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"L'Italia che non ha imparato nulla da un secolo e mezzo di terremoti", di Gian Antonio Stella

«Hiiii! Volete portare jella?» Così rispondono gli abusivi ad Aldo De Chiara, se il magistrato che combatte gli obbrobri edilizi di Ischia ricorda loro il terremoto catastrofico del 1883. Ma è l’Italia tutta che non vuole sapere, non vuole ricordare, non vuole affrontare il tema. Pur avendo avuto in media, dall’Unità ad oggi, almeno 1333 morti l’anno sotto le macerie dei disastri sismici. Sei volte i morti dell’Aquila.
Lo documenta il libro di due studiosi, Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise, «Il peso economico e sociale dei disastri sismici in Italia negli ultimi 150 anni», un volumone di 551 pagine edito da Bonomia University. Racconta che dal 1861 ad oggi nel nostro Paese, tra i più martoriati, ci sono stati 34 terremoti molto forti più 86 minori. Anzi, il regno italiano si trovò subito in carico le rovine di altre catastrofi appena accadute nei territori che erano stati pontifici e napoletani: del 1851 e poi del 1857 in Basilicata, del 1853 in Campania, del 1859 in Val Nerina. E come scrivono gli autori, in quel Mezzogiorno dove «su 1.848 comuni, 1.321 erano privi di collegamenti stradali» (a dispetto dei rimpianti per il meraviglioso Regno delle due Sicilie), «la sfida delle ricostruzioni fu forse una delle prime perse dal nuovo regno».
Avrebbe potuto fare un figurone, l’Italia, dimostrandosi più materna ed efficiente, ad esempio, di Ferdinando II che dopo il terremoto del 1857 aveva mandato in Basilicata l’intendente Rosica col mandato di dar fondo alla beneficenza e alle casse comunali, che già erano vuote. Di più: la somma «irrisoria» raccolta senza che i regnanti mettessero mano al portafoglio «fu impiegata in modo a dir poco singolare, se si pensa che più di 20.000 ducati furono spesi per il restauro di chiese, cappelle e monasteri di suore». Peggio: un anno dopo un «rescritto» reale «stabilì che per reperire i fondi necessari per la ricostruzione delle chiese parrocchiali della provincia di Basilicata si riutilizzasse il legname impiegato nella costruzione di baracche finanziate dalle casse comunali». Scelta indecente accolta dalle proteste della popolazione terremotata, «che si vedeva privata anche di un alloggio precario».
Avrebbe potuto fare un figurone, l’Italia, con intellettuali come Giacomo Racioppi scandalizzati dall’inefficienza borbonica: «Il governo di Napoli sovvenne a tanta jattura scarsissimo e male». Ma non andò così, scrivono gli autori: «La cura per le ricostruzioni non fu certo un elemento a favore del nuovo governo, che non seppe o non volle valutare la portata e le conseguenze di quegli impatti devastanti, né l’importanza di una risposta adeguata». Ovvio: «Altri erano i problemi da risolvere per i nuovi regnanti: stroncare ogni spirito di rivolta, ogni aspirazione di autonomia».
Un errore fatale. Come di errori è costellata tutta la storia degli interventi di soccorso, delle ricostruzioni, delle regole antisismiche via via dettate per evitare nuove tragedie ma mai fatte applicare. Al sud, come al Nord. Spicca, tra le storie infami, la decisione delle autorità militari, dopo il sisma del 23 febbraio 1887 a Bussana, vicino a Sanremo, di sgomberare il paese prima ancora di scavare tra le macerie e «ordinare la fucilazione per chiunque fosse rientrato nel borgo». Una scelta malvagia: «Nella notte alcuni uomini tentarono di forzare il blocco attorno a Bussana, furono scoperti dalle sentinelle che aprirono il fuoco, ma quattro riuscirono comunque a penetrare nel paese, dove cominciarono a scavare tra le macerie, estraendo tre donne ancora vive».
C’è da vergognarsi, a rileggere quanto fece l’Italia per la gente di Bussana rimasta senza casa sugli Appennini a fine inverno. Niente. Un mese dopo «ai superstiti, circa 700 persone, fu concessa una quantità di legname sufficiente solo per costruire 50 baracche. Divennero la casa dei bussanesi per cinque anni, ma non furono gratuite. Infatti, fu richiesto il pagamento del trasporto e l’affitto delle tavole di legno, a fronte dell’impegno a restituirle integre, pena il pagamento delle stesse».
E come dimenticare il terremoto di Messina del 1908? Mentre i marinai d’una flottiglia russa di passaggio si precipitavano a scavare distribuendo agli scampati l’acqua delle caldaie e gli inglesi giunti da Malta si dannavano a spegnere incendi e curar feriti, la «Regina Elena» e il «Napoli», rimasero per ore ferme in porto con i terremotati che li invocavano dal molo. Scrisse la «Gazzetta» che «c’erano ufficiali e marinai messinesi che avrebbero voluto scavare con le unghie fra le macerie. Ufficiali che si vergognavano della loro inazione forzata…». Perché restarono fermi lì? Dovevano aspettare l’arrivo del re.
Il disastro del 1908, scrivono Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise, «lasciò un’impronta indelebile nella realtà complessiva delle aree distrutte e nella memoria storica dell’intero Paese, colpendo la coscienza civile non solo degli italiani, ma anche dell’Europa e dell’America». Fu dopo quella catastrofe, che uccise 58mila persone e demolì «una città moderna, economicamente e culturalmente molto attiva», che si tentò infine di mettere in ordine le regole anti-sismiche già abbozzate nei decenni precedenti dall’Italia, dai Borbone, dallo Stato pontificio.
Neppure il terremoto che nel 1915 avrebbe annientato Avezzano (dove morì il 95% dei diecimila abitanti e restò su un solo edificio: uno) e quelli del 1920 in Garfagnana, del 1928 in Carnia, del 1930 nel Vulture, del 1962 in Irpinia, del 1968 nel Belice, del 1976 in Friuli, del 1980 ancora in Irpinia, del 1990 in Val di Noto, del 2002 nel Molise e del 2009 in Abruzzo, più decine di scossoni minori, sono riusciti però a conficcare nella testa degli italiani ciò che è chiarissimo ai giapponesi. E cioè che è sciocco invocare la buona sorte e toccare «‘o curniciello ‘e corallo»: occorre costruire le case in un certo modo, educare a scuola gli alunni, fare esercitazioni pubbliche, stare sempre in guardia.
Il contrario di quanto, per riprendere l’esempio iniziale, accadde a Ischia. La catastrofe di Casamicciola del 1883, quando morirono 2.313 abitanti su 4.300 tra cui il padre, la madre e la sorella di Benedetto Croce che restò sepolto per ore, è entrata perfino nelle commedie di Eduardo: «qui faccio una casamicciola!». Eppure, spiega il vulcanologo Giuseppe Luongo, che in «Storia di un’isola vulcanica» ricorda i rischi sismici e idrogeologici, «nove case su dieci sono state tirate su (spesso abusivamente) senza regole. Anzi, guai a parlare dei rischi: fa male al turismo». Ventottomila abusi edilizi per 62mila ischitani. Manifesti elettorali con scritto «Io voto abusivo». Rivolte di interi consigli comunali. «Per abbattere una casa abusiva che non è solo illegale ma pericolosa», sospira il procuratore Aldo De Chiara, «devo passare attraverso il sindaco che magari ha fatto la campagna elettorale promettendo di salvare gli abusivi!» Eppure sono stati almeno 200mila i morti, dall’Unità a oggi. E che sono stati 1.560, tra cui dieci capoluoghi, i comuni bastonati più o meno duramente: uno su cinque. Anzi, diciamolo a dispetto della scaramanzia autolesionista: i terremoti tipo quelli di Messina o Avezzano, un paio al secolo, sono perfino «in ritardo» sulla media. Quanto indurrebbe un paese serio a dedicare il massimo sforzo al rispetto delle regole e alla prevenzione.
Il bilancio di Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise è invece amaro: «Colpisce la perseverante miopia nella programmazione del territorio». Tanto più che «le aree colpite dai disastri sismici sono quasi sempre le stesse». Insomma, i terremoti «ci sono stati e ci saranno sempre». E fingere di ignorarlo non è solo irrazionale: è inutile. E suicida.

Il Corriere della Sera 26.03.12