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“San Suu Kyi come un Mandela birmano”, di Timothy Garton Ash

Se Aung San Suu Kyi sarà eletta al Parlamento birmano, questa domenica, il mondo inevitabilmente si chiederà se la Nelson Mandela d´Asia abbia infine trovato il suo presidente de Klerk. O, se preferite un paragone europeo, se la Václav Havel d´Asia abbia incontrato il suo Michail Gorbaciov. Sono partite le riprese del terzo episodio della saga «da prigioniero a presidente»? Io sono convinto che questo giorno arriverà, ma non facciamoci illusioni: gli ostacoli all´orizzonte non mancano e ci vorrà forza e buon senso, dentro e fuori la Birmania, per superarli. Qualunque cosa succeda, Aung San Suu Kyi si è meritata da tempo la comparazione con Havel e Mandela. Come Mandela, ha sopportato decenni di prigionia e ne è uscita con una straordinaria assenza di rancore. Come Havel, oltre a essere la dissidente principale del suo Paese, è anche stata capace di analizzare la condizione politica e sociale in un´ottica universale. Ascoltate il primo dei due discorsi che ha tenuto alla Bbc l´anno scorso, leggete il manifesto sulla libertà di espressione che ha appena scritto per la rivista Index on Censorship (per il numero speciale del quarantennale). Sono un tipico esempio di testo politico della dissidenza (con un aspetto nuovo legato al fatto che parla sempre da buddista devota). Sul piano morale e intellettuale, non c´è il minimo paragone fra lei e il presidente Thein Sein, il leader militare in abiti civili del Myanmar (il nome ufficiale della Birmania).
SUL piano politico, però, l´apertura di cui Thein Sein si è fatto promotore è estremamente significativa: oltre ad Aung San Suu Kyi sono stati rilasciati centinaia di altri prigionieri politici, tra cui esponenti dell´importante movimento studentesco 88 Generation e monaci che avevano preso parte alla cosiddetta «rivoluzione zafferano» del 2007; la giunta militare si è ritirata dietro una patina di politica civile; la libertà di espressione e la libertà di riunione sono esplose, anche se le basi giuridiche restano incerte; attivisti politici sono stati catapultati dall´oscurità di una cella di prigione ai flash accecanti dei fotografi.
Thein Sein ha fatto diverse cose considerevoli: ha rischiato l´ira della Cina, il Paese che vorrebbe giocare il ruolo di fratello maggiore della Birmania, sospendendo la costruzione della diga idroelettrica Myitzone, finanziata da Pechino (l´energia andrebbe principalmente alla Cina, i costi ambientali alla Birmania). Ha avviato trattative per un cessate il fuoco con gruppi guerriglieri delle minoranze etniche, anche se alcuni conflitti armati perdurano. Ha consentito alla Lega nazionale per la democrazia di registrarsi come partito e a queste elezioni suppletive del 1° aprile la formazione di opposizione presenterà candidati per 47 dei 48 seggi in palio nella camera bassa del Parlamento. Una di questi candidati è accolta ovunque vada da folle oceaniche che la vedono come una salvatrice.
Se aveste detto tutto questo a qualcuno quattro anni fa, quando le proteste nonviolente guidate dai monaci erano appena state schiacciate con estrema brutalità, non vi avrebbe creduto. Ogni rivoluzione di velluto, ogni transizione negoziata richiede la presenza di personalità pronte a prendersi il rischio di dialogare, sia tra gli esponenti del regime che tra le file dell´opposizione. La Birmania sembra finalmente aver trovato la sua coppia di tango.
Ma passiamo alle note dolenti: sia Thein Sein che Aung San Suu Kyi si stanno prendendo un grosso rischio. Il più importante astrologo del regime � da tempo i governanti birmani preferiscono gli astrologi agli economisti � ha ripetutamente pronosticato che il presidente Thein Sein si ammalerà questa estate. Malattia che potrebbe essere politica se i militari, sfacciatamente arricchitisi con l´esercizio del potere, sentiranno che i loro interessi vitali sono minacciati. Proprio pochi giorni fa il capo dell´esercito avvisava che la posizione speciale riservata alle forze armate dalla costituzione del 2008 doveva essere rispettata.
Anche per la leader della Lega nazionale per la democrazia i rischi sono elevati. Recentemente ha dovuto sospendere la sua campagna elettorale, ufficialmente per il caldo, la ressa e lo sfinimento. Se dalla parte del regime qualcuno dovesse aggiungere brogli elettorali alla manipolazione dei mezzi di informazione, che cosa dirà lei? Anche se la Lega nazionale per la democrazia dovesse aggiudicarsi tutti e 47 i seggi in palio, controllerebbe poco più del 10 per cento di una camera bassa dominata dal Partito di unione, solidarietà e sviluppo (la formazione creata dai militari) e dai 110 deputati (un quarto del totale!) nominati direttamente dalle forze armate. Le prossime elezioni politiche non sono previste prima del 2015.
L´unica cosa più grande delle speranze popolari nei suoi poteri miracolosi è la dimensione dei problemi economici e sociali del Paese. Un ruolo centrale in questi problemi, come in Egitto, lo giocano i privilegi economici dei militari. «Non voglio chiedervi di cosa avete bisogno prima delle elezioni», ha detto agli elettori in un orfanotrofio, «ma ve lo chiederò dopo; vi prometto che tornerò presto». Ma che succederà se non riuscirà a farlo, impantanata in commissioni parlamentari nella remota e artificiale Naypyidaw, la nuova capitale? Che succederà se saprà di cosa ha bisogno la gente, ma non sarà in grado di offrirglielo? Gli osservatori amici sottolineano i rischi di scambiare un tipo di impotenza con un altro.
E poi c´è il complesso rapporto con le minoranze etniche, che costituiscono circa un terzo della popolazione del Paese. E c´è la Cina, che certo non vede di buon occhio la nascita di un fulgido esempio di democrazia filo-occidentale alle porte di casa.
Ma nonostante tutto questo ci sono anche ragioni per essere ottimisti: la Lega nazionale per la democrazia non avrà il tipo di organizzazione che aveva l´Anc in Sudafrica, ma come ha dimostrato Havel in Cecoslovacchia le organizzazioni di massa possono emergere con straordinaria velocità quando si mette in moto una rivoluzione di velluto; c´è la forza sociale e morale dei monaci buddisti (sfido ogni generale birmano a chiedere sprezzantemente «Quante divisioni ha Buddha?», come fece Stalin con il Papa); c´è il fatto che il regime è chiaramente smanioso di veder rimuovere le sanzioni americane ed europee, e dunque in una certa misura è influenzabile; c´è l´altro potente vicino, l´India, che finalmente potrebbe decidere di incoraggiare nella regione quello che pratica in patria, cioè la democrazia; c´è lo slancio popolare che acquisiscono questi processi una volta che si sono messi in modo; e poi c´è lei, The Lady, un tesoro senza prezzo.
Gli astrologi, dopo tutto, sbagliano le loro previsioni, e anche i politologi. Basandoci su quello che sappiamo oggi sembra che la strada dalla prigionia alla presidenza per Aung San Suu Kyi passi ancora per una serie di tornanti difficili e pendenze impegnative. Il 2015 probabilmente è una data di arrivo più realistica del 2013. E quella fine, come hanno scoperto Havel e Mandela, sarà solo un inizio.
(Traduzione
di Fabio Galimberti)

La Repubblica 30.03.12