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Liberalizzazioni, l’Anci contro il governo: «Si stronca la cultura», di Luca del Fra

Semplicemente non ci stanno, e lanciano un grido d’allarme per la cultura: parliamo dell’Associazione Nazionale Comuni Italiani (Anci), di Federculture e del Fondoper l’Ambiente Italiano, che ieri in un incontro stampa a Roma hanno denunciato come il decreto legge n. 1/2012 del governo Monti, detto delle liberalizzazioni, nel settore culturale invece di liberare energie paradossalmente pone nuovi e pesanti limiti all’azione dei Comuni.
«Chiediamo un incontro con il governo, perché questo provvedimento prosegue nella direzione impressa da Tremonti con la legge 122 del 2010 – esordisce Andrea Ranieri, responsabile del settore cultura dell’Anci – e avrà effetti pesanti su quanti si occupano di cultura sul territorio».
«UN PARADOSSO»
L’articolo 25 del decreto prevede che le società “in house” – società a capitale pubblico – e le aziende speciali degli enti locali siano equiparate agli enti pubblici, con l’obbligo di osservare il patto di stabilità, il codice dei contratti pubblici per l’acquisto di beni e servizi, le procedure a evidenza pubblica per il personale e il contenimento degli stipendi.
Questo vale per la società dei trasporti come per uno spazio espositivo: ma se è comprensibile che un autista di autobus sia assunto per concorso, nel settore della cultura si giunge a strane conseguenze.
Un curatore che proponesse una mostra a uno spazio del Comune, per realizzarla dovrebbe partecipare a un bando e potrebbe rimanere escluso, malgrado l’idea sia sua. Senza considerare i tempi lunghi e i costi delle evidenze pubbliche,
in un settore che in Italia «non può programmare il proprio futuro né confrontarsi a livello internazionale senza un rinnovamento nelle politiche culturali», ha voluto ricordare il presidente di Federculture, Roberto Grossi. «Le società in house e le aziende speciali nel settore della cultura sono nate per rendere più snella l’attività – insiste Ranieri -, e questo decreto pone ulteriori limitazioni, non recependo la loro specificità. L’economia non è fatta solo di “spread” e di andamenti di borsa, esiste una economia reale che si realizza nel territorio. Questo decreto legge in generale è recessivo e per la cultura può avere effetti disastrosi, visto che nel settore culturale a fronte di un investimento di appena lo 0,20% del bilancio dello Stato, i Comuni investono il 3,5 dei loro bilanci».
«UNA NORMA CAPESTRO»
Eppure il governo Monti si era fatto un vanto di non aver tagliato nella cultura e nella scuola o nell’università… «Si vede che vuol far tagliare ai Comuni, perché così gli enti locali non sono più in condizione di operare», è la convinzione. Tuttavia è opinione diffusa che nel settore cultura,manon solo, molte società in house siano spesso il luogo per operazioni opache se non di disinvolto clientelismo da parte delle amministrazioni
locali. «È vero – dice Umberto Croppi, del consiglio direttivo di
Federculture, forte della sua esperienza come assessore alle politiche culturali del Comune di Roma –, ma occorre prendersela con le amministrazioni, non creare una normativa capestro che immobilizzi tutto».
Gli fa eco Ranieri: «Proprio per questo chiediamo al governo un serio confronto. Prendiamo a esempio il settore sociale: Comuni e governo hanno stabilito i servizi fondamentali. Facciamo lo stesso per la cultura, noi vogliamo dare il nostro contributo». È significativo infatti come la prossima iniziativa dell’Anci il 9 marzo sia stata indetta con l’Associazione
Italiana Biblioteche, che certo non organizza eventi spettacolari che piacciono tanto a certi sindaci. «La cosa più grave – conclude Ranieri – è che nella discussione sullo sviluppo del Paese aperta dal governo Monti la cultura non c’è, e non c’è neppure nel dibattito politico».

L’Unità 09.02.12

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Ricchezza e lavoro così la cultura aiuterà il mercato”, di LUISA GRION

La cultura è ricchezza, anche economica. Peccato che il governo nella sua opera di risanamento non sembra abbia intenzione di tenerne conto. E non si tratta solo di mancati investimenti – in calo da anni – o di storica carenza di strategia: serve un cambio di mentalità. Ci sono poche cose da fare subito e c´è un luogo comune da sconfiggere: la cultura non è un costo, al contrario – in tempi di crisi – rappresenta una possibilità di crescita. Ecco perché Federculture (che rappresenta le aziende che operano nel settore) il Fondo ambientale italiano e l´Anci, l´associazione dei comuni, hanno lanciato un appello al governo Monti chiedendogli di fare alcune riforme (meno burocrazia, più agevolazioni fiscali e una spinta agli investimenti dal privato) e di cancellare alcune norme, inserite nel decreto sulle liberalizzazioni, che rischiano di dare al settore «un colpo mortale».
Volendo tradurre il discorso in cifre va detto che, nonostante la crisi, la cultura resiste. Produce il 2,6 per cento del Pil e occupa 1,4 milioni di lavoratori. Negli ultimi due anni ha subito un taglio degli investimenti pubblici per un miliardo di euro, ma nonostante la scarsità di reddito pesi sui consumi delle famiglie, la «domanda» del settore è aumentata nel 2011 di oltre il 4 per cento. Garantire l´offerta, sostengono gli operatori, è diventato arduo. Alla carenza di investimenti (fra il 2010 e il 2011 le sponsorizzazioni sono crollate del 30 per cento) si aggiunge il rischio dell´immobilismo. Il decreto sulle liberalizzazioni, per esempio, prevede che le aziende speciali, quelle in house e le istituzioni – strutture «snelle» attraverso i quali un ente fa cultura – siano sottoposti a vincoli finanziari e burocratici che di fatto bloccano la possibilità di programmare mostre e interventi con l´anticipo dovuto. «Senza autonomia gestionale la cultura muore – precisa Roberto Grossi, presidente di Federculture – Senza interventi nei prossimi sei mesi il settore rischia un crollo del 20 per cento». «La cultura è anche un settore economico – denuncia Grossi – ma spesso viene vissuta solo come un costo, o peggio ancora come una fila di poltrone da occupare». Il problema appartiene anche agli enti locali: «I comuni, in media, investono in cultura il 3,5 per cento della loro ricchezza, lo Stato si ferma allo 0,19. Siamo pronti a ragionare su sprechi ed efficienza – commenta Andrea Ranieri dell´Anci – ma non vogliamo interventi indiscriminati». Quello che le tre associazioni chiedono è molto pratico: una programmazione pluriennale dei fondi, parte della tassa di soggiorno destinata ai beni culturali, allineare l´Iva del settore a quella degli altri paesi europei, permettere che l´8 per mille possa essere destinato alla musica e al teatro, dare la possibilità di scegliere l´ente culturale cui destinare il 5 per mille. Cose da fare subito perché non bisogna dimenticare – specifica Ilaria Borletti Buitoni, direttrice del Fai – «che attraverso la cultura cresce il valore morale, civile ed etico del Paese. Non basta risistemare i conti, serve uno “scatto”, ma senza cultura non si riparte».

La Repubblica 09.02.12