lavoro, politica italiana

"Più disuguaglianza se tramonta il lavoro", di Massimo Mucchetti

La questione della disuguaglianza dei redditi affiora, s’inabissa e riaffiora come un fiume carsico. Quando la Banca d’Italia ne dà l’aggiornamento statistico, diventa un’emergenza. Quando invece la Banca centrale europea invoca la riforma del mercato del lavoro, e il governo cerca di obbedire, il lamento sulle disuguaglianze cede il passo all’invocazione efficientista della flessibilità, benché fin dai primi Anni 90 alle riforme della contrattazione si sia accompagnata la stagnazione dei salari. Il fatto è che ci limitiamo a descrivere. Ci scandalizziamo, a destra come a sinistra, se i compensi dei manager passano da 40 a 400 volte le retribuzioni dei dipendenti, ma non andiamo alla radice. Ci accontentiamo di un po’ di inconcludente invidia sociale ovvero dell’esaltazione ideologica della ricchezza. Ma poi arretriamo impauriti davanti all’evidente coincidenza che ci sfida: la disuguaglianza contemporanea prende piede mano a mano che la società mette al centro il consumatore e la politica si riduce a politica della concorrenza.
Con la crisi, il modello sociale scopre il suo limite: che senso ha la riduzione crescente dei prezzi di tanti beni e servizi per chi, in seguito alla concorrenza globale generatrice della caduta di quei prezzi, perde il lavoro o anche solo la ragionevole speranza di migliorarlo? Prendiamo le telecomunicazioni. L’Europa le ha liberalizzate più di ogni altra macroregione del mondo. In Cina gli operatori veri sono tre e investono come dice il governo. Negli Usa la Casa Bianca si astiene, ma lascia crescere giganti paramonopolistici. Qui, invece, le Authority tagliano i margini delle imprese. Fermano le concentrazioni. I governi spremono gli operatori, mettendo a gara le frequenze. E questi come reagiscono? Rallentano gli investimenti destinati ad avere ritorni non così interessanti per i soci, cui devono garantire alti dividendi, e delocalizzano fasi del servizio in patria, presso fornitori in grado di sfruttare di più la manodopera, e all’estero, perfino in India. Il web fa miracoli. Gli effetti? Avremo il declino relativo dell’infrastruttura europea, la frenata dello sviluppo, una formazione impoverita dei dipendenti e il trasferimento di competenze altrove. I conti dell’operatore e del cliente possono tornare. Ma quelli del Paese?
Negli Usa, avverte il Financial Times, alla maggior produttività non segue più da anni maggiore occupazione. Scende, in particolare, l’occupazione qualificata. Nel 2011 la Cina ha depositato più brevetti di tutti. È un caso? Siamo al tempo stesso cittadini, lavoratori, consumatori e investitori. Ci eravamo illusi che, esaltando il consumatore e l’investitore, avremmo fatto la fortuna anche del cittadino e del lavoratore. E invece, mentre s’inverte la tendenza civile alla riduzione dell’orario di lavoro, il cittadino sta perdendo i suoi diritti sociali e il lavoratore è sempre più debole e solo. Quanto all’investitore, meglio tacere. Eppure, non siamo disposti a pagare un euro in più per trattenere in Occidente la produzione di beni e servizi, senza i quali tramonta nel nulla la civiltà del lavoro e fiorisce la disuguaglianza. E però occupiamo Wall Street.
mmucchetti@rcs.it

dal Corriere della Sera del 29 gennaio 2012