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“Diliberto, Grillo e i cattivi esempi”, di Michele Brambilla

Beppe Grillo, che una volta faceva ridere, ieri ha messo sulla home page del suo sito una foto di Mario Monti all’interno di una cassa da morto con scritto «articolo 18». Forse per mandare un altro segnale subliminale, la bara ha la forma di un’automobile. A scanso di equivoci, comunque, il presidente del Consiglio viene chiamato Rigor Montis. Vedere trasformato chi la pensa diversamente in un cadavere fa parte ahimè di una consolidata tradizione di un nostro manicomio tutto italiano. Negli anni Settanta si gridava «carabiniere basco nero il tuo posto è al cimitero», oggi girano t-shirts che al cimitero vorrebbero mandare il ministro Elsa Fornero, e qualcuno pensa che siano divertenti perché c’è anche la rima.

Tra costoro c’è evidentemente Oliviero Diliberto, segretario nazionale dei Comunisti italiani, che l’altro giorno si è fatto fotografare, appunto, abbracciato a una democratica signora che indossava la maglietta nera con la scritta «Fornero al cimitero». Non è chiaro se sia più grave quell’abbraccio o la grottesca giustificazione («Non mi ero accorto della scritta») che Diliberto ha balbettato quando ha visto la foto sui giornali: ieri è stato diffuso un video che lo sbugiarda, per ben 5 minuti e 49 secondi il segretario dei Comunisti ha la scritta davanti agli occhi.

Ma forse la cosa più grave è ancora un’altra. È il fatto che simili inviti a scomparire vengano rivolti ai rivali politici non più, come quarant’anni fa, dagli estremisti in piazza: ma da uno che si sta presentando alle elezioni con le sue cinque stelle in nome della moralità, e da un altro che è stato perfino ministro di Grazia e Giustizia. Così come era stato ministro Bossi, che pochi giorni fa aveva anticipato Grillo annunciando il funerale di Monti. Davvero non c’è un altro linguaggio possibile, in Italia, per fare opposizione?

Ci eravamo appena rallegrati per la fine del clima da rissa tra i partiti, e ora ci ritroviamo a rivivere le parole di piombo degli anni formidabili.

La Stampa 23.03.12