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"È nel diritto alla cultura la nuova lotta di classe", di Guido Rossi

Gira su internet la seguente frase, datata nel 55 A.C., attribuita a Marco Tullio Cicerone: «Il bilancio nazionale deve essere portato in pareggio. Il debito pubblico deve essere ridotto; l’arroganza delle autorità deve essere moderata e controllata. (…) Gli uomini devono imparare di nuovo a lavorare, invece che vivere di pubblica assistenza».

La frase, che sembra dettata dalla signora Angela Merkel e dai Governi europei, in verità non è affatto di Cicerone. La citazione, tratta da una biografia romanzata, scritta nel 1965 da Taylor Caldwell, A Pillar of Iron, è un falso, come aveva già dimostrato il professor Collins fin dal 1971; ciò nonostante, essa è stata abbondantemente abusata persino dall’Ocse e dal Fondo monetario internazionale, alla ricerca di autorevoli precedenti a giustificazione della loro politica monetaria.
Le politiche europee che si sono ispirate ai principi del falso Cicerone hanno poi provocato una serie di proteste che caratterizzano un po’ ovunque la vita sociale dei Paesi globalizzati. Così è anche per le ultime “liberalizzazioni” del Governo italiano. Eppure queste dovrebbero favorire la concorrenza e dunque alla fine giovare all’interesse degli autotrasportatori, dei tassisti, dei farmacisti, dei pescatori, degli agricoltori e degli avvocati, dirette a eliminare strutture arcaiche alle quali nessuno aveva mai posto mano.

Queste strutture avevano trovato un loro scadente equilibrio, certo non giusto né trasparente, ma appena è stato rotto, ha provocato la rivolta.
di Guido Rossi S’è è fatto così l’esempio dell’autotrasporto, che vede a capo del circuito economico nel quale è inserito società di spedizione multinazionali, per lo più straniere, che controllano reti commerciali e software e collegano la produzione e la destinazione finale delle merci, mentre gli autotrasportatori non sono che l’ultimo sfortunato anello della catena. E già liberalizzato quanto basta. Diverso discorso si potrebbe affrontare per le altre liberalizzazioni, ma lo schema più o meno si ripete.
Le rivolte che ne sono state la conseguenza si accomunano alle molte altre in giro per un mondo nel quale la disoccupazione aumenta e le prospettive di lavoro sembrano azzerarsi, sicché esse paiono una scomposta e flebile reviviscenza della tradizionale “lotta di classe”.

Ma così non è. La lotta, a tutti i livelli, fra ricchi e poveri, fra capitalisti e proletari, non è più quella. E soprattutto la grande ricchezza non è più il surplus prodotto dallo sfruttamento di lavoro nella produzione di merci, anche se esso tuttora esiste. Né diverso sarebbe il discorso sui beni naturali come il petrolio, il cui prezzo altalenante fra gli interessi dei paesi produttori e le corporations occidentali sarebbe ridicolo vederlo riferito ai costi di produzione. Una prima conclusione che si può trarre è che il grande cambiamento che ha reso possibile la globalizzazione e questi fenomeni che ne fanno parte integrante è l’importanza che ha assunto quello che già Karl Marx, pur senza averne previsto la straordinaria capacità di trasformazione del capitalismo, aveva chiamato «l’interesse generale», inteso come la conoscenza collettiva in tutte le sue forme, dalla scienza alle applicazioni pratiche delle tecnologie.

In verità, già ben prima, uno dei più grandi innovatori nella storia del pensiero, il nostro Giambattista Vico, aveva scoperto l’esistenza di un senso comune in tutto il genere umano collegato alla sapienza insita nell’ingenium. Ed è così che oggi la vera fonte di ricchezza sta nella privatizzazione di una parte rilevante dell'”interesse generale” o dell'”ingenium” vichiano. È così infatti che l’aumento della produttività e dell’efficienza attraverso il determinante ruolo che nella trasformazione dell’economia mondiale ha avuto la conoscenza collettiva costituisce il grande successo del capitalismo globale. Ma questo successo ha altresì prodotto una disoccupazione di carattere strutturale, che ha reso dovunque una moltitudine di lavoratori inutili e superflui.
Il risultato di questo successo è che ai capitalisti di antica tradizione si sono sostituiti i manager i quali, in base a meriti e competenze sempre più incerte e discutibili, si appropriano del surplus della produzione, vengono pagati con lauti bonus, stock options e liquidazioni forsennate; al contrario degli antichi capitalisti non rischiano, ma addirittura si arricchiscono anche quando le imprese sono in perdita.

È così che la classe media, la borghesia, che era il collante d’equilibrio delle società del capitalismo industriale, va via via sparendo e il suo lavoro, come hanno dimostrato anche da noi le recenti indagini dell’Istat, ha un reddito reale che viene eroso dall’inflazione.
Ma le rivolte e lo sconfortante pessimismo non servono. Ciò che pare essenziale per la borghesia proletarizzata è il recupero della conoscenza collettiva da parte di tutti e soprattutto da parte dei giovani. Pare che questa nuova dimensione, al di fuori dei falsi Ciceroni, sia stata finalmente capita anche dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama con l’imponente programma di aiuti per accedere all’istruzione dei giovani e all’educazione degli adulti. Sarà forse così anche possibile ridurre, e quando necessario, eliminare, la deriva finanziaria che si è inserita nel gioco perverso della privatizzazione della conoscenza collettiva. Ancora una volta la vera e non la falsa cultura costituiscono la via d’uscita dalla crisi.

da www.ilsole24ore.com