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“Lusi espulso dal gruppo del Pd”, di Simone Collini

L’ufficio di presidenza dei senatori Pd decide all’unanimità l’espulsione di Lusi dal gruppo. Berlinguerha convocato per lunedì il comitato dei garanti: verso la sospensione dal partito. Espulso dal gruppo al Senato e al centro diun pressing affinché si dimetta da parlamentare, mentre la commissione di garanzia si riunisce lunedì per ratificare una decisione che sembra già scritta: sospensione dal partito. Pier Luigi Bersani vuole accelerare i tempi per chiudere la vicenda che vede coinvolto l’ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi. Il primo passo deciso dai vertici del Pd è stata l’«esclusione», come recita il regolamento interno, dal gruppo a Palazzo Madama, decisa all’unanimità dall’ufficio di presidenza convocato di buon’ora da Anna Finocchiaro. Il presidente dei garanti Luigi Berlinguer ha poi convocato a Roma per lunedì tutti i membri dell’unico organismo interno che ha il potere di «sospendere» un iscritto (di fatto è un’espulsione, prevedendo la perdita di ogni diritto come tesserato).
Il parlamentare europeo in questi giorni è impegnato a Bruxelles madi fatto ha avviato l’istruttoria, che conta di aprire e chiudere in una sola seduta, specialmente se verrà confermata la richiesta di patteggiamento da parte del senatore. Anche se di fronte a un’ammissione del reato di appropriazione indebita sarà complicato non decidere per l’espulsione, spiega più di un membro della commissione, i garanti stanno anche cercando di contattare Lusi per chiedergli se voglia consegnare della documentazione per chiarire la sua posizione. L’ex tesoriere della Margherita si sta però trincerando dietro il silenzio più totale. Un atteggiamento che fa aumentare l’irritazione tra i vertici del Pd e che alimentando sospetti sulla destinazione reale dei quasi 13 milioni sottratti ai bilanci della Margherita alimenta un clima di tensione tra gli ex-diellini. Ettore Rosato, responsabile della campagna per le primarie del 2009 di Dario Franceschini, smentisce che il capogruppo del Pd in quel periodo abbia ottenuto da Lusi quattro milioni per la corsa alla leadership del Pd, come l’ex tesoriere disse ad Arturo Parisi per giustificare uscite poco chiare. «La campagna – chiarisce Rosato – costò 249 mila euro e le entrate sono state tutte derivanti da contributi volontari di singoli parlamentari e cittadini». Risposta giudicata «convincente» da Parisi. Ma per un caso che si chiude, restano aperti tutti gli interrogativi su come sia potuta verificarsi una vicenda simile, e perché. Se ne parla nei capannelli di parlamentari che si formano a Montecitorio come a Palazzo Madama. E non è casuale che il vicesegretario del Pd Enrico Letta dica che questa «vicenda incredibile» si debba chiarire in tempi rapidi: «Si riunisca al più presto, ad horas, l’organo di gestione della Margherita per chiarimenti e decisioni conseguenti».
PRESSING PER LE DIMISSIONI
La priorità ora, per i vertici del Pd, è mostrare chenonc’è nessun collegamentotra i bilanci del partito e quelli della Margherita, e separare i destini dei Democratici da quelli di Lusi. Il pressing affinché si dimetta da senatore è forte. A cominciare dal responsabile Giustizia Andrea Orlando, che come molti altri giudicaì necessaria una legge che introduca norme severe sul finanziamento pubblico e regole di trasparenza nella vita democratica interna, passando per Ignazio Marino, Marta Leonori e Stefano Fassina. Il responsabile Economia del Pd è tra l’altro il primo dei non eletti che subentrerebbe al Senato in caso di dimissioni di Lusi (eletto in Liguria). Ma Fassina, mentre già cominciavano a nascere su Facebook gruppi di supporto («metti a Fassina»), ha chiarito: «Chiedo le dimissioni di Luigi Lusi da senatore e mi impegno pubblicamente a non subentrargli al Senato e lasciare il seggio a Brunella Ricci, di Imperia, dopo di me nella lista. Donna e ligure. Un piccolo risarcimento agli elettori liguri del Pd».

L’Unità 02.02.12

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“Ora i democratici facciano chiarezza”, di Francesco CUndari

I contorni del caso che riguarda il senatore del Pd Luigi Lusi, il tesoriere della Margherita accusato di essersi intascato i rimborsi elettorali del suo ex partito, sono ancora tutt’altro che chiari. Non è chiaro, anzitutto, fin dove arrivino le sue responsabilità personali e dove comincino responsabilità politiche o di gruppo. Un aspetto, questo, che sta al Partito democratico, non alla magistratura, spiegare in modo convincente, perché la vicenda investe le radici del partito nato dalla confluenza di Ds e Margherita, la sua stessa genesi.
Ogni ombra va subito dissipata, e non con il fumo di un improbabile rogo purificatore, ma con parole chiare, che devono
venire in primo luogo da chi nel Pd condivideva con Lusi la responsabilità di gestire quel denaro. Ombre che vanno dissipate subito anche perché non si possano confondere con accuse generiche e polemiche strumentali. Certo, il fatto stesso che si parli di fondi pubblici per un partito sciolto ufficialmente da anni non può non scandalizzare, anche se a ben vedere si tratta dei rimborsi per le ultime elezioni cui la Margherita aveva effettivamente partecipato. Da questo punto di vista, però, la rivendicazione di avere «bilanci in attivo» non sembra proprio un’attenuante: la sopravvivenza giuridica di partiti che non si presentano più alle elezioni si giustifica con l’esigenza non d’incassare crediti dallo Stato, ma di pagare i debiti verso fornitori, banche, dipendenti (ci mancherebbe solo che sparissero nel nulla da un giorno all’altro).
Fare chiarezza su questa vicenda è indispensabile anche per potere contrastare credibilmente la campagna contro il finanziamento pubblico della politica. Un argomento di cui si è occupato recentemente anche il Financial Times, in un articolo di Martin Wolf dedicato al dibattito sul «capitalismo in crisi», a partire da una sacrosanta preoccupazione per il rapporto tra ricchezza e politica democratica. «In assenza di difese per la politica ha scritto Wolf il risultato è la plutocrazia». E ancora: «Proteggere la politica democratica dalla plutocrazia è una delle maggiori sfide alla salute delle democrazie». E infine: «La difesa della politica dal mercato si ottiene regolando l’uso del denaro alle elezioni e attraverso l’offerta di risorse pubbliche a chi vi partecipa. Almeno un parziale finanziamento dei partiti e delle elezioni è
inevitabile».
È davvero curioso che a segnalare il rischio che la democrazia possa essere comprata dalla grande ricchezza sia proprio il quotidiano della comunità finanziaria britannica, mentre nell’Italia appena uscita dal ventennio berlusconiano si continua a rimuovere il problema dal dibattito. Ma se non vogliamo che a giovarsi del discredito dei partiti, proprio come nel 92-93, sia un nuovo miliardario ansioso di scendere in campo col suo partito di plastica e i suoi personali mezzi di comunicazione e persuasione, sono i partiti democratici che devono per primi promuovere una riforma di questi meccanismi. A partire dalla piena attuazione dell’articolo 49 della Costituzione, per fare in modo che ogni forma di sostegno pubblico sia indissolubilmente legata non solo a meccanismi certi di trasparenza e rendicontazione delle risorse, ma prima ancora al carattere democratico della vita interna di quei partiti.

L’Unità 02.02.12