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“Senza crescita, quale lavoro?”, di Patrizio Bianchi

Il difficile e faticoso tavolo della riforma del lavoro ha dimostrato, ancora una volta, la contraddizione in cui il Paese continua a muoversi. Si vuole regolare il lavoro, ma non vi è lavoro, perché non vi è crescita. Per tutto il 2012 infatti si protrarrà questa situazione di stagnazione. O meglio di recessione «tecnica», come dicono gli economisti, a cui non è certo estranea la massiccia manovra finanziaria, che per risanare in tempi rapidi il debito pubblico, di fatto rischia di bloccare quell’attività economica che dovrebbe sostenere questo risanamento nel tempo. Rinviando al Parlamento la soluzione definitiva del difficile problema delle nuove regole per assumere e licenziare, il governo dovrebbe aprire immediatamente un tavolo «sviluppo», in cui ascoltare tutte le parti almeno per comunicare le linee di un piano di crescita, che sia «intelligente, inclusivo, e sostenibile», come si dice oggi in Europa, ricomponendo in una unica visione tutti i diversi e non sempre comunicanti temi di discussione aperti in questi mesi. In particolare appare necessario che il governo dia il quadro completo dei diversi investimenti pubblici che intende avviare, perché è evidente che bisogna ridare prospettiva ad un’economia che non può certo avere come orizzonte temporale la durata dello stesso governo. Bisogna capire come sostenere gli investimenti privati e quindi come spingere le banche ad erogare quel credito che le imprese oggi sostengono essere dato con il contagocce ed a caro prezzo. Sappiamo bene che la liquidità immessa nel sistema dalla Banca centrale europea è servita largamente per consolidare lo stesso capitale delle banche e quindi riallineare i rapporti tra mezzi propri e credito erogato ai parametri richiesti dai vecchi e nuovi accordi di Basilea. Ma è altrettanto certo che la capacità di indirizzare il credito verso il riavvio degli investimenti sia oggi uno dei punti cruciali per superare la crisi e rilanciare l’economia. Il governo deve inoltre delineare una ragionevole strategia per il rilancio dei consumi, segnati sia dal prolungarsi della crisi, ma anche dalle stesse azioni di risanamento del debito. Permettere alle famiglie di disporre di più capacità di spesa, diviene parte essenziale di questo piano di sviluppo. Questo piano può comunque funzionare solo se contestualmente sia gli investimenti pubblici, che quelli privati, sia i consumi delle pubbliche amministrazioni che quelli delle famiglie vengono rapidamente riqualificati, divenendo traino per innovazione e sostenibilità. Così come viene predicato in quella stessa Europa che per un verso sembra orientata a sostenere crescite intelligenti e per altro sembra invece il cieco esattore, tutto rivolto a rastrellare oggi, indifferente al domani. Un piano condiviso per lo sviluppo richiede quindi un quadro di riferimento sulle regole per il lavoro, ma anche un piano altrettanto chiaro sulle regole per la crescita del sistema, delineando una strategia per lo sviluppo del nostro sistema produttivo. Le parole chiave sono certamente sottoscritte da tutti, essendo innovazione, internazionalizzazione, qualità. Ma non è stato ancora chiarito a sufficienza che le imprese che oggi stanno crescendo, e che stanno seguendo questa semplice e nel contempo difficile ricetta, sono ancora troppo poche nel panorama nazionale e che il primo obiettivo di politica industriale è aumentare il numero dei giocatori capaci di fare goal nel mercato globale. Un piano di questa natura e di queste ambizioni deve essere comunque condiviso con tutti gli attori che vogliono e debbono giocare insieme per lo sviluppo del Paese, altrimenti la fiducia sulle liberalizzazioni, lo scontro sul lavoro, gli interventi sul debito sembrano essere rese dei conti con il passato, piuttosto che un investimento collettivo sul futuro.

L’Unità 24.03.12