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«Quei ragazzi sono italiani. Con che coraggio si dice no?», Intervista a Graziano Delrio di Natalia Lombardo

Il presidente dell’Anci e la cittadinanza agli immigrati nati nel nostro Paese: «C’è una forte azione dal basso, il Parlamento dia subito una risposta»

Il Parlamento guardi in faccia questi giovani e dica loro “voi non siete italiani”, così come gli uomini dovevano dire in faccia alle donne, “voi non votate” ».
Graziano Delrio, sindaco di Reggio Emilia alle prese con il terremoto, presidente dell’Anci, è anche presidente del comitato promotore «L’Italia sono anch’io» per la legge sulla cittadinanza italiana ai figli di immigrati nati nel nostro Paese.

Sta crescendo un fronte trasversale, ci sono tante proposte di legge, pensa che il Parlamento le recepirà? «Esiste un’azione forte dal basso di tante associazioni che chiedono al Parlamento di avere più coraggio e guardare in faccia la realtà: quasi un milione di giovani che si sentono a tutti gli effetti italiani».

Di quale fascia di età parla? «Da zero ai diciotto anni, parlo sia di chi è nato qua che di chi è arrivato da piccolo e ha concluso due cicli di studi. Bambini a tutti gli effetti italiani, parlano e studiano nella nostra lingua, vivono l’Italia come loro patria, invece a diciotto anni verranno trattati come stranieri. Noi produciamo stranieri con questa legislazione. Ma ora il tempo della paura iniziale, comprensibile per un’immigrazione rapida con un impatto forte, è finito, si deve fare un passo in avanti come in tutti i paesi europei. E affrontare il tema dell’immigrazione come “il tema” del Terzo Millennio».

Come comitato promotore cosa farete? «Abbiamo messo insieme le anime più diverse, dalla Cgil all’Ugl, l’Arci e il centro studi gesuiti. Abbiamo raccolto 50mila firme per la proposta di legge popolari con banchetti in tutta Italia, trovando gli italiani più disponibili di quanto non si dica. Ora dobbiamo certificarle, poi depositeremo le proposte di legge in Parlamento; a febbraio chiederemo ai presidenti della Camera e del Senato e ai capigruppo di avviare un iter e un calendario per discuterle ».

Ci sarà la forza per mandarla avanti, secondo lei? «Credo che in Parlamento adesso ci siano le condizioni ideali per fare questo passo: sono caduti quelle paure e quei ricatti politici di chi minacciava di far cadere il governo».

Sono caduti del tutto? «Be’, con un governo concentrato sul fare dovrebbe esserci un Parlamento concentrato sul fare. E questo può fare in modo che la legislazione determini uno scatto di civiltà, riconosca diritti che ci sono già, e aiuto anche a far meglio i propri doveri. Perché chi è in grado di sentirsi cittadino può dare un contributo maggiore al proprio Paese».

La formula è quella dello ius soli. «Sì. Certo non siamo favorevoli al fatto che uno venga qui a partorire e diventi automaticamente cittadino italiano, non è questo il tema. Ma se nasce un bambino da genitori già legalmente soggiornanti in Italia, quindi da almeno cinque o sei anni, a questo bambino deve essere riconosciuta la cittadinanza. Oppure può avvenire dopo che ha concluso i primi due cicli di studi. Sarà il Parlamento a decidere, ma intanto deve guardare in faccia questi giovani, che io sento cantare l’Inno Nazionale, e dire loro “voi non siete italiani”. Come gli uomini dovevano dire alle donne “tu non hai il diritto di votare”, facile dirlo tra uomini, più difficile dirlo alle mogli. Per fortuna oggi c’è un’ampia sensibilità, grazie al presidente della Repubblica, al presidente della Camera, i partiti possono riconquistare molta credibilità se affrontano questi temi».

Come giudica le posizioni di Grillo? «Grillo ha fatto una lettura da politichese, “questo serve alla Lega… questo alla sinistra buonista…”. Questa legge non serve né a far aumentare il razzismo, né a farlo diminuire. E il buonismo non c’entra. È una scelta di migliore coesione della società e di qualità della vita anche nostra. Perché quando abbiamo concesso diritti non ci abbiamo mai rimesso ».

Il governo non ha tolto l’aumento della tassa per il permesso di soggiorno. Pesano i ricatti della Lega, con il Pdl che non vuole rompere del tutto? «Non so, ma non c’è peggior politica idi quella degli annunci. Una volta che si è detto sarebbe utile farlo; non dico che non debbano pagare, ma senza sovrattasse, un immigrato non deve sentirsi in colpa perché chiede il permesso di soggiorno».

Lei parla come se vivesse molto da vicino le storie di questi ragazzi. «Sì, tutti i sindaci le conoscono. Ho davanti agli occhi storie di ragazzine nate in Italia da genitori marocchini o ucraini che prendono nove in italiano e mi dicono “la maestra è stupita, perché, io cos’ho di diverso dai miei compagni italiani?” Mi scrivono tantissime lettere: ragazze bravissime in ginnastica, atlete quindicenni, che non possono essere scritturate da società professionistiche perché non hanno la cittadinanza. Ecco, il Parlamento dovrebbe avere davanti queste storie commoventi, più che i calcoli politici».

da L’Unità

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“La cittadinanza non basta”, di Giovanna Zincone

Una classe politica oberata da pesanti e spinose decisioni da prendere ha un gran bisogno di proposte ragionevoli, che la aiutino ad alleggerire il carico. In questi giorni ne arriva una. L’idea di Sartori di introdurre un tipo di permesso che sia inclusivo dei figli e non obblighi gli immigrati a continui rinnovi è ottima. Lo è anche perché ha un costo decisionale pari a zero: quello che suggerisce c’è già. La carta di soggiorno permanente per lungo-residenti è uno strumento di cui si sono dotati con tempi e modi diversi tutti i paesi dell’Unione Europea.

E direttive dell’Unione hanno introdotto un permesso di soggiorno comunitario per i lungo-residenti negli Stati membri, che rende anche più facile la circolazione da un Paese all’altro. La carta di soggiorno per lungo residenti è uno strumento valido e convincente, ma può sostituire l’accesso alla cittadinanza dei figli nati o arrivati molto piccoli in Italia? Non credo, e le ragioni addotte contro i potenziali piccoli nuovi cittadini non mi convincono.

Il primo argomento contrario segnala il rischio che questi bambini, in particolare quella gran parte costituita da musulmani, non si integrino mai. Divenuti maggiorenni, visto che avrebbero diritto al voto, potrebbero dar vita a sovversivi partiti islamisti. Questa tesi non regge alla luce dei fatti. La maggioranza degli immigrati in Italia viene da Paesi di matrice cristiana e, a causa dell’aumento relativo dei flussi dall’Europa dell’Est rispetto al Nord Africa, la componente non musulmana è in aumento.

Ma anche guardando a un ipotetico incremento di flussi legato all’instabilità sull’altra sponda del Mediterraneo, lo spettro di gruppi politici islamici non incombe. Da anni altri Paesi europei ospitano forti minoranze musulmane, ma salvo casi marginali e politicamente irrilevanti, di partiti islamici proprio non si trova traccia. Il primo partito islamico che si è presentato in Spagna nelle elezioni locali del 2011 non ha suscitato grandi consensi. Inoltre, osservazione più rilevante, l’equazione «musulmano uguale integralista» è irrealistica.

Le ricerche empiriche sulle opinioni religiose e politiche di chi viene da Paesi di cultura islamica presenta un quadro molto variegato, nel quale sostanzialmente dominano atteggiamenti pacifici. Non solo, a volte individui che arrivano piuttosto apatici sotto il profilo religioso si trasformano in convinti aderenti alla comunità musulmana e, in casi estremi, alle sue frange più pericolose, proprio come reazione alla condizione di emarginazione sociale e culturale che devono affrontare. Mettere un silenziatore ai giudizi sprezzanti contro gli immigrati in genere, e contro quelli che vengono da Paesi musulmani in particolare, oltre a costituire un richiamo alla moderazione e a un minimo di buone maniere nella comunicazione pubblica, potrebbe rivelarsi un’utile strategia di supporto all’integrazione.

Un altro punto mi convince poco nelle argomentazioni usate contro riforme liberali della cittadinanza, e cioè che in assenza di cittadinanza è facile espellere i cattivi stranieri. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha accettato diversi ricorsi contro l’espulsione di lungo-residenti che avevano commesso reati anche di un certo peso; in particolare hanno avuto successo i ricorsi da parte di immigrati arrivati da bambini. Gli immigrati non sono mobili Ikea che puoi restituire se non funzionano a dovere. Non è semplice rimandare nel Paese di origine dei genitori o dei nonni un ragazzo che non conosce la lingua dei suoi antenati, che è ormai estraneo a quella cultura lontana, alle abitudini di luoghi dove è stato poco o nulla. Ormai, piaccia o non piaccia, quel ragazzo è diventato un membro del Paese in cui è vissuto: di fatto se non di diritto è diventato un cittadino, purtroppo un cattivo cittadino.

Persino le garanzie Ikea valgono solo per un certo numero di anni, e solo se il prodotto è stato trattato come si deve. L’obiettivo è piuttosto far sì che gli immigrati diventino buoni cittadini, trattandoli come si deve. Non credo che rendere meno difficile l’accesso alla cittadinanza dei bambini stranieri costituisca l’unico elemento di un buon trattamento, non credo sia una misura sufficiente per una loro buona integrazione, ma almeno aiuta a non provocare un numero ancor più alto di integrazioni fallite. Può darsi che si tratti di un abbaglio collettivo, ma tutte le democrazie prevedono percorsi semplificati per i nati sul territorio, e sebbene la nostra legislazione sia più restrittiva delle altre, persino il figlio di stranieri nato in Italia può chiedere la cittadinanza a 18 anni più facilmente dei genitori che volessero ottenerla in base alla durata della loro residenza.

Ma se non convincono le motivazioni di chi, in materia di cittadinanza, non vuol concedere nulla, suscitano dubbi anche quelle di chi vuol dare tutto e subito. Quest’ultima è la posizione dei promotori del referendum di iniziativa popolare: la loro legge attribuirebbe la cittadinanza ai figli di immigrati che hanno un soggiorno regolare anche solo da un anno. Mi sembra poco per stabilire se quella famiglia con il suo bambino vorrà davvero vivere nel nostro Paese, né mi sembra in grado di far quagliare intorno a sé una maggioranza parlamentare. C’è spazio però per soluzioni bipartisan intermedie, già emerse, che collegano la concessione della cittadinanza a un ragionevole tempo di soggiorno regolare dei genitori o del bambino stesso.

Ho sostenuto prima che facilitare l’accesso alla cittadinanza può aiutare a integrare, pur se non è l’unica determinante. Sono molti i fattori che incidono sui processi di integrazione: l’istruzione, l’apertura del mercato del lavoro, la congiuntura economica. Non sappiamo quale sia il peso specifico della cittadinanza in questo processo, perciò è difficile elaborare in questo campo quella linea di azione che Weber predilige e definisce «razionale allo scopo», cioè orientata a valutare i mezzi e la loro capacità di ottenere risultati. Ma è anche impossibile in questa materia evitare di agire con un orientamento ai valori, un comportamento pubblico in cui Weber, come Sartori, vede a ragione rischi di derive ideologiche.

A mio avviso, però, in certi ambiti la coerenza ai valori è un ingrediente non solo inevitabile, ma salutare, purché la si coniughi con la razionalità strumentale, la ricerca di mezzi adeguati. Dagli orientamenti rispetto alla riforma della cittadinanza in Italia traspaiono valori di fondo, atteggiamenti emotivi distanti: una maggiore simpatia o antipatia per gli immigrati, una maggiore fiducia o sfiducia rispetto a sistemi politici e sociali aperti.

Come suggerisce Weber esplicito i miei valori: confesso di appartenere al secondo gruppo. Ma non dimentichiamo la buona, vecchia, prudente razionalità strumentale. Simpatizzare per gli immigrati, auspicare una società aperta non basta, se non si individuano soluzioni capaci sia di ottenere i consensi politici necessari nell’immediato, sia di funzionare bene per il futuro. Non basta essere puri come colombe se non si è anche astuti come serpenti.

da La Stampa

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“Il governo ritiri la tassa sugli immigrati”, di Pietro Spataro

«Una cosa che non ho capito bene è cosa sono io però. Per esempio io ho i miei genitori che sono nati in Tunisia e io sono nato però in Italia: allora quale è la mia patria?». È la domanda che angoscia Daniel, un bambino di 11 anni che va a scuola a Reggio Emilia e la cui testimonianza è stata raccolta dal maestro-scrittore Giuseppe Caliceti in un bellissimo libro («Italiani, per esempio») che dovrebbe essere letto da tutti coloro, i parlamentari innanzitutto, che in questi giorni
stanno contrastando la sacrosanta proposta di concedere la cittadinanza italiana ai figli di immigrati che sono nati in Italia. È una semplice idea di buon senso, una scelta di civiltà. Eppure il Pdl, oltre ovviamente la Lega, si stanno scatenando. Alcuni addirittura minacciano di far cadere il governo nel caso una legge del genere venga approvata. A loro si è unito un comico populista che ha fatto infuriare il web in questi giorni.
La battaglia per riconoscere questo legittimo diritto però non si ferma con i ricatti. Lanciata da una serie di associazioni guidate dal presidente dell’Anci Graziano Delrio con lo slogan «l’Italia sono anch’io» è fortemente voluta dal Pd (Bersani l’ha ribadito con decisione in un suo intervento alla Camera un paio di mesi fa). La sollecitazione è stata raccolta anche dal presidente Napolitano: negare la cittadinanza a questi bambini è «un’autentica follia, un’assurdità». Fini è d’accordo con lui. C’è insomma una parte consistente del mondo politico, istituzionale e civile che vuole cambiare.
In giro per l’Italia ci sono un milione di bambini in questa assurda condizione di minorità civile. Vanno a scuola insieme ai nostri figli, giocano con loro, guardano la nostra tv, frequentano i nostri cinema, parlano la nostra stessa lingua e i nostri stessi dialetti. Si sentono e sono a tutti gli effetti figli d’Italia come tutti noi. Ma la legislazione
oggi in vigore prevede che possano diventare davvero italiani solo se prima i loro genitori diventano cittadini italiani (e i tempi come sono lunghissimi) oppure quando avranno compiuto diciotto anni. Bisogna usare altri argomenti per far capire che c’è qualcosa di vergognoso in questa trafila burocratica che esclude e discrimina?
È per questa ragione che la decisione del governo Monti di confermare la tassa per il permesso di soggiorno, voluta da Bossi e Tremonti, ci è parsa sbagliata. Nel governo, oltre a personalità con una cultura liberale dell’integrazione e dei diritti civili, ci sono ministri che hanno anche una sensibilità particolare verso questo tema. È il caso di Andrea Riccardi, fondatore di Sant’Egidio che ha ripetuto più volte che sull’immigrazione occorre uscire dalla «fase emergenziale».
Però, oggi in Italia senza cittadinanza ci vuole il permesso di soggiorno. E il permesso di soggiorno (anche per i bambini) da domani costerà molto caro: da 80 a 200 euro in più rispetto ai 57 che oggi si spendono per bolli e imposte. Dice il governo: non c’era copertura finanziaria per eliminare quella norma. La copertura finanziaria andava trovata. Anzi, diciamo che va trovata: perché ci auguriamo che Monti e i suoi ministri sentano il dovere di riparare a questo doppio torto. Così come speriamo che tutti i partiti in Parlamento abbiano la necessaria forza morale per riconoscere il legittimo diritto di questi bambini italiani.
Noi non ci fermiamo: l’Unità sosterrà ogni iniziativa utile a fare approvare rapidamente la legge. I nostri lettori possono darci una mano mandando la loro adesione e i loro commenti sul nostro sito (www.unita.it) o su twitter usando l’hashtag #figliditalia.

da l’Unità del 29.1.12