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"I diritti dei nuovi figli d´Italia", di Ezio Mauro

Gli opposti populismi, che sempre più parlano la stessa lingua in questa Italia in cui la politica si rattrappisce, hanno finalmente trovato un bersaglio comune, di alto rango: è la proposta di introdurre anche nel Paese dello “ius sanguinis” il principio dello “ius soli”, concedendo la cittadinanza ai bambini che sono nati in Italia da genitori stranieri.
L´idea era stata sollevata dal segretario del Pd Bersani alle Camere, al momento della fiducia per il governo Monti; poi, rilanciata con forza dal presidente della Repubblica Napolitano, secondo il quale «negare la cittadinanza ai bambini nati in Italia da immigrati sarebbe una vera assurdità». Oggi anche il presidente della Camera Fini e il ministro della Cooperazione Riccardi riprendono il tema, come il presidente della Cei Bagnasco, e lo ripropongono all´attenzione delle forze politiche e del Parlamento: dove sono state presentate proposte di legge in questo senso, mentre nel Paese diverse organizzazioni stanno raccogliendo le firme per abolire la normativa del 1991.
Stiamo parlando di un milione di bambini, i figli degli stranieri residenti in Italia. Poco più della metà, 650 mila, sono nati nelle strutture del servizio sanitario nazionale. Venuti al mondo, dunque, nel nostro Paese, in ospedali italiani, figli di immigrati che hanno scelto di vivere e lavorare qui e che iscriveranno questi bambini agli asili comunali e alle scuole italiane, perché crescano con la lingua, l´istruzione e la cultura del Paese che li ospita.
Ora, come vogliamo pensare al rapporto tra il nostro Stato e quei ragazzi che sono nati nel suo territorio, spesso dopo una fuga dei genitori dalla fame, dalla miseria e dalla dittatura? Nella storia delle loro famiglie questo Paese rappresenta una sponda di civiltà e di sicurezza, dove appoggiare un futuro di libertà e di speranza: e dove – proprio per queste ragioni – poter investire per la crescita dei proprio figli, la prima generazione che nasce e vive nell´Europa dei diritti e della democrazia, l´Europa dei cittadini e delle istituzioni, in quell´Occidente che racconta se stesso – e noi vogliamo crederci – come la patria delle libertà, dello sviluppo, dell´uguaglianza delle opportunità, addirittura della fraternità.
Quei bambini venuti a nascere in Italia, sanno di essere nati in un Paese libero, come uomini finalmente liberi. Ma sanno che non saranno cittadini, non diventeranno italiani. Studieranno la nostra storia, l´epopea del Risorgimento, le radici di Roma e dei Cesari, la Costituzione repubblicana, parleranno la nostra lingua con gli accenti dei nostri dialetti, lavoreranno nelle fabbriche e negli uffici, sposeranno magari italiani e italiane. Ma resteranno stranieri, qualunque cosa facciano anno dopo anno, comunque la facciano, soltanto perché sono figli di stranieri.
È l´ultima, nuovissima forma del peccato originale: una sorta di “peccato d´origine”, incancellabile, in un Paese che ha paura della diversità perché ha incertezza d´identità (tanto che persino il dato storico del centocinquantenario dell´unità viene ridotto a polemica politica contingente), e teme la perdita della vecchia uniformità vissuta più come un mito della tradizione che come una realtà. Come può spaventare la cittadinanza italiana ai bambini nati in Italia? Come non capire che la stessa identità nazionale, oggi, è in movimento continuo esposta com´è al contagio di culture diverse, alla complessità del sociale, alla pluralità dei soggetti con cui dobbiamo non solo convivere, ma scambiare e interagire?
La paura della cittadinanza separa queste identità ed esalta le differenze, riduce gli individui ai gruppi di origine, ripropone di fatto il modello distintivo delle tribù dentro il contesto dilatato e avvolgente della globalizzazione. Col peccato d´origine, gli steccati sono per sempre e le culture vengono concepite come strutture statiche, che non possono evolvere o mettersi in movimento, ma devono rimanere immobili e soprattutto chiuse. È il disegno di una società spaventata in un Paese che vede l´immigrazione altrui solo come un problema, mentre esalta le proprie radici magari mentre nega la sua storia.
È evidente che l´immigrazione comporta anche un problema di sicurezza, di spaesamento, a cui bisogna rispondere. Ma proprio per questo, come si può pensare che la risposta sia un modello sociale per cui si vive sullo stesso suolo, sottoposti alla medesima sovranità, formati dalle stesse scuole ma con due livelli diversi di cittadinanza? Tutto ciò comporta differenze non soltanto sociali, ma nei diritti, cioè nella sostanza democratica che è a fondamento del nostro discorso pubblico. Col risultato – pericoloso – che la democrazia rischia di non avere sostanza concreta per una categoria di persone che vive in mezzo a noi, noi per i quali soltanto vale il concetto pieno e realizzato di società democratica.
Ma dal punto di vista delle generazioni future, persino dal punto di vista della sicurezza, domandiamoci che Paese prepariamo se c´è tra noi chi considera la democrazia come un concetto non assoluto ma relativo, addirittura un privilegio di alcuni, che contempla gradi minori e persino esclusioni. Dunque un concetto per nulla universale e nemmeno neutrale, ma strumentale, perché avvantaggia alcuni a danno di altri. E infatti, per gli altri non usiamo ormai nemmeno più il termine “straniero”, che presuppone una dimensione culturale, una scoperta, un viaggio o un percorso, ma li riduciamo alla categoria geometrica, spaziale e binaria di “extra”, dove conta solo l´esito finale: dentro o fuori.
Se guardiamo avanti, ai prossimi anni, l´idea di Paese che il rifiuto della cittadinanza propone è quella di uno Stato-armadio, dove è previsto che le diverse culture si vivano semplicemente accanto, separate ed appese ognuna alla sua presunta radice: culture condannate a riprodursi nella separazione, magari ostili, certamente diffidenti, per definizione impermeabili. Come se la libertà e la democrazia non avessero fiducia in sé e nella loro capacità di far crescere, di contagiare, di seminare valori in chi le frequenta, le pratica e ne beneficia.
Dicendo questo non penso alla cittadinanza come strumento di assimilazione e riduzione delle diversità. Penso che l´Italia può offrire a chi sceglie di vivere e lavorare qui dei valori come la democrazia e l´uguaglianza e un metodo per valorizzarli nella vita sociale, che è proprio la cittadinanza. Il nostro modo di vivere è una cultura, e come tale sarà per forza di cose influenzato dalla convivenza e dal confronto con gli altri, non è un modello, come ogni cultura è mobile e negoziabile, un sistema in movimento insieme con gli altri, nel gioco del dialogo, dello scambio, del confronto. Ma la democrazia non è una cultura, è un valore di fondamento, su cui si regge lo Stato e la sua convivenza. Uno Stato neutro rispetto alle culture diverse, non rispetto ai principi democratici.
Questo Stato non può dunque non preoccuparsi del rischio che livelli diversi di democrazia e di partecipazione ai diritti facciano crescere fenomeni pericolosi di marginalità, di alterità, di ghettizzazione (e autoghettizzazione). Solo l´emancipazione attraverso il lavoro e la cittadinanza è la possibile salvaguardia, è la vera inclusione. Solo così, può valere fino in fondo il richiamo alle nostre leggi, alla regola democratica in cui crediamo. Leggi che devono essere pienamente rispettate da uomini pienamente liberi, perché diventati finalmente – grazie al nostro Paese – compiutamente cittadini.

da La Repubblica del 28 gennaio 2012

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“Rapporto Istat: è straniero l’8% della popolazione”, di Marzio Cecioni

Il rapporto Istat fotografa il Paese. Se la popolazione aumenta e sfiora i 61 milioni è solo grazie agli immigrati: i residenti sono cresciuti dell’8%. In calo gli italiani, in totale 56 milioni. Al Sud nascite in calo

La popolazione italiana cresce, ormai è arrivata a quasi 61 milioni, (60 milioni 851mila, al primo gennaio). Ma gli italiani sono in calo, si fermano al 56 milioni, con una perdita netta di 65 mila unità rispetto al primo gennaio dell’anno scorso.
Ad aumentare sono gli stranieri arrivati a 4 milioni 859 mila (289 mila in più), e rappresentano ormai l’8% della popolazione complessiva.
LA FOTOGRAFIA
A mettere nero su bianco come sta cambiando demograficamente il Paese è l’ Istat, che segnala anche come dal Sud Italia si continui a «emigrare» verso le regioni del Centro-nord. A determinare il calo degli italiani è stata soprattutto la forbice che si allarga sempre di più tra nascite e morti: complessivamente nel nostro Paese nel 2011 sono nati 556 mila bambini, 6 mila in meno dell’anno precedente; mentre il numero delle persone morte è stato pari a 592 mila, 4 mila in più dell’ anno precedente.
Sono le donne straniere a fare più figli: ne hanno una media di due a testa a fronte di uno delle italiane, che decidono di diventare mamme sempre più tardi (a 32 anni). Proprio la loro presenza rende il Nord Italia la zona più prolifica del Paese (con 1,48 figli per donna), capovolgendo il luogo comune che vorrebbe il Sud il posto dove si fanno più bambini e che ora invece è diventato il fanalino di coda (1,35).
La regione che ha il tasso di natalità più alto (il 10 per mille, con 1,63 figli per donna) è il Trentino Alto Adige e la Campania è l’unica tra quelle del Sud con un livello riproduttivo superiore alla media nazionale, (1,43 rispetto all’1,42).
Mentre la Liguria abbina alla più bassa natalità (7,3) anche il più alto tasso di mortalità (13,3 per mille). Tra le sole cinque regioni in cui il numero dei nati supera quello dei morti, c’è di nuovo il Trentino Alto Adige, insieme a Campania, Lombardia, Puglia e Veneto.
SI VIVE DI PIÙ
Italiani meno prolifici, ma sempre più longevi. La speranza di vita è cresciuta ulteriormente e ha raggiunto i 79 anni per gli uomini e gli 84 per donne. E se dunque la popolazione femminile è ancora in vantaggio, quella maschile sta recuperando, visto che rispetto al 2008 guadagna in media mezzo anno di vita supplementare rispetto ai quattro mesi delle donne. Gli ottantenni costituiscono ormai il 6,1% della popolazione totale, e se la conta parte dai 65 anni, gli anziani rappresentano il 20% dei residenti.
Risiedono soprattutto nel Nord-Est e nel centro del Paese; ed è chi vive nella provincia di Bolzano ad avere la speranza di vita più alta (80,5 anni gli uomini, e 85,8 le donne). Avanza anche l’esercito degli ultracentenari, che ha superato la soglia di 17 mila.
Ben 600 italiani hanno compiuto 105 anni e il più vecchio di tutti ha 113 anni e vive in Veneto. È cresciuta anche l’età media: il dato complessivo è 43,7 anni, e se per gli italiani si è attestata a 44 anni, è ferma a 32 per gli stranieri.
Le regioni del Mezzogiorno hanno una popolazione relativamente più giovane: in Campania l’età media è di 40,5 anni e la quota della popolazione di 65 anni e oltre è pari al 16,5%; segue la Sicilia con un’età media di 42 anni e una quota di 65enni pari al 18,8%.

da l’Unità 28.1.12