attualità, politica italiana

"La possibilità di cambiamento adesso è reale", di Bill Emmott

Il tempo, si dice, è un gran dottore, ma il modo in cui l’immagine dell’Italia all’estero si è trasformata nei tre mesi passati tra le dimissioni del presidente Silvio Berlusconi il 12 novembre e l’odierna visita del presidente Mario Monti alla Casa Bianca è stato a dir poco miracoloso. Mi dispiace di essere sacrilego, ma, come molti miracoli, questo è un po’ un’illusione. Tuttavia, le illusioni sono importanti, e così, per questo miracolo, valgono tre parole: centralità, verità e possibilità.

Il miracolo è un’illusione perché un Paese non può cambiare così tanto in tre mesi.

Questo punto di vista non nasce, vi assicuro, perché io sia il tipo di scrittore straniero che preferisce pensare che la Costa Concordia rappresenti l’Italia meglio del presidente Monti: sarebbe assurdo. Piuttosto, si pone perché nessuno, e nessuna nuova legge o misura di bilancio, può cambiare una situazione così velocemente.

La maggior parte delle riforme economiche e istituzionali che sono necessarie non sono state ancora convertite in legge, figuriamoci attuate. E chiaramente resta una quantità enorme di resistenza ai cambiamenti che vengono proposti, in tutti i campi, sia il diritto del lavoro o la disciplina fiscale o la liberalizzazione dei mercati e delle professioni. Non si può assolvere un peccatore che non si è pentito, ha scritto Dante Alighieri, ed è tutt’altro che chiaro se il pentimento ci sia stato.

Anche così, la questione del cambiamento di rotta italiano ha raggiunto uno status di centralità, per questo il presidente Barack Obama sente il desiderio di incoraggiarlo. Per centralità si intende la percezione che il destino dell’Italia e il suo futuro siano improvvisamente importanti per il futuro dell’Europa e, a sua volta, per il futuro dell’Occidente nel suo complesso. Questo è precedente al 12 novembre, ma è diventato più urgente che mai in quel mese così caldo per i mercati obbligazionari.

Come i mercati obbligazionari avevano riconosciuto allora, l’Italia conta, tanto per gli americani come per i colleghi europei, prima di tutto per le sue dimensioni: sia come terzo maggior governo debitore al mondo (dopo America e Giappone) che come terza maggiore economia dell’eurozona (dopo Germania e Francia), una crisi del debito sovrano e una profonda recessione in Italia sarebbero veramente pericolose per tutti i Paesi ad essa strettamente legati, il che significa Europa e America.

L’ombra di una tale crisi è diventata più minacciosa a causa della crescente aspettativa di un default del debito greco, un’aspettativa che sta di nuovo crescendo. Questo non si traduce in rendimenti pericolosamente elevati dei titoli obbligazionari italiani, soprattutto perché un altro italiano assai stimato, Mario Draghi alla Banca centrale europea, ha scongiurato il pericolo di una crisi bancaria europea con la sua tempestiva e massiccia offerta alle banche di prestiti illimitati a tre anni.

L’Italia, però, è centrale anche per motivi diversi dal suo essere semplicemente una pericolosa bomba a orologeria economica. In primo luogo perché la sua stagnazione e paralisi politica nel corso degli ultimi 20 anni si presenta al resto dell’Occidente come un duro avvertimento ma anche come un’opportunità.

L’avvertimento riguarda il possibile lento, inesorabile declino se l’onere del debito non viene affrontato e se un’economia e una società perdono la capacità di evolversi, di cambiare, il tratto essenziale che i Paesi capitalisti democratici devono avere se vogliono sopravvivere e prosperare in questa epoca di grande fermento tecnologico e politico. L’opportunità, tuttavia è quella della ripresa e del rinnovamento, persino di un rinascimento, se la liberalizzazione s’impone e riprende un’evoluzione dinamica.

Se l’Italia potrà tornare a essere un’economia di mercato trainante, come durante gli Anni 50 e 60, allora c’è speranza per l’Europa e l’Occidente. Se non sarà possibile, gli oneri per gli altri Paesi saranno maggiori e più deboli le loro possibilità di successo.

L’Italia è strategica anche per la ragione che, in termini personali, stava dietro il famoso titolo di copertina «Inadatto a governare l’Italia», che volli quando ero direttore di The Economist, nel 2001. Ovvero che, durante vent’anni di politica dominata da Silvio Berlusconi, l’Italia ha reso evidente il pericolo che un governo democratico diventi ostaggio di grandi aziende, dei media e del potere personale. Le leggi vengono applicate iniquamente e piegate all’uso personale, il normale ruolo di regolamentazione del governo è sovvertito, la Costituzione è minata, e il flusso di informazioni è gravemente distorto.

Questo è importante – ancora oggi – soprattutto per l’Italia medesima, ma è anche esattamente la stessa preoccupazione che sovrasta la politica americana quando qualcuno si lamenta del potere di Wall Street o delle grandi compagnie petrolifere, o di altri lobbisti. È la paura corrosiva che lo strapotere possa distorcere o addirittura guidare le decisioni democratiche. La fine, almeno, di quel potere che aveva occupato Palazzo Chigi, è di grande importanza simbolica per le altre democrazie occidentali.

Uno degli effetti di quel potere, tuttavia, è la seconda parola determinante per questo miracolo: verità. Altri governi in Europa e certamente gli Stati Uniti sono giunti alla conclusione che non potevano fidarsi della parola dell’Italia con il governo Berlusconi. Non era il caso delle questioni militari, motivo per cui l’amministrazione Bush era cordiale con l’Italia, grazie ai dispiegamenti militari in Iraq e in Afghanistan. Ma valeva per tutto il resto.

Annunci, promesse, affermazioni, dichiarazioni d’intenti: i governi stranieri erano arrivati ad attribuire loro la credibilità di uno spettacolo teatrale. E’ stato triste vedere il presidente Berlusconi perseverare in questa abitudine nella sua intervista con il Financial Times, pubblicata il 4 febbraio, dove ha di nuovo fatto la sua promessa, impossibile da credere, di lasciare la politica in prima linea, ripetuto le sue incredibili smentite sul bunga-bunga, solo per tenere quella frase agli occhi dell’opinione pubblica, e reiterato gli attacchi alla Costituzione italiana che mettono in risalto l’inadeguatezza del suo potere.

Sono stato particolarmente colpito da quell’intervista, bisogna ammetterlo, perché recentemente sono stato trascinato nel solito balletto dal presidente Berlusconi in persona. A dicembre, a un evento al Quirinale, quando gli avevo detto che stavo girando un documentario sull’Italia, aveva detto spontaneamente che «era a mia disposizione» per un’intervista. In seguito ha negato di aver mai offerto una intervista filmata, sostenendo che doveva essere stato un malinteso.

Al contrario, ogni parola che dice il presidente Monti è ritenuta degna di fede dai governi stranieri. Sanno che affronta enormi difficoltà. Ma pensano che valga la pena di parlargli e di sostenerlo, perché possono credere a ciò che dice.

E questo ci porta alla possibilità. L’illusione della trasformazione miracolosa dell’immagine dell’Italia è che certamente l’Italia non si è trasformata, né è fuori pericolo dal punto di vista finanziario o economico. La recessione peggiorerà le finanze pubbliche, rendendo più che possibile il varo di un altro pacchetto di misure fiscali entro la fine dell’anno se si devono continuare a sostenere i mercati obbligazionari e a ottemperare agli obiettivi di bilancio della zona euro. La liberalizzazione e la riforma del lavoro sarà difficile da attuare, e ci vorranno molti anni perché abbia un effetto significativo sulla crescita economica. Tanto la parte politica come quella economica di questo processo sono irte di pericoli.

Ma ciò che è cambiato è che ora c’è una reale possibilità di cambiamento. C’è qualcosa da sollecitare e in cui sperare. Il governo Monti, e il sostegno parlamentare e pubblico che lo circondano, rappresentano per l’Occidente una luce brillante di possibilità in un paesaggio altrimenti oscuro. Alla fine, il Paese che ha più o meno inventato il capitalismo moderno, che ha dato origine al Rinascimento che ha prodotto l’uomo moderno, si sta risvegliando dopo un lungo sonno catatonico. Questa è una buona ragione per prestare attenzione, e offrire un caloroso benvenuto a Washington.

traduzione di Carla Reschia

La Stampa 09.02.12