attualità, politica italiana

“Il messaggio sbagliato”, di Francesco Cundari

Da qualche giorno sui più autorevoli quotidiani finanziari del mondo la riforma del mercato del lavoro viene descritta come il terreno di scontro decisivo tra governo e sindacati, tra Mario Monti il modernizzatore e i recalcitranti rappresentanti della vecchia sinistra, tra le riforme necessarie a salvare il Paese e il baratro della bancarotta. Molti, proseguendo così un’antichissima tradizione nazionale, portano questi lugubri responsi a sostegno e giustificazione della linea dura scelta da Palazzo Chigi. La voce tonante dei quotidiani della City e di Wall Street confermerebbe il fatto che prima di ogni altra considerazione, se vogliamo evitare il fallimento, viene l’esigenza di mandare un «messaggio ai mercati». È un argomento che può però essere facilmente rovesciato. Perché il punto è proprio questo: quale messaggio il governo ha scelto di mandare ai mercati, quando ha deciso di far saltare l’accordo sul modello tedesco, per ingaggiare un’insensata prova di forza con il maggiore sindacato e con buona parte della sua stessa maggioranza parlamentare. Poteva ottenere una riforma storica, che sui licenziamenti prendeva a modello la regolazione adottata dall’economia più competitiva d’Europa, con l’accordo di tutti e senza un minuto di sciopero. Non sarebbe stato questo un segnale ben più rassicurante sul futuro dell’Italia, sulla solidità e soprattutto sulla non reversibilità del percorso di risanamento intrapreso dopo la caduta dello sciagurato governo Berlusconi? Questo poteva essere il messaggio, simile a quello che in un’altra fase di crisi finanziaria acuta venne dal governo Ciampi, con l’accordo del luglio 1993 con i sindacati. Quella fu la base politica, non tecnica, del percorso di risanamento che portò l’Italia dal rischio bancarotta all’ingresso nel gruppo di testa della moneta unica europea. Ben diversa è invece la musica di questi giorni. Sul Wall Street Journal di ieri si scrive che Monti ha deciso di riformare il mercato del lavoro «con o senza il consenso dei sindacati» (dunque, sia detto per inciso, non è stato l’estremismo della Cgil a impedire un accordo che il governo avrebbe invece ricercato fino all’ultimo) e si spiega pure che in tal modo Monti avrebbe l’occasione di «educare gli italiani sulle conseguenze che comporta opporsi alle riforme» (in breve, quello che sta capitando alla Grecia). Per finire, e certo pensando di fargli cosa gradita, il Wall Street Journal paragona Monti alla signora Thatcher. Ma la signora Thatcher, quando piegava la resistenza dei minatori inglesi e avviava una durissima fase di tagli allo stato sociale e privatizzazione dei servizi pubblici, non lo faceva certo con i voti del partito laburista, e tantomeno in nome di un programma di unità nazionale e coesione sociale, come tale solennemente presentato al Parlamento e al Paese. Se il quadro dipinto dal Wall Street Journal è una fedele testimonianza del «messaggio» inviato ai mercati da questo governo, il presidente del Consiglio dovrebbe usare tutta la sua autorevolezza e le sue relazioni per correggerlo subito. E avvertire tutta la responsabilità per non avere contrastato sul nascere un’immagine così gravemente distorta non solo del confronto in corso sulle riforme, ma anzitutto dell’incarico ricevuto dal Presidente della Repubblica e dal Parlamento. Certo in quel «mandato» non c’erano né la linea Thatcher né l’«educazione» degli italiani. Il capo del governo rappresenta il Paese all’estero e risponde della sua immagine. Valeva per Silvio Berlusconi, che all’immagine internazionale dell’Italia ha fatto tanti danni, vale a maggior ragione per Monti, che a Palazzo Chigi è stato chiamato anzitutto per porre rimedio a questo problema. Il suo «mandato» consisteva cioè nell’usare la sua credibilità per infondere fiducia nell’Italia. A meno che l’incomprensibile scelta di rottura sul mercato del lavoro non sia stata influenzata dai tanti (ultimo ieri Carlo De Benedetti) che invitano i tecnici a proseguire la loro opera anche dopo le elezioni del 2013. Se però dall’impegno nazionale per uscire dalla crisi siamo già passati alla campagna elettorale per le politiche dell’anno prossimo, forse sarebbe il caso che qualcuno avvertisse i cittadini.

L’Unità 28.03.12

attualità, politica italiana

“Il messaggio sbagliato”, di Francesco Cundari

Da qualche giorno sui più autorevoli quotidiani finanziari del mondo la riforma del mercato del lavoro viene descritta come il terreno di scontro decisivo tra governo e sindacati, tra Mario Monti il modernizzatore e i recalcitranti rappresentanti della vecchia sinistra, tra le riforme necessarie a salvare il Paese e il baratro della bancarotta. Molti, proseguendo così un’antichissima tradizione nazionale, portano questi lugubri responsi a sostegno e giustificazione della linea dura scelta da Palazzo Chigi. La voce tonante dei quotidiani della City e di Wall Street confermerebbe il fatto che prima di ogni altra considerazione, se vogliamo evitare il fallimento, viene l’esigenza di mandare un «messaggio ai mercati». È un argomento che può però essere facilmente rovesciato. Perché il punto è proprio questo: quale messaggio il governo ha scelto di mandare ai mercati, quando ha deciso di far saltare l’accordo sul modello tedesco, per ingaggiare un’insensata prova di forza con il maggiore sindacato e con buona parte della sua stessa maggioranza parlamentare. Poteva ottenere una riforma storica, che sui licenziamenti prendeva a modello la regolazione adottata dall’economia più competitiva d’Europa, con l’accordo di tutti e senza un minuto di sciopero. Non sarebbe stato questo un segnale ben più rassicurante sul futuro dell’Italia, sulla solidità e soprattutto sulla non reversibilità del percorso di risanamento intrapreso dopo la caduta dello sciagurato governo Berlusconi? Questo poteva essere il messaggio, simile a quello che in un’altra fase di crisi finanziaria acuta venne dal governo Ciampi, con l’accordo del luglio 1993 con i sindacati. Quella fu la base politica, non tecnica, del percorso di risanamento che portò l’Italia dal rischio bancarotta all’ingresso nel gruppo di testa della moneta unica europea. Ben diversa è invece la musica di questi giorni. Sul Wall Street Journal di ieri si scrive che Monti ha deciso di riformare il mercato del lavoro «con o senza il consenso dei sindacati» (dunque, sia detto per inciso, non è stato l’estremismo della Cgil a impedire un accordo che il governo avrebbe invece ricercato fino all’ultimo) e si spiega pure che in tal modo Monti avrebbe l’occasione di «educare gli italiani sulle conseguenze che comporta opporsi alle riforme» (in breve, quello che sta capitando alla Grecia). Per finire, e certo pensando di fargli cosa gradita, il Wall Street Journal paragona Monti alla signora Thatcher. Ma la signora Thatcher, quando piegava la resistenza dei minatori inglesi e avviava una durissima fase di tagli allo stato sociale e privatizzazione dei servizi pubblici, non lo faceva certo con i voti del partito laburista, e tantomeno in nome di un programma di unità nazionale e coesione sociale, come tale solennemente presentato al Parlamento e al Paese. Se il quadro dipinto dal Wall Street Journal è una fedele testimonianza del «messaggio» inviato ai mercati da questo governo, il presidente del Consiglio dovrebbe usare tutta la sua autorevolezza e le sue relazioni per correggerlo subito. E avvertire tutta la responsabilità per non avere contrastato sul nascere un’immagine così gravemente distorta non solo del confronto in corso sulle riforme, ma anzitutto dell’incarico ricevuto dal Presidente della Repubblica e dal Parlamento. Certo in quel «mandato» non c’erano né la linea Thatcher né l’«educazione» degli italiani. Il capo del governo rappresenta il Paese all’estero e risponde della sua immagine. Valeva per Silvio Berlusconi, che all’immagine internazionale dell’Italia ha fatto tanti danni, vale a maggior ragione per Monti, che a Palazzo Chigi è stato chiamato anzitutto per porre rimedio a questo problema. Il suo «mandato» consisteva cioè nell’usare la sua credibilità per infondere fiducia nell’Italia. A meno che l’incomprensibile scelta di rottura sul mercato del lavoro non sia stata influenzata dai tanti (ultimo ieri Carlo De Benedetti) che invitano i tecnici a proseguire la loro opera anche dopo le elezioni del 2013. Se però dall’impegno nazionale per uscire dalla crisi siamo già passati alla campagna elettorale per le politiche dell’anno prossimo, forse sarebbe il caso che qualcuno avvertisse i cittadini.

L’Unità 28.03.12