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"Perché Barack ha bisogno di noi", di Francesco Guerrara

In America, lo chiamano «the perfect storm», l’uragano perfetto che sta inondando gli Usa con posti di lavoro e crescita. Una confluenza di fattori inaspettata – salari bassi, imprese con molti soldi e consumatori pronti di nuovo a spendere – ha fatto ripartire l’economia più grande del pianeta, dato respiro ai mercati e aumentato le chance che Barack Obama non debba traslocare dalla Casa Bianca a novembre.

Senza l’Europa, però, l’uragano non sarà perfetto. L’America ed il suo Presidente devono sperare che il vagone più importante trainato dalla locomotiva Usa non venga deragliato da crisi rovinose e beghe politiche. Le parole calorose di Obama nei confronti della leadership politica europea – compresa la professione di gran stima nei confronti di Mario Monti in questo giornale – non sono del tutto disinteressate.

Nel mondo della globalizzazione, nessun Paese è un’isola e gli Usa e l’Europa sono legati da relazioni commerciali che ne fanno compagni di viaggio inseparabili. Anche se le traiettorie economiche sono divergenti: l’America è in ripresa mentre l’Europa soffre la recessione.

L’ America guarda avanti, con i suoi Facebook, Google e Apple, mentre il vecchio continente si lecca le ferite e contempla senza gioia anni ed anni di austerità per rimettere in sesto i conti.

Ma la relazione è simbiotica. Per Obama e l’America, la ripresa si trasformerà in vera crescita solo e se l’Europa starà fuori dai guai e ricomincia a comprare i prodotti e servizi made in Usa.

I numeri provenienti dagli Stati Uniti non sono affatto male. La crescita è ai livelli più alti in un anno e mezzo – il Pil statunitense è salito del 2.8% negli ultimi tre mesi del 2011. Timothy Geithner, il ministro delle Finanze, ha detto di recente che nel 2012, l’economia potrebbe crescere del 3%. Non è la Cina o l’India, ma nemmeno l’Italia o la Grecia.

Il dato più importante per la Casa Bianca non è però il Pil ma il tasso di disoccupazione – il tallone d’Achille dell’economia Usa e l’area in cui Obama è più vulnerabile dagli attacchi dei candidati Repubblicani, soprattutto un ex finanziere come Mitt Romney.

Anche su questo fronte, però, ci sono state buone notizie. A gennaio, il tasso di disoccupazione è calato all’8.3%, il livello più basso nell’arco dell’amministrazione Obama. Il trend è ancora più gratificante per gli uomini del Presidente: sono ormai cinque mesi di fila che la disoccupazione cala e gli esperti pensano che la tendenza continuerà nei prossimi mesi. Un bell’assist per un Presidente che dovrà andare a vincere voti nel Midwest – il cuore recondito e destrorso degli Stati Uniti dove l’industria manifatturiera regna sovrana. O nel Sud, dove la povertà abbonda e i posti di lavoro sono spariti come neve al sole nel corso degli ultimo decenni.

E’ per questo che, in visita ad una stazione dei pompieri in Virginia di recente, Obama ha preso la palla al balzo e ricordato a tutti che «la ripresa sta accelerando», prima di ammonire che «non si può ritornare alle politiche economiche che hanno causato la recessione».

Belle parole, espresse con il solito piglio oratorio di Obama, vero erede di Demostene, ma che serviranno a poco se la ripresa si ingolfa o smette di tirare.

Ed è qui che l’Europa conta. Analizzando i dati della crescita Usa è ovvio che gran parte delle buone nuove sono concentrate sul fronte interno. Fino ad ora, le imprese che hanno assunto più lavoratori sono prettamente domestiche, settori come i ristoranti, la sanità (che in America è quasi tutta privata) e i servizi professionali (gli avvocati, i notai e le segretarie).

L’industria manifatturiera – uno dei motori dell’economia Usa – non ha partecipato alla festa. Le imprese che producono beni, invece di servizi, hanno recuperato solo 400.000 dei 2 milioni e mezzo di posti di lavoro che hanno perso dall’inizio della crisi Usa.

Ed all’interno del settore, le società che vanno bene sono quelle che si affacciano sul mercato interno, come le «tre grandi di Detroit» – le case automobilistiche, compresa la «nostra» Chrysler – che tutti avevano dato per morte nel 2007-2008.

Non c’è simbolo più concreto della rinascita di Detroit dello spot lanciato dalla Chrysler la settimana scorsa a metà del Super Bowl – la finale del torneo di football Americano che è lo spettacolo più visto negli Stati Uniti. La voce rauca di Clint Eastwood che annuncia: «Siamo all’intervallo America. Rinasceremo nel secondo tempo».

Ma il risultato non dipenderà solo dall’America. Per continuare a trainare – e a ridurre la disoccupazione – gli Usa hanno bisogno di esportare e di esportare in Europa, visto che l’Asia compra poco dall’Occidente.

Al momento, i consumatori italiani, spagnoli e persino francesi e tedeschi non ne vogliono sapere. La crisi economica li sta costringendo a tirare la cinghia e a risparmiare i loro euro.

E’ una dicotomia che racchiude il dilemma economico transatlantico. Il «feelgood factor» – la spinta ai consumi del sentirsi bene – che sta aiutando l’economia Usa è assente dalla depressa, preoccupatissima Europa.

L’uragano perfetto non ha ancora attraversato l’Atlantico.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario per il Wall Street Journal a New York
Francesco.guerrera@wsj.com

La Stampa 10.02.12