attualità, lavoro, politica italiana

“La battaglia per cambiare”, di Claudio Sardo

Mario Monti ha deciso lo strappo. Non era obbligato a farlo. Anzi, il suo mandato di affrontare l’emergenza economica nel segno della massima unità possibile suggeriva un’altra strada: quella che Ciampi seguì per il «patto sociale» nel ’93. Monti ha compiuto una scelta politica, non tecnica. E ora politica deve essere la risposta: questa riforma dell’art. 18 non è accettabile e va cambiata.
Non è accettabile anzitutto per una ragione di giustizia: se un lavoratore viene licenziato illecitamente, perché il giudice non può comunque disporre il reintegro e deve limitarsi a fissare l’indennizzo? Così il datore di lavoro è nelle condizioni di decidere in modo arbitrario la fine di un rapporto, rischiando al massimo qualche mensilità aggiuntiva.
̀ chiaro che ciò modificherebbe in profondità le relazioni interne a un’impresa, in senso sfavorevole alla dignità e ai diritti del lavoratore: e si può sostenere credibilmente che questo sacrificio sia davvero funzionale a una crescita della produttività, o della competitività del sistema, o degli investimenti esteri, o della fiducia dei mercati, o delle assunzioni dei giovani? Tutti gli indicatori dicono di no. Del resto, su basi molto empiriche, siamo già testimoni del fatto che nelle piccole imprese italiane, nonostante la piena libertà di licenziamento per motivi economici, non ci sia alcuna corsa a nuove assunzioni, né migliore reattività alla crisi.
Tuttavia lo strappo del governo è grave anche sul piano politico, perché sul suo tavolo era possibile comporre un accordo innovativo di grande valore, paragonabile a quello del ’93 sul superamento della scala mobile. In questo complesso negoziato sul mercato del lavoro dove, va detto, accanto a questa soluzione pericolosa, a problemi e lacune, ci sono anche interventi promettenti sugli ammortizzatori sociali e sulla riduzione della precarietà Monti e la ministra Fornero si sono trovati di fronte a una disponibilità inedita dei sindacati, pure in tema di flessibilità in uscita. La disponibilità riguardava l’adozione del «modello tedesco», affidando appunto al giudice la scelta tra reintegro e indennizzo, qualora il licenziamento per motivi economici si rivelasse immotivato. Chi può negare il valore di questa apertura, giunta anche dalla Cgil? Attualmente l’articolo 18 prevede il reintegro nel posto di lavoro come unica sanzione al licenziamento senza giusta causa (e ciò talvolta finisce per essere una limitazione per lo stesso lavoratore, soprattutto quando le cause si protraggono a lungo nel tempo). Se dunque i «mercati» volevano il segno di un cambiamento, il governo avrebbe potuto esibirlo comunque. Anzi, poteva mostrarlo con il rafforzativo della coesione sociale.
Invece Monti ha voluto forzare, scegliendo la soluzione che avrebbe portato alla rottura certa almeno con la Cgil. Come si giustifica il governo? Che il «patto sociale» non ci sarebbe stato in ogni caso nelle forme del ’93, perché difficilmente le parti sociali avrebbero firmato un documento comune. Purtroppo è vero che la mancata definizione di una proposta unitaria Cgil-Cisl-Uil sull’articolo 18 è stata un colpo per gli interessi del mondo del lavoro. Tuttavia queste difficoltà non possono costituire un alibi «tecnico» per il premier. Se i sindacati non sono stati capaci, per varie ragioni (non ultima la pesante eredità della stagione berlusconiana), di rispondere a pieno all’appello del Capo dello Stato, non per questo Monti doveva sottrarsi al proprio dovere di cercare fin dove possibile l’accordo. O comunque di ridurre al minimo le distanze. Il modello tedesco cioè la soluzione giuridica che la Germania adotta in tema di licenziamenti ingiusti era a portata di mano. Per questo la ragione politica della scelta prevale su ogni altra.
E per lo stesso motivo la questione non può considerarsi chiusa. Quella norma va cambiata. Prima che arrivi in Parlamento. O in Parlamento. Non sarà soltanto una battaglia sindacale. Le forze di centrosinistra possono ritrovare un feeling con il loro popolo: e dimostrare così il segno reazionario delle tesi su «i tecnici buoni e i partiti cattivi». Peraltro è in gioco il profilo del governo: se la sua natura sia ancora riconducibile a un impegno di unità nazionale oppure se stia prevalendo la forza di attrazione dei governi europei di centrodestra (che oggi temono l’emergere di un’alternativa progressista a partire dalle elezioni francesi). Nessuno può sostenere in buona fede che una simile battaglia per riportare il governo Monti dalla linea dello strappo a quella della coesione avrebbe un esito di conservazione. Fino a ieri il modello tedesco era la bandiera dei riformisti: fare come in Germania (magari non solo in tema di flessibilità) è un buon obiettivo per un centrosinistra che voglia difendere il modello sociale europeo. Se Monti invece intende compiere il salto dalla Germania ai modelli anglosassoni, in nome di un maggior tasso di liberismo, lo dica. Sarà tutto più chiaro. Il centrosinistra è stato molto leale con lui. Ora tocca al premier.

L’Unità 22.03.12