attualità, lavoro

"Quel bisogno di equità sociale", di Guido Crainz

Nel momento in cui inizia un´altra fase decisiva per l´articolo 18, è evidente che il suo esito avrà conseguenze sia sul mercato del lavoro che sul profilo del governo guidato da Mario Monti. In primo luogo, a cosa possono aprire realmente la via le modifiche di cui si discute? Superati gli sbarramenti di bandiera, da tempo il confronto è in buona sostanza sulla portata di esse e, quindi, è essenziale un´analisi equilibrata dei possibili scenari.

Certo, non siamo negli anni Cinquanta e non sono immaginabili licenziamenti di massa per rappresaglia ma non andrebbero sottovalutati i rischi impliciti nelle parole. I confini fra discriminazioni antisindacali, ragioni disciplinari e motivi economici si sono mostrati talora molto labili, e Sergio Marchionne ci ha ricordato spesso quel personaggio di Lewis Carroll che in Alice nel Paese delle Meraviglie dice: «Quando io uso una parola, questa significa esattamente quello che decido io». Bisogna vedere se lo puoi fare, cerca di obiettare Alice: «Bisogna vedere chi comanda… è tutto qua», le risponde Humpty Dumpty. La limitata applicazione attuale dell´articolo 18, infine, appare una buona ragione per mantenerlo, non per abbandonarlo: la sua stessa esistenza contribuisce infatti a disincentivare licenziamenti arbitrari.
Diamo comunque per certo che gli anni Cinquanta non si possano ripresentare: sono altrettanto lontani però gli anni Settanta, quando un forte potere sindacale poteva sin abusare in qualche caso delle norme introdotte dallo Statuto dei lavoratori. Si compirono anche errori gravi in nome della “classe operaia” (basti pensare all´accordo del 1975 sulla contingenza) ma da allora essa è quasi scomparsa dall´orizzonte culturale del Paese: ed è merito del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano aver richiamato l´attenzione sin dall´inizio del suo mandato sui drammi delle morti sul lavoro e su quel che esse significano per una nazione civile.
La realtà ci parla da tempo, insomma, di un lavoro di fabbrica quantitativamente ridotto e insidiato su più versanti, e periodicamente riscopriamo che il potere d´acquisto dei salari è fortemente diminuito. Nel 1992 e nel 1993 fu preziosa la responsabilità con cui i dirigenti sindacali siglarono accordi impegnativi e talora dolorosi, sfidando anche le contestazioni aspre della propria base: il coraggio politico di Bruno Trentin, ad esempio, non andrebbe mai dimenticato. Proprio per questo, c´è da chiedersi se a quella generosa disponibilità dei sindacati operai abbiano corrisposto comportamenti analoghi di altri settori e strati sociali, e la riposta non è confortante.
Il confliggere ha certo anche carattere simbolico (come è inevitabile, sul terreno dei diritti) ma riguarda al tempo stesso aspetti di rilievo: per il mondo del lavoro e per il profilo stesso di questo governo, indubbiamente il migliore che il Paese abbia avuto da anni. E un Paese oppresso, e quasi travolto, dalle macerie di una pessima politica, ha un bisogno estremo di una “pedagogia per il futuro” e di indicazioni limpide sul terreno della equità sociale. Su quest´ultimo aspetto, su cui il presidente del Consiglio Mario Monti si è impegnato sin dall´avvio, i segnali che sono venuti non sono univoci e hanno sollevato più di un dubbio. Hanno lasciato un sapore amaro, inutile nasconderlo, alcune “non scelte” sul terreno delle liberalizzazioni. E in una difficile emergenza nazionale, che ha portato a interventi molto incisivi sulle pensioni, è difficile comprendere i passi indietro in materia di commissioni bancarie, taxi o farmacie.
Per questo le preoccupazioni sono oggi legittime ed è fondata l´esigenza che le modifiche all´articolo 18 siano molto più attente. Sembra comprenderlo anche il nuovo presidente della Confindustria ed è un segnale confortante, così come sarebbero importanti ulteriori avvicinamenti fra le organizzazioni sindacali.
Il confronto in corso non riguarda dunque, da tempo, un “potere di veto” corporativo, che si è manifestato semmai in altri e ben diversi settori, ma la capacità del governo di costruire prospettive riconoscibili: prospettive capaci di non sacrificare i settori più deboli e di ribadire che proprio le crisi economiche e politiche rendono preziosi i diritti. Senza questa forte ed esplicita direzione di marcia perderebbe molto valore quella estensione delle norme a tutti i lavoratori che è stata invece importante e che non sarebbe giusto ignorare. Le scelte del governo Monti, infine, sono destinate a influire anche sul “dopo Monti”, ed è importante il modo con cui il centrosinistra e lo stesso Terzo polo lo aiutano: anche opponendosi con decisione, quando è necessario, a scelte non sufficientemente equilibrate. Non sufficientemente coerenti con quel progetto di ricostruzione generale, non solo economica, cui il governo e il Paese sono chiamati.

La Repubblica 26.03.12

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“Articolo 18, il governo non cederà”, di Massimo Giannini

Fornero: modifiche al ddl, ma niente reintegro nei licenziamenti economici. «Questa è una riforma seria ed equilibrata. Spero che i partiti capiscano: modifiche se ne possono fare, ma il governo non accetterà che questo disegno di legge venga snaturato, o sia ridotto in polpette». Schiumati almeno in parte i veleni ideologici della prima ora, Elsa Fornero riflette sullo scontro in atto intorno al disegno di legge che riscrive le regole sui licenziamenti, sui contratti flessibili e sugli ammortizzatori sociali. E lancia un appello alle Camere: «Questo provvedimento potrà anche subire qualche cambiamento, ma chiediamo che il Parlamento sovrano ne rispetti l´impianto e i principi basilari. In caso contrario dovrà assumersi le sue responsabilità, e il governo farà le sue valutazioni».
Insieme al presidente del Consiglio Monti, il ministro del Welfare è al centro delle polemiche. Dopo la riforma delle pensioni, anche quella del lavoro la vede in prima linea, a fronteggiare le critiche. Come quelle di Susanna Camusso, che a Cernobbio ha contestato a Fornero le sue «lacrime di coccodrillo». «Non lo nego, ci sono rimasta male. Io avevo espresso il mio rammarico per la rottura con la Cgil. Ero stata sincera. Mi dispiace che il mio rammarico e la mia sincerità siano state giudicate con tanto sarcasmo». Distonie personali, che nascondono dissensi politici.
I sindacati contestano il metodo: con lo strappo deciso martedì scorso e ratificato venerdì in Consiglio dei ministri, Monti e Fornero hanno di fatto chiuso l´era della concertazione, relegando le parti sociali a un ruolo di semplice consultazione. Il ministro non nega la portata della svolta, ma la argomenta. «La linea l´ha tracciata il presidente Monti: le discussioni con le parti sociali si fanno, e sono doverose, ma a un certo punto devono finire, e il governo deve trarre le sue conclusioni, anche se qualcuno non è d´accordo. Su questo, da parte nostra, c´è assoluta fermezza. Il fatto che il premier abbia ribadito che l´approvazione del disegno di legge avviene «salvo intese» ha un significato meramente tecnico. Vuol dire che ci riserviamo di scrivere le norme nel modo più chiaro e più completo possibile. Non vuol dire invece che su certe norme sia ancora in corso una trattativa. Non vuol dire che la discussione è ancora aperta, e che per un´altra settimana riparte la giostra, e qualcuno è ancora in tempo per salirci sopra. Il provvedimento è quello, e non cambierà fino al suo approdo in Parlamento».
Ma i sindacati (a questo punto non più solo la Cgil ma anche la Cisl, la Uil e la Ugl) contestano soprattutto il merito. Cioè la riscrittura dell´articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che nella sua nuova versione esclude la possibilità di reintegro in caso di licenziamenti per motivi economici oggettivi. Anche su questo punto, Fornero rinnova la linea della fermezza. «Abbiamo il massimo rispetto per il Parlamento, che valuterà il disegno di legge e deciderà se e come cambiare. Ma per quanto riguarda il governo, è chiaro che non accetteremo modifiche che snaturino il senso delle singole norme. E sull´articolo 18 il senso della nostra riforma è chiaro: nei licenziamenti per motivi economici oggettivi è previsto l´istituto dell´indennizzo, e non quello del reintegro. Si possono fare correzioni specifiche, ma questo principio-base della legge dovrà essere rispettato». È proprio questo, tuttavia, il punto di frizione e di rottura maggiore con la Cgil, e anche con il Partito democratico. Il ministro del Welfare capisce, ma non condivide. «Io non voglio accusare nessuno, ci mancherebbe altro. Dico solo che il Pd si è più volte dichiarato disponibile a una “manutenzione” sull´articolo 18, anche se noi non abbiamo mai capito cosa questo significhi nella pratica. Quanto alla Cgil, non ci ha mai fatto controproposte… ».
Il leader della Uil Angeletti, tuttavia, nei giorni scorsi ha rivelato un retroscena che fa riflettere. I tre sindacati insieme avevano presentato al premier un pacchetto completo e già blindato, che anche per i licenziamenti economici (oltre che per quelli disciplinari) prevedeva il cosiddetto “modello tedesco”, cioè la facoltà del giudice di decidere tra il reintegro e l´indennizzo del lavoratore. Monti avrebbe rifiutato l´offerta, confezionando un pacchetto che in realtà, a conti fatti, scavalca addirittura “a destra” il modello tedesco. Perché questa forzatura? Fornero racconta una storia diversa: «La Cgil non si è mai spinta fin lì – sostiene – e quanto al modello tedesco noi non scavalchiamo nessuno. Le norme scritte in una legge ordinaria si interpretano, l´articolo 18 non è scritto nella Costituzione. Il nostro provvedimento prevede espressamente che le aziende non possano ricorrere strumentalmente a licenziamenti oggettivi o economici che dissimulino altre motivazioni. In questi casi, se il lavoratore proverà la natura discriminatoria o disciplinare del licenziamento, il giudice applicherà la relativa tutela. Non solo: il presidente Monti, nella stesura definitiva del ddl, si è impegnato a evitare ogni forma di abuso in questa materia. Dunque, nessuna macelleria sociale. Non distruggiamo i diritti di nessuno».
Per questo, secondo il ministro del Welfare, il Parlamento nell´esame del provvedimento dovrebbe rispettarne l´equilibrio. «Noi siamo sereni. Pensiamo di avere dalla nostra la forza e la bontà delle argomentazioni. Come sempre, avremmo voluto fare di più. Ma le assicuro che anche noi tecnici abbiamo un cuore, e sentiamo fino in fondo il disagio che pesa sulla vita di tante persone. Non è solo la Cgil ad avere una coscienza rispetto ai lavoratori, agli operai, ai giovani, ai disoccupati. Con questo disegno di legge, per la prima volta dopo tanti anni, cerchiamo di creare le condizioni per aumentare l´occupazione, rimettiamo mano agli ammortizzatori sociali». L´ampiezza dell´intervento c´è, in effetti. Ma non si può nascondere la pochezza delle risorse. Con meno di 2 miliardi non si fa molto, per ridisegnare un sistema di tutele universali per tutti coloro che finora ne sono stati sprovvisti. «È vero – ammette Fornero – su questo le do ragione. Ai precari avremmo voluto dare di più, ma un po´ d´indennità con la mini-Aspi gliel´abbiamo pur data. Tra niente e un po´, le chiedo, cosa è meglio? La verità è che anche in questa riforma, come nelle altre che abbiamo fatto, abbiamo dovuto e dobbiamo tenere conto di tanti interessi contrapposti e di altrettanti opposti estremismi. In tanti, troppi dimenticano che il Paese è in grandissima difficoltà, e le risorse a disposizione sono davvero poche. Per alcuni la grande riforma del mercato del lavoro è abolire del tutto l´articolo 18, per altri è abolire tutti i contratti flessibili. Noi ci muoviamo su questo sentiero, che è molto, molto stretto».
Il sentiero è stretto anche dal punto di vista politico. Bersani si prepara a un braccio di ferro parlamentare per modificare il provvedimento, Alfano giudica indebolito il governo per via della scelta rinunciataria del disegno di legge. «Un decreto legge – obietta Fornero – sarebbe stato una forzatura, data la vastità dei temi contenuti nel provvedimento. Ci sono regole precise, sulla necessità ed urgenza, e le regole non possono essere bypassate. La legge delega avrebbe rischiato di avere tempi persino più lunghi del ddl. Per questo abbiamo optato per quest´ultimo strumento. Ma guai se questo venisse letto come un cedimento, che consente ai partiti di fare melina, di allungare i tempi e di annacquare la riforma. Sarebbe un disastro per l´Italia, anche sui mercati».
Dunque, la riforma va approvata in fretta, e non va depotenziata. Ammesso che sia una riforma «potente» e capace di creare posti di lavoro, e non una battaglia simbolica per abbattere un tabù, o peggio un pretesto offerto alle imprese per difendere la competitività licenziando i lavoratori invece che aumentando gli investimenti. Il ministro del Welfare non si sottrae, e dopo aver esortato il Parlamento si rivolge anche agli industriali: «Non mi aspetto certo licenziamenti di massa, come effetto della nostra riforma. Purtroppo mi aspetto i licenziamenti legati alla recessione, che già c´erano prima e che continueranno ad esserci, perché la crisi non è affatto finita. Ma proprio per questo rinnovo l´appello ai nostri imprenditori: non abusate della buona flessibilità che la riforma introduce. Sarebbe il modo più irresponsabile di farla fallire».

La Repubblica 26.03.12