attualità, lavoro

“Mettere i giovani al centro del confronto”, di Dario Di Vico

Bisogna saperlo. La trattativa sulla riforma del lavoro che si apre oggi a Roma parte al buio. In passato iniziative di questo tipo erano accompagnate dal lavoro certosino degli sherpa ministeriali e alcuni di loro sono stati delle figure-chiave non solo per l’esito dei negoziati che avevano curato ma più in generale per l’evoluzione delle relazioni industriali italiane. Si parte al buio, dunque, ma in compenso il governo si è dato un calendario plausibile visto che pensa di arrivare a produrre un’intesa grosso modo entro la fine di marzo. Due mesi. Con molta probabilità userà un disegno di legge con delega «aperta» per evitare la doppia insidia del decreto (giudicato eccessivamente decisionista) e del disegno di legge tout court (troppo dilatorio). Un ulteriore e relativamente inedito motivo di conforto viene dal clima cooperativo che si respira tra le tre grandi confederazioni sindacali e tra loro e la Confindustria. Il feeling è così intenso che nei giorni scorsi si era pensato addirittura all’ipotesi di un avviso/documento comune industriali-sindacato che fornisse al governo una sorta di «precotto». Poi, giustamente, ci si è fermati al palo per evitare che il premier Mario Monti e il ministro Elsa Fornero potessero interpretarlo come un documento-diga più che una traccia di lavoro.
Pesati gli elementi negativi e quelli positivi sul piano del metodo, proviamo però a capire qualcosa di più sul merito della trattativa e sulle strade che batterà. Messe da parte, almeno per un momento, le strategie dei protagonisti, sarà utile fare riferimento anche alle attese dell’opinione pubblica. Se infatti si vuole superare una pratica della concertazione ristretta alla sola soddisfazione delle parti sociali varrà la pena chiedersi cosa si aspettano dal «tavolo lavoro» coloro che non sono rappresentati, gli outsider. E la risposta è sin troppo facile: attendono decisioni che favoriscano l’occupazione e insieme correggano i rapporti di lavoro. E allora perché il governo non prova a calare un asso nel negoziato, a mettere subito al centro del confronto «le vitamine per i giovani» (copyright di Tiziano Treu) o, come si dice in gergo, le politiche attive del lavoro? In concreto, attingendo ai nuovi fondi europei per la crescita si può portare al tavolo un programma immediato capace di avviare al lavoro, con lo strumento dell’apprendistato, un numero consistente di giovani? Per carità è solo un suggerimento ma prima di scartarlo il governo dovrebbe vedere se esistono le condizioni per varare un programma di questo tipo. Ci fosse anche solo uno spiraglio…
Una buona partenza potrebbe contribuire a smussare gli angoli e a motivare le parti sociali in direzione della discontinuità. È vero che Cgil, Cisl e Uil fino ai primi di marzo sono in campagna elettorale per il rinnovo delle Rsu del pubblico impiego e della scuola e quindi saranno estremamente prudenti nel fare concessioni. Ed è altrettanto vero che la corsa al dopo-Marcegaglia ha visto finora (e purtroppo) i due maggiori candidati battagliare sostanzialmente su un unico punto, la rimozione o meno dell’articolo 18. L’una e l’altra coincidenza potranno condizionare l’atteggiamento delle parti sociali al tavolo e nell’incertezza spingerle alla scelta più facile, quasi inerziale. Sarebbe un errore e lo pagheremmo tutti.
Il governo ha pienamente ragione nell’indicare con forza la via delle riforme strutturali, si devono correggere le storture che hanno creato quel mix disastroso fatto di bassa crescita e largo precariato. Nell’ultima apparizione televisiva ad Otto e mezzo il ministro Fornero ha fatto capire di essere disposta a considerare l’ipotesi di una sfasatura temporale tra i nuovi regimi che saranno stati concordati e la loro effettiva entrata in vigore. Bruxelles con tutta probabilità non avrebbe niente da ridire e le parti sociali più tempo per digerire le novità. Un esempio su tutti, la delicata questione della riforma della cassa integrazione straordinaria. Una forzatura del governo e un timing non opportunamente governato porterebbero ad abolirla proprio nel momento in cui le esigenze di ristrutturazione delle aziende si fanno più impellenti. È pensabile che avvenga e che addirittura convenga? Certo che no. E Monti non può non saperlo.
P.S. Se in una delle sedute del «tavolo lavoro» si trovasse tempo per esaminare i risultati della contrattazione aziendale se ne ricaverebbero input di sicuro interesse.

Il Corriere della Sera 02.02.12