione (abbiamo le tasse più alte d’Europa dopo la Gran Bretagna, ricordo) finanziata coi prestiti: perché gli studenti possano realmente scegliere le università migliori è necessario che funzionino orientamento e valutazione, e, alla base, un vero diritto allo studio. Temi sui quali l’Italia è molto indietro e che dovranno essere, a nostro avviso, tra le principali priorità di questo governo.

da www.europaquotidiano.it