attualità, memoria

“Tabucchi, tra amore e disincanto acerrimo amico della vita”, di Ernesto Ferrero

Nel 1970 fa il suo ingresso in Via Biancamano un giovane non ancora trentenne che può vantare una presentazione della grande Luciana Stegagno Picchio, sua maestra di letteratura portoghese a Pisa. Occhiali tondi, un accenno di calvizie, timido e rispettoso, ma fermo, convinto. Propone nientemeno che una antologia di poeti surrealisti portoghesi, quando la stella di Fernando Pessoa doveva ancora sorgere all’orizzonte (proprio per mano sua), José Saramago era alle prime prove e del Portogallo si sapeva soltanto che gemeva sotto la dittatura di Salazar. Oggi che il marketing ha surrogato le direzioni editoriali gli avrebbero riso in faccia. Da Einaudi lo inseriscono tra i primi numeri di una collana di punta, «Letteratura», che incrociava generi e discipline, tra Mandel’stam, Il Fotodinamismo Futurista di Bragaglia, Céline, Fausto Melotti e Cortázar.

Ci avrebbe messo ancora dieci anni a diventare Antonio Tabucchi, il giovane studioso di Vecchiano che aveva trovato la sua vera patria a Lisbona, quel teatrino vecchiotto e un po’ fané di sogni, fantasmi, ombre, apparizioni, ambiguità, in cui si aggirava con il lieto stupore di una misteriosa consanguineità. Come l’amato Pessoa, era difficile incontrarlo fuori dei libri. Nell’età del presenzialismo, si sottraeva, si negava gentilmente. Non amava i discorsi, le occasioni pubbliche; non gli piaceva indossare la maschera dello scrittore che parla di se stesso. Preferiva il raccoglimento, il silenzio della scrittura.

Dei tanti inviti al Salone del libro ne ha accolto uno soltanto, nel 2004, perché vi si presentava un libro della Stegagno Picchio, «la persona cui devo tutto», proprio su Pessoa. Disse che Pessoa l’aveva forse scoperto da solo, casualmente, in un libretto trovato alla Gare de Lyon prima di un viaggio, ma era lei che glielo aveva insegnato. Da lei aveva imparato che la filologia è una scienza seria, non solo un metodo di indagine ma una visione del mondo; e che lo studio deve essere fatto di fatica, pazienza e rigore. Siamo due «acerrimi amici», diceva sorridendo lei che all’allievo aveva insegnato anche a criticare duramente il maestro.

Acerrimo amico della vita è stato Tabucchi, tra amore e disincanto, irritazione e fascinazione, inquietudine e visionarietà. Da lui, viaggiatore che vuole essere sempre altrove, abbiamo anche imparato che un solo Paese e una sola identità non bastano, e che solo sdoppiandoci in una moltitudine di personaggi possiamo davvero capire chi siamo.

La Stampa 26.03.12

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“Il moschettiere della passione”, di STEFANO BENNI

“Di tutto è rimasto un poco”. È il primo verso della poesia Residuo, di Drummond de Andrade, un poeta amatissimo da Tabucchi, che lui mi ha fatto conoscere anni fa. Uno dei tanti regali di Antonio. Credo che al di là delle grandi celebrazioni, sia quel “poco” ironico e raro che lo renderà indimenticabile. Ciò che è “poco” è spesso anche prezioso, e Antonio usava spesso la parola “prezioso” per la letteratura, per l´impegno civile e per i sentimenti. E di Antonio mi tornano in mente pochi ricordi, forse perché non vorrei staccarmene. Una sera a Pisa, a una tavolata, qualcuno parlava del “tormento” della scrittura, del rovello di tornare sulla pagina. «A me non succede mai – disse Antonio con un sorriso angelico –. Io mi sveglio tutte le mattine alle cinque, lavoro cinque ore di fila, poi correggo al massimo una o due righe. Così in pochi mesi ho scritto Sostiene Pereira». opo due minuti di imbarazzato mutismo conviviale, Tabucchi scoppiò in una risata e disse: «Vi ho mentito. Non è vero niente, anche io ci metto dei giorni per scrivere una pagina, l´ho detto solo per farvi arrabbiare».
Era leggero e severo Antonio, due aggettivi che sembrano scontrarsi. Era leggero per il suo sorriso da moschettiere, per la dolcezza della conversazione, per la passione con cui parlava dei suo amori letterari. Ma se qualcosa non gli piaceva il moschettiere sfoderava la spada, la sua conversazione diventava affilata e polemica, e non risparmiava agli altri scrittori nessuna critica, soprattutto se udiva cantarellare la parola “disimpegno”. La sua prosa melodica, la “musica barata” che sembrava uscire di notte da un finestra di Lisbona o di Rio, poteva diventare uno squillo. I suoi articoli sulla realtà italiana erano forti, e mai inefficaci, si arrabbiava ma riusciva anche a far arrabbiare gli altri. Non recitava duelli, scendeva in strada. Credo che Antonio abbia sofferto molto per quello che è successo nel nostro paese negli ultimi anni. Non per furore ideologico, o ritualità provocatoria. Ma perché non concepiva l´idea di uno scrittore che non si ponesse il problema del potere. «Tornare in Italia qualche volta mi fa paura» mi disse una volta. Non era la paura di chi non combatte, era la paura di vedere offese le cose che amava.
Ed ecco un altro ricordo. Una sera a un concerto disse: «Mi piacerebbe essere un suonatore di chitarra, o di qualsiasi strumento, che canta, si abbandona alla musica e dimentica tutto». E perché non lo fai? gli chiesi. «Perché immagino la scena: a metà della canzone un pensiero, o la faccia di un spettatore, qualcosa mi fa arrabbiare, prendo la chitarra e il microfono, spacco tutto e addio concerto».
Non era nello stile di Antonio fracassare strumenti musicali, ma è vero che la sua prosa elegante, danzata, diventava ruvida e feroce quando parlava di ciò che lui riteneva ingiusto. Anche se tutto era illuminato dal suo sorriso, dal contrappunto delle sue battute a bassa voce. Quando Alberto Rollo mi ha detto che Antonio non stava bene, mi ha raccontato che stava lottando con coraggio e con speranza. Immagino che se gli avessi chiesto se era malato, avrebbe risposto “un poco”. O mi avrebbe raccontato una fantasiosa diagnosi per sbalordire e divertirsi. Ha avuto molti riconoscimenti meritati in vita, Antonio, ma non ne parlava troppo, e ci scherzava pure («il Premio non era male ma il vino faceva schifo»). Una volta lo vidi davvero felice: era rimasto sorpreso per il lunghissimo, affettuoso applauso con cui lo avevano accolto gli studenti di un´università. Immagino che il premio di quell´affetto accompagnerà sempre il suo ricordo e i suoi bellissimi libri. A noi mancherà tantissimo, ma per farlo sorridere diremo che ci manca soltanto un poco.

La Repubblica 26.03.12

attualità, memoria

“Tabucchi, tra amore e disincanto acerrimo amico della vita”, di Ernesto Ferrero

Nel 1970 fa il suo ingresso in Via Biancamano un giovane non ancora trentenne che può vantare una presentazione della grande Luciana Stegagno Picchio, sua maestra di letteratura portoghese a Pisa. Occhiali tondi, un accenno di calvizie, timido e rispettoso, ma fermo, convinto. Propone nientemeno che una antologia di poeti surrealisti portoghesi, quando la stella di Fernando Pessoa doveva ancora sorgere all’orizzonte (proprio per mano sua), José Saramago era alle prime prove e del Portogallo si sapeva soltanto che gemeva sotto la dittatura di Salazar. Oggi che il marketing ha surrogato le direzioni editoriali gli avrebbero riso in faccia. Da Einaudi lo inseriscono tra i primi numeri di una collana di punta, «Letteratura», che incrociava generi e discipline, tra Mandel’stam, Il Fotodinamismo Futurista di Bragaglia, Céline, Fausto Melotti e Cortázar.

Ci avrebbe messo ancora dieci anni a diventare Antonio Tabucchi, il giovane studioso di Vecchiano che aveva trovato la sua vera patria a Lisbona, quel teatrino vecchiotto e un po’ fané di sogni, fantasmi, ombre, apparizioni, ambiguità, in cui si aggirava con il lieto stupore di una misteriosa consanguineità. Come l’amato Pessoa, era difficile incontrarlo fuori dei libri. Nell’età del presenzialismo, si sottraeva, si negava gentilmente. Non amava i discorsi, le occasioni pubbliche; non gli piaceva indossare la maschera dello scrittore che parla di se stesso. Preferiva il raccoglimento, il silenzio della scrittura.

Dei tanti inviti al Salone del libro ne ha accolto uno soltanto, nel 2004, perché vi si presentava un libro della Stegagno Picchio, «la persona cui devo tutto», proprio su Pessoa. Disse che Pessoa l’aveva forse scoperto da solo, casualmente, in un libretto trovato alla Gare de Lyon prima di un viaggio, ma era lei che glielo aveva insegnato. Da lei aveva imparato che la filologia è una scienza seria, non solo un metodo di indagine ma una visione del mondo; e che lo studio deve essere fatto di fatica, pazienza e rigore. Siamo due «acerrimi amici», diceva sorridendo lei che all’allievo aveva insegnato anche a criticare duramente il maestro.

Acerrimo amico della vita è stato Tabucchi, tra amore e disincanto, irritazione e fascinazione, inquietudine e visionarietà. Da lui, viaggiatore che vuole essere sempre altrove, abbiamo anche imparato che un solo Paese e una sola identità non bastano, e che solo sdoppiandoci in una moltitudine di personaggi possiamo davvero capire chi siamo.

La Stampa 26.03.12

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“Il moschettiere della passione”, di STEFANO BENNI

“Di tutto è rimasto un poco”. È il primo verso della poesia Residuo, di Drummond de Andrade, un poeta amatissimo da Tabucchi, che lui mi ha fatto conoscere anni fa. Uno dei tanti regali di Antonio. Credo che al di là delle grandi celebrazioni, sia quel “poco” ironico e raro che lo renderà indimenticabile. Ciò che è “poco” è spesso anche prezioso, e Antonio usava spesso la parola “prezioso” per la letteratura, per l´impegno civile e per i sentimenti. E di Antonio mi tornano in mente pochi ricordi, forse perché non vorrei staccarmene. Una sera a Pisa, a una tavolata, qualcuno parlava del “tormento” della scrittura, del rovello di tornare sulla pagina. «A me non succede mai – disse Antonio con un sorriso angelico –. Io mi sveglio tutte le mattine alle cinque, lavoro cinque ore di fila, poi correggo al massimo una o due righe. Così in pochi mesi ho scritto Sostiene Pereira». opo due minuti di imbarazzato mutismo conviviale, Tabucchi scoppiò in una risata e disse: «Vi ho mentito. Non è vero niente, anche io ci metto dei giorni per scrivere una pagina, l´ho detto solo per farvi arrabbiare».
Era leggero e severo Antonio, due aggettivi che sembrano scontrarsi. Era leggero per il suo sorriso da moschettiere, per la dolcezza della conversazione, per la passione con cui parlava dei suo amori letterari. Ma se qualcosa non gli piaceva il moschettiere sfoderava la spada, la sua conversazione diventava affilata e polemica, e non risparmiava agli altri scrittori nessuna critica, soprattutto se udiva cantarellare la parola “disimpegno”. La sua prosa melodica, la “musica barata” che sembrava uscire di notte da un finestra di Lisbona o di Rio, poteva diventare uno squillo. I suoi articoli sulla realtà italiana erano forti, e mai inefficaci, si arrabbiava ma riusciva anche a far arrabbiare gli altri. Non recitava duelli, scendeva in strada. Credo che Antonio abbia sofferto molto per quello che è successo nel nostro paese negli ultimi anni. Non per furore ideologico, o ritualità provocatoria. Ma perché non concepiva l´idea di uno scrittore che non si ponesse il problema del potere. «Tornare in Italia qualche volta mi fa paura» mi disse una volta. Non era la paura di chi non combatte, era la paura di vedere offese le cose che amava.
Ed ecco un altro ricordo. Una sera a un concerto disse: «Mi piacerebbe essere un suonatore di chitarra, o di qualsiasi strumento, che canta, si abbandona alla musica e dimentica tutto». E perché non lo fai? gli chiesi. «Perché immagino la scena: a metà della canzone un pensiero, o la faccia di un spettatore, qualcosa mi fa arrabbiare, prendo la chitarra e il microfono, spacco tutto e addio concerto».
Non era nello stile di Antonio fracassare strumenti musicali, ma è vero che la sua prosa elegante, danzata, diventava ruvida e feroce quando parlava di ciò che lui riteneva ingiusto. Anche se tutto era illuminato dal suo sorriso, dal contrappunto delle sue battute a bassa voce. Quando Alberto Rollo mi ha detto che Antonio non stava bene, mi ha raccontato che stava lottando con coraggio e con speranza. Immagino che se gli avessi chiesto se era malato, avrebbe risposto “un poco”. O mi avrebbe raccontato una fantasiosa diagnosi per sbalordire e divertirsi. Ha avuto molti riconoscimenti meritati in vita, Antonio, ma non ne parlava troppo, e ci scherzava pure («il Premio non era male ma il vino faceva schifo»). Una volta lo vidi davvero felice: era rimasto sorpreso per il lunghissimo, affettuoso applauso con cui lo avevano accolto gli studenti di un´università. Immagino che il premio di quell´affetto accompagnerà sempre il suo ricordo e i suoi bellissimi libri. A noi mancherà tantissimo, ma per farlo sorridere diremo che ci manca soltanto un poco.

La Repubblica 26.03.12