attualità, partito democratico

"Comportamento incompatibile", di Pietro Spataro

È una brutta storia. Nella quale si incrociano questioni che riguardano l’etica pubblica, la correttezza politica, il rapporto di fiducia con gli elettori e con il partito che si rappresenta. La vicenda giudiziaria che coinvolge Luigi Lusi, ex tesoriere della Margherita e oggi senatore del Pd, è appena agli inizi e presenta ancora alcuni aspetti poco chiari. Passaggi che sono sotto la lente della Procura di Roma e sui quali è bene riservarsi il giudizio finale. Toccherà ai pm verificare se quei 13 milioni di euro, in gran parte frutto dei rimborsi elettorali del vecchio partito di Rutelli, sono finiti tutti nelle tasche del senatore indagato. Per ora, l’unica cosa certa è che Lusi, davanti ai magistrati, ha ammesso le colpe e si è assunto ogni responsabilità. Anzi, in un’intervista, ha detto testualmente: «Mi assumo la responsabilità di tutto e di tutti».
Dove l’ambiguità di quel «tutti» sembra lasciare aperto ogni possibile sviluppo.
L’accusa è molto pesante: appropriazione indebita. Pesante non tanto da un punto di vista penale (il codice prevede una multa e il carcere fino a tre anni) quanto da quello politico. Per un parlamentare è una macchia indelebile, che sfregia la sua
onorabilità e ferisce la sua funzione di rappresentanza. Quel flusso di denaro che dal
conto della Margherita è transitato nelle casse di una società gestita da un titolare
canadese è già, per ammissione, la prova di un giro di affari irregolari. Lusi, grazie a quella movimentazione, avrebbe acquistato un appartamento nel centro di Roma, una villa ai Castelli Romani, pagato una costosissima ristrutturazione edilizia più diverse consulenze. Che cosa abbia spinto il tesoriere della Margherita ad azioni così
spericolate e difficili da tenere nascoste è un mistero. Resta la macchia. Ed è una
macchia personale che riguarda innanzitutto un partitoì precedente al Pd e che ora coinvolge il Pd di cui è senatore. Con la stessa convinzione con cui abbiamo chiesto ai democratici provvedimenti rapidi nei nconfronti di Filippo Penati e con la stesso spirito garantista con cui in questi giorni abbiamo sollevato dubbi sull’inchiesta
giudiziaria che coinvolge Ottaviano Del Turco, oggi diciamo ai vertici del Pd che non sono consentiti né tentennamenti né rinvii. Il senatore Lusi ha ammesso le sue colpe, quindi non ci sono ulteriori accertamenti da fare, né testimonianze da
raccogliere. È ormai chiaro che non può più stare nel Pd, né far parte dei suoi organismi dirigenti e del suo gruppo parlamentare. E crediamo anche che, avendo tradito il suo mandato, debba dimettersi da senatore. Anche se quest’ultima è una decisione che attiene esclusivamente alla sua coscienza. Ci aspettiamo che gli
consigli la scelta giusta. Il caso Lusi pone però alla politica un problema che va oltre i risvolti penali o giudiziari. Bisogna che il Parlamento, come suggerisce Luciano Violante in un’intervista al nostro giornale, si doti al più presto di organismi che valutino l’etica pubblica dei parlamentari. Accade già negli Usa e in Canada. Anche i partiti devono darsi regole certe e inflessibili. Per sconfiggere l’antipolitica non basta l’indignazione. Bisogna sviluppare gli anticorpi per impedire che qualche disonesto sporchi l’impegno di tante persone che hanno a cuore solo le loro idee.

L’Unità 01.02.12

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Rabbia nel Pd: «Niente sconti», di Simone Collini

Sconcerto, rabbia. E la sgradevole necessità di tornare a parlare in termini di ex: ex-Margherita, ex-Ds. Non è stata una bella giornata in casa Pd. La notizia dell’accusa di appropriazione indebita nei confronti di Luigi Lusi ha «sorpreso, e non gradevolmente» Pier Luigi Bersani, per il quale di fronte all’accertamento dei fatti il senatore del Pd va espulso: «Non facciamo sconti a nessuno, le procedure verranno applicate rigorosamente». Luigi Berlinguer ha già convocato la Commissione di garanzia, che è l’organismo incaricato di applicare Statuto e Codice etico e quindi l’unico in grado di prendere una decisione comel’espulsione.
Mentre Anna Finocchiaro ha inviato a Lusi una lettera in cui si chiede al senatore di dimettersi dal gruppo del Pd e dagli incarichi che, «in ragione di tale appartenenza», ricopre a PalazzoMadama: ovvero vicepresidente della commissione Bilancio e membro della Giunta delle immunità parlamentari.
Invano sia il segretario che la capogruppo del Pd al Senato hanno atteso per mezza giornata da Lusi un passo indietro volontario. Di fronte al silenzio del parlamentare, nel pomeriggio si è deciso per la richiesta formale di uscita dal gruppo (nel caso si dimettesse da senatore, subentrerebbe come primo dei non eletti Stefano Fassina).
Ma al di là di quello che farà Lusi, la vicenda scuote il partito e innesca tra i Democratici una serie di recriminazioni e anche di sospetti. La domanda più frequente nei capannelli che si formano nel Transatlantico della Camera è se sia possibile che Lusi abbia tenuto per sé una somma così ingente come 13 milioni di euro. E poi ci si domanda perché i vertici del Pd non siano stati avvisati di quanto stava avvenendo, visto che Lusi si è dimesso da tesoriere della Margherita il 25
gennaio, dopo che la vicenda è stata discussa per una settimana da più di un dirigente di quell’area insieme a Francesco Rutelli. Così se gli ex-dielle, soprattutto gli ex-popolari come Pierluigi Castagnetti e gli ulivisti come Arturo Parisi, chiedono
la convocazione immediata dell’Assemblea (si terrà entro il mese e servirà a eleggere un nuovo tesoriere) o ricordano di aver già denunciato «voci opache» nel bilancio approvato la scorsa estate, tra gli ex-diessini ci si domanda quanti
compagnidi partito provenienti dalla Margherita hanno taciuto sul caso che stava per scoppiare. E l’unico che riesce a ironizzare sulla vicenda è Massimo D’Alema, che incrociando a Montecitorio il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti (che alla nascita del
Pd ha difeso la linea della «separazione dei beni» con la Margherita) gli fa: «Quello ha una casa in Canada, ora se tu non ci dici che hai almeno una casa in Siberia non ti guardiamo neanche in faccia, non si fa un’unificazione alla pari».Ma la voglia
di scherzare nel Pd è poca. Il fatto che Rutelli si sia costituito parte offesa, che abbia fatto sapere che i vertici della Margherita sono «incazzati e addolorati», che ora il bilancio sarà verificato dalla società di revisione Kpmg, che Lusi avesse
«interamente nelle sue mani il potere amministrativo», serve fino a un certo punto. Bersani ha concordato conil tesoriere del Pd Antonio Misiani una nota per «precisare» che gli «unici rapporti economici» tra Pd e Margherita riguardano i pagamenti per il subaffitto e le spese di gestione della sede nazionale in Via Sant’Andrea delle Fratte (nel rendiconto dell’esercizio chiuso al 31 dicembre 2010 si legge che sono stati
pagati complessivamente poco più di tre milioni di euro). I vertici del Pd stanno ora bene attenti a tener arginata entro i confini della Margherita una vicenda di cui sono ancora da capire tutti i contorni e che rischia di influire su un’opinione pubblica che guarda con sempre minore fiducia ai partiti.

L’Unità 01.02.12

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“IL MISTERO MILIONARIO”, di GAD LERNER

La Margherita, un partito che non esiste più da cinque anni, dispone tuttora di un patrimonio superiore ai 20 milioni di euro. Questo partito-fantasma, cioè, da solo detiene una cifra di gran lunga superiore ai soldi che risparmieremo in un anno con la decurtazione sugli stipendi dei parlamentari approvata lunedì scorso. Il suo tesoriere, senatore Luigi Lusi, si è assunto davanti ai giudici la colpa di un’appropriazione indebita per 13 milioni.

Tredici milioni distolti attraverso 90 bonifici in soli due anni e mezzo dai conti bancari di cui era cointestatario insieme a Francesco Rutelli. Confidiamo di sapere al più presto se davvero si tratti solo di un clamoroso episodio di disonestà personale, come affermano gli ex dirigenti della Margherita, o se invece Lusi stia sacrificandosi anche nell’interesse di altri. Ma nel frattempo dobbiamo chiederci: cosa se ne fa la defunta Margherita, dopo la confluenza nel Partito Democratico, di tutti questi soldi? Nella reticente dichiarazione attraverso la quale i rappresentanti legali della Margherita (Francesco Rutelli, Enzo Bianco e Gianpiero Bocci) si dissociano dall’operato di Lusi, stupisce il compiacimento con cui rivendicano di avere sempre goduto di “bilanci sani e in attivo”. Quasi che il risparmio e la valorizzazione patrimoniale rientrassero tra le finalità di un partito politico, alla stregua di un’azienda profit. Grazie alla legge sui rimborsi elettorali (sovrabbondanti) con cui s’è aggirato il referendum che nel 1993 abrogò il finanziamento pubblico dei partiti, ci sono forze politiche che incassano molto più di quanto spendono, dedicandosi a investimenti speculativi di cui non sono tenute a rendere conto. La Margherita, per esempio, è riuscita a “risparmiare” oltre 20 milioni in un decennio. Usufruendo peraltro di rimborsi elettorali ben oltre la data del suo scioglimento. La verità è desolante: fra le ricchezze nascoste che penalizzano l’economia nazionale, rientrano pure i tesoretti occultati dalle forze politiche che ne predicano il risanamento. Partiti viventi e scomparsi gestiscono patrimoni mobiliari e immobiliari grazie ai quali i loro notabili intestatari perpetuano il proprio potere, talvolta traslocando perfino da uno schieramento all’altro. Non paghi di una legge elettorale che riserva loro l’esclusiva sulla scelta dei candidati, profittano ulteriormente di questo potere di firma per ostacolare la contendibilità democratica delle cariche dirigenti.

È capitato (di rado) che i “residui attivi” venissero investiti in operazioni politiche trasparenti: l’estate scorsa i Democratici dell’Asinello – dieci anni dopo il loro scioglimento! – li hanno devoluti per la raccolta di firme del referendum abrogativo della legge porcellum. Ma il più delle volte i capipartito e i capicorrente investono i nostri soldi nella loro autoperpetuazione. Basti pensare ai derivati speculativi acquisiti in Tanzania, a Cipro e in Norvegia dalla Lega Nord. E agli appartamenti comprati da Di Pietro e Mastella. Distinguere fra il lecito e l’illecito, in questa corsa all’accaparramento di risorse pubbliche, risulta difficoltoso. Perché i gruppi dirigenti tendono a diffidare anche al loro interno, come dimostra l’insolita “separazione dei beni” stabilita fra ex Ds e ex Margherita al momento del matrimonio nel Partito Democratico. Mentre i notabili che non dispongono di accesso diretto alla mangiatoia dei rimborsi elettorali, ricorrono alle Fondazioni per attingere finanziamenti sia pubblici che privati.

Stupisce la cautela di Bersani, cui non bastano le ammissioni di colpa già rese ai giudici dal senatore Lusi per deferirlo ai probiviri del partito, e resta in attesa che vengano “accertate responsabilità individuali”. Forse perché Lusi è depositario di troppe informazioni riservate, come già Filippo Penati? A vent’anni da Mani Pulite intorno ai partiti ruota un eccesso di denaro pubblico sottratto al dovere del rendiconto perché mascherato sotto forma di rimborsi elettorali, un eccesso scandaloso quanto il ritorno in auge delle tangenti, ancorché legalizzato.

Né può essere addotto come giustificazione il fatto che il principale partito della destra goda del sostegno di uno degli uomini più ricchi del paese.

L’autoriforma del Pd promessa da Bersani non potrà dunque limitarsi alla selezione delle candidature attraverso le primarie, su cui si è impegnato alla recente Assemblea nazionale. Deve contemplare un censimento veritiero delle risorse patrimoniali ereditate dal passato e un sistema di controlli rigoroso sul loro utilizzo no profit condiviso. Come direbbe lui, “non siamo mica qua a scimmiottare l’investment banking…”.

Desta invece curiosità Francesco Rutelli, trasmigrato con Casini e Fini nel Terzo Polo centrista, quando rilascia dichiarazioni a nome della fu Margherita intenzionataa “recuperare tutto il maltolto”.

D’accordo, ma per farne poi che cosa? Basterà la sua firma sul conto in banca depredato, sottoscritta con delega congressuale al tempo in cui Rutelli credeva ancora nel bipolarismo e nel progetto democratico, per riconoscerlo comproprietario di quei 13 milioni? Per oltrepassare la stagione della politica sottomessa alla tecnocrazia, urge liquidare questi partiti ridottia consorterie private, in palese violazione dell’articolo 49 della Costituzione della Repubblica: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Con metodo democratico, appunto.

La Repubblica 01.02.12