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"Severino: sulle carceri test di civiltà. Prescrizione sotto accusa a Milano", di L. MI.

La Severino apre l’anno giudiziario

Carceri incivili e prescrizione “assassina”. Sono gli argomenti da tormentone delle 26 cerimonie nelle 26 città dove si celebra l’apertura dell’anno giudiziario. Sono i 26 distretti dove il Guardasigilli Paola Severino dovrà “potare” gli uffici inutili. Lei, da Catania, insiste sulla situazione dei penitenziari, il problema che la «angoscia» da quando si è insediata in via Arenula. Fa un’affermazione forte: «Dalle situazioni delle carceri si misura il livello di civiltà di un Paese». Aggiunge: «Lo Stato non ripaga mai con la vendetta, ma vince con il diritto e l’applicazione scrupolosa di regole e legge». Prosegue: «La giusta detenzione dimostra ai criminali l’intima diversità tra la legalità della nostra democrazia e ogni forma intollerabile di arbitrio».

Delle carceri e delle loro spaventose condizioni parlano tanti magistrati. I radicali insistono con l’amnistia. Il governatore della Puglia Nichi Vendola fa questa previsione: «Stiamo regredendo verso un moderno Medioevo».

Negli stessi minuti, a Milano, il presidente della Corte di appello Giovanni Canzio- alla sua prima inaugurazione dopo gli anni trascorsi all’Aquila in pieno terremoto – pone l’altro grande tema della giornata, l’incombere della prescrizione che falcidia i processi. La definisce un «agente patogeno». Ne parla così: «Non è sostenibile l’attuale disciplina sostanziale della prescrizione perché induce premialità di fatto, incentiva strategie dilatorie della difesa, implementa oltre ogni misura il numero delle impugnazioni». Ancora: «In casi eccezionali può anche sollecitare, come agente terapeutico, maggior rigore ed efficienza organizzativa, ma oggi si rivela un agente patogeno». Canzio parla della questione in generale, così come accade su Repubblica da tre giorni. Il vice presidente del Csm Michele Vietti ha proposto di congelare la prescrizione a processo iniziato; il primo presidente della Cassazione Ernesto Lupo di allungarla. Ma il ministro della Giustizia non è di quella idea. Per lei – dice al Messaggero- una modifica nonè «un tabù», ma neppure «la priorità».

Perché «si deve valutare se la prescrizione rappresenta la causa o la conseguenza della lentezza dei processi». Bisogna «partire dalle cause e non dagli effetti, dalla testa e non dalla coda». Prima bisogna rimuovere le cause che allungano i processi e semmai poi intervenire sulla prescrizione.

Dibattito generale dunque. Ma quando Canzio parla a Milano subito il Pdl si scatena perché ritiene che lo abbia fatto per via del processo Mills in cui Berlusconi ha appena fatto ricusare i suoi giudici che tentano di arrivare alla sentenza di primo grado prima che l’11 febbraio la prescrizione fulmini il processo. Si scatena il capogruppo del Pdl alla Camera Fabrizio Cicchitto: «È evidente che Canzio vuole confermare pubblicamente che tutto il “rito ambrosiano” si muove per assicurare a Berlusconi una sicura condanna». Lo segue l’omologo in commissione Giustizia Enrico Costa: «Perché Canzio ne parla proprio adesso che il suo ufficio è investito della decisione sul processo Mills?». Ma a Roma, dove non c’è un caso Mills, il presidente della Corte d’appello di Roma Giorgio Santacroce ricorda come «l’Europa ci critichi per gli effetti dannosi della prescrizione nei processi per corruzione». La Pd Donatella Ferranti propone di cambiare la prescrizione allungandola e inserire subito le modifiche nel ddl anticorruzione che questa settimana riprende il suo faticoso e lentissimo iter alla Camera.

Come dice il presidente dell’Anm Luca Palamara, anche lui a Milano, «il clima politico è sicuramente diverso rispetto a quello degli ultimi anni», ma lo scontro sulla prescrizione e gli attacchi a Canzio dimostrano che sarà difficile intervenire sul tema. Palamara insiste: «Bisogna avere il coraggio di mettere mano alla disciplina della prescrizione». Ma tutto lascia intendere che questo «coraggio» ancora non c’è.

da la Repubblica

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L’intervista Franco Ionta, il capo del Dap: va limitato l’afflusso in entrata negli istituti penitenziari

“Il sovraffollamento lede la dignità anche nelle celle c’è il diritto al pudore”, di ANNALISA CUZZOCREA

«Quello delle carceri non è solo un problema di sovraffollamento, è un problema di dignità della detenzione».

Franco Ionta, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, conosce bene il grido di dolore che si è levato dai tribunali di mezz’Italia.

Il ministro Severino l’ha definito un test di civiltà per il Paese. L’Italia è molto indietro? «Quando una persona- al di là delle responsabilità accertate o da accertare – si trova in una struttura penitenziaria, ne devono essere salvaguardate la vita, la salute e la dignità. Così come il lavoro che fa la polizia penitenziaria deve essere dignitoso e ritenuto tale dalla società».

Le carceri italiane possono accogliere 43mila persone. Quante ce ne sono oggi? «Abbiamo 66.800 detenuti, e se nel dicembre 2010 non fosse stata introdotta una legge di grande saggezza – quella che consente di scontare ai domiciliari l’ultimo anno di pena – il problema sarebbe ancora maggiore. Il 42 per cento di detenuti è in attesa di giudizio, e si trova in condizione di non essere rispettato nella sua dignità».

In che modo? «Dormire e condividere gli ambienti igienici con troppe persone rende inaccettabile anche la quotidianità. Cucinarsi un pranzo, leggere un giornale, prendersi un caffè, lo svolgimento ordinario della vita – seppure da detenuto – non dev’essere ostacolato da un’eccessiva promiscuità. La cessazione della libertà non può essere accompagnata da un di più. Non dico che debba esserci una cella per ogni detenuto, ma non è neanche giusto che ci siano troppe persone in una stessa cella».

Quante ce ne sono oggi? «Dipende, in quelle piccole due. In altre, fino a 8».

Qual è la situazione che la preoccupa di più? «Vorrei fare un esempio di eccellenza, perché bisogna lavorare in questo senso. Il carcere di Trento, che abbiamo inaugurato l’anno scorso, dimostra come se c’è dietro un’idea intelligente di detenzione le condizioni migliorano. Con meno persone per cella, servizi ben separati dalla parte abitativa, la possibilità di aprire elettronicamente cancelli e porte, alloggi per il personale». Cosa deve cambiare? «Il carcere non può essere un contenitore del disagio sociale.

E deve essere collegato con altre strutture territoriali. Penso alla sanità penitenziaria, che è un problema nel problema. E agli ospedali psichiatrici giudiziari, che dobbiamo riuscirea trasformare in luoghi di cura».

C’è il dramma dei suicidi. A volte legati alla tossicodipendenza. «Bisogna intervenire limitando l’afflusso in carcere, con una modalità per gli arresti in flagranza che eviti che 100mila persone attraversino una struttura penitenziaria.E aumentare il deflusso, scontare fuori – invece di dodici – gli ultimi 18 mesi di pena. Ovviamente escludendo tutti i reati che hanno un tasso di alta pericolosità sociale. Perché ogni suicidio è una sconfitta per lo Stato, né mi consolano i raffronti con gli altri paesi. L’anno scorso si sono uccisi in carcere oltre 60 detenuti, e 8 agenti di polizia penitenziaria. Troppi».

Bisogna intervenire sulla custodia preventiva? «Già nel codice attuale la misura cautelare in carcere dev’essere l’ultima delle misure, quando nessun’altra può fronteggiare le esigenze processuali».

da la Repubblica