attualità, lavoro, politica italiana

“Così non si combatte la piaga del precariato”, di Luciano Gallino

Lo scopo più importante di una riforma del mercato del lavoro dovrebbe consistere nel ridurre in misura considerevole, e nel minor tempo possibile, il numero di lavoratori che hanno contratti di breve durata, ossia precari, quale che sia la loro denominazione formale. Per conseguire tale scopo sarebbe necessario comprendere anzitutto i motivi che spingono le imprese a impiegare milioni di lavoratori con contratti aventi una scadenza fissa e breve. Di un esame di tali motivi non sembra esservi traccia nelle dichiarazioni e nei testi provvisori rilasciati finora dal governo, tipo le “Linee di intervento sulla disciplina delle tipologie contrattuali” o le modifiche annunciate dell´art. 18. Meno che mai si parla di essi nella miriade di articoli che ogni giorno commentano i passi del governo. Pare stiano tutti mettendo mano alla riparazione urgente di un complesso macchinario rimasto bloccato, senza avere la minima idea di come funziona e com´è fatto dentro.
Si suole affermare che le imprese fanno un uso smodato dei contratti di breve durata – in ciò incentivati da leggi e decreti sul mercato del lavoro emanate dal 1997 al 2003 e oltre – perché costano meno. Ma non è affatto questo il motivo principale. Le imprese ricorrono a tali contratti, sia pure in misura variabile da un settore all´altro, soprattutto perché essi permettono di adattare rapidamente la quantità di personale impiegato, in più o in meno, alla catena produttiva, organizzativa e finanziaria in cui si trovano ad operare. Nel corso degli anni l´hanno scientificamente costruita loro stesse, la catena, finendo tuttavia per diventarne schiave. Ogni impresa è ormai soltanto un anello che dipende da tutti gli altri. Nessuna impresa produce più nulla per intero al proprio interno, si tratti di un elettrodomestico, un mobile o un servizio pubblicitario. Ciascuna aggiunge un po´ di lavoro a manufatti o servizi che sono già stati lavorati in parte da imprese a monte, quasi sempre situate in Paesi differenti, e saranno ulteriormente lavorati da un´impresa a valle, in altri Paesi. Questo modo di produrre comporta che la regolare attività di ogni impresa dipende da qualità, prezzo, puntualità di consegna di quel che le arriva dalle imprese a monte, non meno che dalla disponibilità delle imprese a valle ad accettare qualità, prezzo, puntualità di quel che essa consegna loro. Per cui l´imperativo di ciascuna è diventato “assumi meno che puoi, appalta ad altri tutto ciò che ti riesce.”
Oltre a questa intrinseca dipendenza da ciò che fanno gli anelli che la precedono come da quelli che la seguono, ciascuna impresa sa bene di essere oggetto di continue e implacabili valutazioni di ordine finanziario. Il suo prodotto intermedio può anche essere di buona qualità e rendere elevati utili; nondimeno se sullo schermo di un qualche computer compare che nello Utah, in Pomerania o in Vietnam c´è un´impresa che fa la stessa lavorazione a minor costo, o con maggiori utili, è molto probabile che le commesse spariscano, o arrivi dall´alto l´ordine di chiudere.
A causa dei suddetti caratteri le catene globali di creazione del valore, come si chiamano, hanno accresciuto a dismisura l´insicurezza produttiva e finanziaria in cui le imprese, non importa se grandi o piccole, si trovano ad operare. Più che mai ai tempi di una crisi che dura da anni, e promette di durarne molti altri. Un rimedio però è stato trovato, con l´aiuto del legislatore dell´ultimo quindicennio: utilizzando grossi volumi di contratti precari le imprese hanno trasferito l´insicurezza che le assilla ai lavoratori. Fa parte di quelle politiche del lavoro chiamate globalizzazione. Quando i rapporti con gli altri anelli della catena vanno bene, un´impresa assume personale mediante un buon numero di contratti di breve durata; se i rapporti vanno male, non rinnova una parte di tali contratti, o magari tutti, senza nemmeno doversi prendere il fastidio di licenziare qualcuno.
A fronte di simile realtà strutturale, che riguarda l´intero modello produttivo e la sua drammatica crisi, è dubbio che la riforma in gestazione, salvo modifiche sostanziali in Parlamento, risulti idonea a ridurre il tasso di precarietà che affligge milioni di lavoratori, e meno che mai a farlo presto. In effetti potrebbe intervenire una sorta di scambio perverso: le imprese riducono di qualcosa l´utilizzo dei contratti atipici di breve durata, a causa dell´aumento del costo contributivo previsto dalle citate linee di intervento; però grazie allo svuotamento sostanziale dell´articolo 18, perseguito dal governo con una tenacia che meriterebbe di essere dedicata ad altri scopi, licenziano un maggior numero di lavoratori che si erano illusi di avere un contratto a tempo indeterminato, o di altri che nella veste di apprendisti speravano, anno dopo anno, di arrivare ad averlo.
Ma potrebbe anche accadere di peggio: che la precarietà esistente rimanga più o meno tal quale, ma si estenda a settori dove prima ce n´era poca (improvvisi fallimenti aziendali a parte). Lo scenario è pronto: da un lato, dinanzi al cospicuo vantaggio di poter ridurre la forza lavoro senza nemmeno dover licenziare, l´aumento dell´1,4 per cento del costo contributivo dei contratti atipici si configura come uno svantaggio quasi trascurabile. Dall´altro lato, la libertà concessa di licenziare ciascuno e tutti per motivi economici, veri o presunti o inventati, di cui chiunque abbia un´idea di come funziona un´impresa può redigere un elenco infinito, costituisce un formidabile incentivo a modulare quantità e qualità della forza lavoro utilizzata a suon di licenziamenti. Magari assumendo giovani freschi di studi, al posto di quarantenni o cinquantenni tecnologicamente obsoleti, che tanto, una volta perso lo stipendio, non dovranno aspettare più di dieci o quindici anni per ricevere la pensione. Sarebbe un passo verso l´eliminazione del dualismo tra bacini diversi di lavoro, da molti deprecato, ma non esattamente nel modo che la riforma sembrava da principio promettere.
Potrebbe il Parlamento ovviare ai limiti della riforma in discussione? In qualche misura sì, se mai si trovasse una maggioranza. Però v´è da temere non possa andare al di là di qualche ritocco, perché se non si tengono in debito conto le cause reali del guasto di un complicato macchinario, è molto difficile che la riparazione vada a buon fine, quali che siano le intenzioni dei riparatori.

La Repubblica 25.03.12

******

“Un milione di atipici esclusi dall´assegno di disoccupazione”, di Valentina Conte

Nel documento approvato dal governo c´è soltanto l´impegno a rafforzare le una tantum previste oggi dalla legge
La mini-Aspi si applicherà solo ai lavoratori subordinati, non agli “indipendenti” come i cocopro. Un milione di precari senza rete. La nuova riforma del mercato del lavoro, targata Monti-Fornero, rischia di lasciare a piedi ancora una volta i molti già esclusi dalle tutele, gli intermittenti, gli ex milleuristi, le vittime di un mercato “segmentato” tra protetti e non protetti. Proprio coloro che, nelle intenzioni, questa riforma doveva accompagnare nel tunnel della flessibilità “buona” verso la luce della stabilità. E invece abbandona nel «deserto» evocato dal ministro Fornero come il nemico da sconfiggere.

FUORI DA ASPI E MINI-ASPI
Uno su due è sotto i 40 anni e guadagna meno di 10 mila euro lordi l´anno. Quando il lavoro finisce, nessun sostegno. Né Aspi, né mini-Aspi. Zero. Come prima e peggio di prima. L´Assicurazione sociale per l´impiego – l´assegno unico di disoccupazione che dal 2017 sostituirà mobilità e indennità – copre i soli lavoratori dipendenti, sia pubblici che privati, e in più apprendisti e artisti (oggi esclusi da ogni sostegno), che hanno un contratto a termine (determinato, formazione lavoro, part-time, ecc). I requisiti sono stringenti: due anni di anzianità assicurativa e almeno 52 settimane lavorate nel biennio. La mini-Aspi è invece la versione aggiornata dell´attuale assegno “con requisiti ridotti”, riservato ancora una volta ai soli lavoratori subordinati che hanno lavorato poco, almeno 78 giorni in un anno, ora diventato «almeno 13 settimane di contribuzione negli ultimi 12 mesi» con durata massima «pari alla metà delle settimane» lavorate nell´anno, dunque al massimo sei mesi, come ora. A conti fatti, però la mini-Aspi è più generosa del trattamento attuale, per una retribuzione media di 9.855 euro l´anno (quella di un precario): chi ha lavorato 3 mesi prenderà 926 euro in tutto (contro i 731 di oggi), ma chi ha lavorato un anno raddoppierà l´assegno (3.700 euro contro 1.800). Il calcolo è lo stesso previsto per l´Aspi: il 75% della retribuzione (fino a 1.150 euro), il 25% dopo, con abbattimento del 15% ogni sei mesi.

L´ESERCITO DEI NON PROTETTI
La mini-Aspi, dunque, non amplia la platea dei protetti, ma sostiene chi oggi ha già un ombrello. Al palo restano 945.141 lavoratori atipici, intermittenti, precari (dati Isfol, 2010). Quasi la metà sono co.co.pro (675.883). Ma si contano anche 52.459 associati in partecipazione, 54.210 co.co.co statali, 49.179 dottorandi e assegnisti di ricerca, 24 mila venditori porta a porta, 27 mila “collaboratori”, 8.913 occasionali.

SOLO UN IMPEGNO
La riforma approvata dal Consiglio dei ministri venerdì scorso contiene solo un impegno a rendere strutturale («a regime») l´una tantum oggi riservata ai co.co.pro. E questa viene considerata una vittoria dai sindacati, visto che le ultime versioni del testo la escludevano. L´una tantum oggi è pari al 30% del reddito dell´anno precedente, con un tetto di 4 mila euro. I requisiti sono molto restrittivi e di fatto l´83% dei fondi stanziati per il triennio 2009-2011 non è stato utilizzato (35 milioni su 200), con il 69% di domande respinte (28.674 su 42.550). Senza una revisione, questo paracadute continuerà ad essere inutile, oltre che limitato.

LE BUSTE PAGA
Il confronto parlamentare sulla riforma dovrebbe tenerne conto, considerando poi che l´aumento dell´1,4% delle aliquote contributive su tutti i contratti a termine – quindi anche del milione di parasubordinati – rischia di scaricarsi su buste paga già ridotte all´osso. Un rincaro che finanzierà proprio Aspi e mini-Aspi, da cui i precari sono tagliati fuori. Beffa e paradosso. E che potrebbe ingrossare – nonostante la stretta che la riforma intende mettere in campo – le fila delle 4 milioni di partite Iva, escluse da tutto, da sempre. Ma ancora “convenienti”.

La Repubblica 25.03.12