attualità, politica italiana

Conferenza nazionale sulla Giustizia Relazione di Andrea Orlando, Responsabile Forum Giustizia del Partito democratico

Questa è la prima occasione di riflessione sui temi della giustizia dopo la caduta del governo Berlusconi. C’è stata una politica della giustizia della destra. O piuttosto c’è stata una politica al tempo della destra?
E’ una domanda che riecheggia un dibattito che segnò un altro passaggio storico cruciale del nostro Paese. Ed è una domanda importante per decidere da dove si riparte e che paesaggio ci consegna questo ventennio.
E’ una ricognizione necessaria per chiudere una fase ed aprirne un’altra.
E da questo passaggio di fase dipende un capitolo importante della modernizzazione del Paese.
Salvare l’Italia significa anche salvare il suo sistema giudiziario al collasso e rimuovere l’ipoteca sullo sviluppo che ne è la conseguenza.

La nostra capacità di stare e di esercitare un ruolo in Europa passa in misura significativa per questa sfida.
Una politica presuppone un disegno organico ed un’azione conseguentemente omogenea e coerente. Una politica della giustizia della destra non c’è stata né poteva esserci.
E questo per più ragioni.
La prima è indubbiamente lo stimolo principe della sua azione: i processi di Silvio Berlusconi.
E’ evidente che un impulso di questo tipo è per sua natura contraddittorio ed imprevedibile.
Costringe ad occuparsi prevalentemente di penale, ma a sorpresa può emergere l’esigenza di occuparsi di civile quando in ballo vengono gli interessi di famiglia.
Può imporre la necessità di abbreviare i processi, ovvero non celebrarli, e il giorno dopo di allungarli.
E magari una cosa e l’altra contemporaneamente.
Ma incide anche la specificità del centrodestra italiano che unico in Europa occidentale ha associato alla responsabilità di governo ad elementi di impostazione liberale, seppure nella peculiare accezione italiana, forze populiste e culture di derivazione autoritaria.

Si è generato così un coacervo tutt’altro che omogeneo che ha prodotto politiche contraddittorie ed irrisolte.
L’azione di governo è stata pertanto orientata da esigenze contingenti unite ad azioni ad effetto finalizzate a far leva sulle reazioni emotive dell’opinione pubblica sapientemente alimentate.
Al contempo però ha fortunatamente pesato il permanere di un vasto consenso popolare attorno al nostro impianto costituzionale, un consenso sul quale hanno fatto leva le forze politiche, i settori dell’informazione, i segmenti di società che si sono mobilitati con successo contro i tentativi di perseguire i più evidenti abusi e le più macroscopiche distorsioni.
Un consenso che ha sostenuto la funzione di garanzia assicurata dal Presidente della Repubblica e dagli altri organi costituzionali, contro i quali non a caso, si è sviluppata una violenta quanto inutile campagna di delegittimazione.
C’è stata dunque una politica al tempo di Berlusconi, connotata da finalità contingenti e da culture spesso contraddittorie se non confliggenti.
Questo groviglio di interessi particolari, propaganda ed ideologia,di spinte e reazioni diffuse lascia comunque sul campo macerie.

Ed essendo diverse le cause, la necessità di azioni differenziate per rimuoverle.
Qualcosa è possibile fare già in questo quadro politico,molto si dovrà fare nella battaglia per l’alternativa.
Il dibattito politico e l’azione di governo tenuti in ostaggio da Berlusconi hanno prodotto tre principali conseguenze.
Una caduta verticale dell’efficienza del sistema, una drammatica ipoteca sulla cultura delle garanzie tanto nelle classi dirigenti quanto nell’opinione pubblica più larga, una legittimazione e persino una nobilitazione dei molti corporativismi che connotano il sistema giudiziario italiano.

Sul primo punto i numeri parlano chiaro.
In Italia si impiegano 1.210 giorni per recuperare un credito; 1.549 giorni è la durata media dei giudizi civili davanti alle Corti d’appello; 740 giorni per un giudizio di separazione; 81 milioni di euro di risarcimenti per la lentezza dei processi con 49.596 richieste solo nel 2010 ; i tempi medi di definizione della giustizia italiana sono pari a sette anni e tre mesi in ambito civile e quattro anni e nove mesi nel penale.

Secondo la relazione del primo presidente della Corte di Cassazione, Ernesto Lupo, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario si registra in campo civile un incremento dei tempi medi di definizione dei processi. In particolare, nei giudizi di appello la durata media è aumentata da 947 giorni nel 2010 a 1.032 nel 2011. Nei tribunali è salita da 456 giorni nel 2010 a 470 giorni. Davanti ai giudici di pace è stata di 353 giorni, rispetto ai 317 del 2010.
In aumento anche la media dei tempi di definizione dei procedimenti penali: da 208 a 234 giorni per i giudici di pace; da 316 a 337 per i tribunali ordinari; da 739 a 901 per le corti di appello.

Le conseguenze sul sistema economico sono pesanti: 2,3 miliardi di euro il costo della lentezza della giustizia per le imprese.
Il Governatore di Bankitalia Visco stima un 1% di PIL perso ogni anno dal nostro Paese per il malfunzionamento del sistema giustizia; Per quanto riguarda la durata dei processi, l’Italia risulta al 158mo posto al mondo nella classifica 2012 della Banca mondiale relativamente a tempi e costi della giustizia civile, perdendo due posizioni rispetto alla classifica 2010.

Difficile è poi un bilancio in termini di caduta dell’autorevolezza e della credibilità dello Stato.
Che cosa significa in zone ad alta presenza mafiosa far attendere sette, otto anni per il recupero di un credito per vie legali?
Numerose analisi del fenomeno mafioso indicano nella capacità di dirimere le controversie tra privati in modo più rapido ed efficiente dello Stato uno degli asset fondamentali del patrimonio simbolico delle organizzazioni criminali.
A rendere irrazionale il sistema c’è la geografia giudiziaria, i tribunali italiani sono 165 con 220 sedi distaccate.
Secondo il CSM 80 sono troppo piccoli, con un numero di magistrati inadatto alle effettive esigenze di lavoro, ben 846 sono gli uffici dei giudici di pace, in totale le sedi di uffici giudiziari sono circa 2.000.

Solo per il costo dei tremila edifici il Ministero della Giustizia spende quasi 300 milioni di euro all’anno.
Il personale della giustizia non è in grado di sopportare i carichi di lavoro anche a causa di pesanti vuoti di organico: l’ANM ha recentemente denunciato una carenza di 1371 magistrati, in gran parte da imputare al blocco dei concorsi tra il 2001 e il 2006. Anche nella magistratura onoraria che ha progressivamente svolto un ruolo di supplenza lo scoperto è di circa 2300 unità su un organico di 4700 posti previsti al momento della sua istituzione.

La scopertura degli organici del personale amministrativo è invece di 4000 unità, su una pianta totale di 38000 persone.
E’ questo a mio avviso il capitolo più dolente in assoluto dello stato dell’arte.
Perché questi vuoti non sono distribuiti in modo omogeneo sul territorio nazionale.
In molte procure ed in molti tribunali del centro nord le carenze di personale giudiziario raggiungono il 40% rispetto a piante organiche adeguate secondo un criterio tutt’altro che scientifico. Ovvero la fotografia della situazione esistente al momento dello scatto .

In molte realtà l’attività d’ufficio è assicurata soltanto dalla buona volontà del personale che si produce in vere e proprie attività di volontariato.
E questo mentre da anni si denunciano esuberi in altri rami della pubblica amministrazione.
La polizia giudiziaria è spesso distratta dalle funzioni d’ufficio per svolgere attività di carattere amministrativo con conseguenti sprechi di risorse e professionalità.

Su nessuno di questi punti critici si è intervenuti in modo sistematico nel corso di questi anni.
Laddove si sono fatti dei passi avanti sul terreno legislativo, ad essi non sono corrisposti fatti concreti, come nel caso dell’informatizzazione.
Le innovazioni prodotte a livello locale sono entrate in conflitto con l’azione ministeriale determinando uno spreco di risorse e di energie e la mortificazione di molte professionalità cresciute sul territorio.
Le condizioni del carcere sono tristemente note.

Ad esse ci richiamano quotidianamente le iniziative dei radicali e delle molte associazioni del volontariato che operano negli istituti penitenziari.
L’ex Ministro Alfano in carica nel 2009 ammise: “Siamo fuori dalla Costituzione riguardo al principio di umanità nell’esecuzione della pena.”
Nei 206 penitenziari italiani, al 29 Febbraio 2012 erano pigiate 66.623 persone a fronte di una capienza regolamentare di 45.083 persone.
E di questi solo 38.195 scontano una pena definitiva. Il 40% non è ancora condannato in via definitiva, il 20% aspetta il primo verdetto.
D’altra parte l’aumento della popolazione carceraria risulta essere inversamente proporzionale alla presenza del personale di polizia penitenziaria.
La pianta organica della polizia penitenziaria è fissata per legge in 45.121 unità.
Ci troviamo, pertanto, con circa 6000 unità in meno.

A ciò si devono sommare le carenze di personale amministrativo, degli assistenti sociali, degli psicologi e degli educatori.
Questi dati si riflettono in modo drammatico nella tragedia dei suicidi di detenuti, 186 lo scorso anno e già 42 nel 2012, fenomeno che si accompagna con la crescita dei casi di violenze e abusi denunciati in numerosi penitenziari e con il sempre più frequente verificarsi di aggressioni alle guardie.
Un dato significativo riguarda la composizione della popolazione carceraria, caratterizzata in gran parte da situazioni di disagio e di emarginazione: circa il 27% appartiene all’area della tossicodipendenza, il 30% a quella dell’immigrazione oltre ad un 10% costituito da altre situazioni di disagio (problemi psichici, alcolismo…).

In compenso nel Paese, secondo le statistiche, più corrotto d’Europa il numero dei detenuti per reati economici e contro la Pubblica amministrazione supera di poco le dita di una mano.
Una composizione che è la rappresentazione plastica delle disfunzioni e delle distorsioni del sistema, fortemente condizionato da una torsione securitaria e al contempo classista e dai tempi inaccettabili dei processi.
Si riflette in quest’ambito il secondo vulnus che si è prodotto in questi anni: lo snaturamento della cultura delle garanzie diventata un sinonimo di impunità per i potenti e per questo sempre più slegata dal concetto di garanzie universali.
Un fenomeno che riguarda anche noi.

Si è infatti allentato il nesso tra progressismo e cultura delle garanzie dando luogo ad un’interpretazione unilaterale ed incompleta del costituzionalismo che è stato uno degli elementi fondanti del pensiero democratico.
Nel senso che si è smarrito o quantomeno indebolito un filone di elaborazione e di iniziative proprio delle culture riformiste, quello delle garanzie dagli abusi del potere pubblico.

Il “Garantismo” innestato nella cultura democratica ha avuto per lungo tempo la funzione di tutelare chi non aveva mezzi economici, sociali ed intellettuali per far valere i suoi diritti costituzionali nei confronti degli apparati pubblici.
Proprio mentre questi diritti fondamentali hanno trasceso dagli ordinamenti nazionali e vengono riconosciuti in modo sempre più efficace dalla giurisdizione internazionale, segno implicito della loro forza espansiva,si è inaridita la battaglia culturale prima ancora che politica per la loro affermazione.

Si è facilitato così che col passare degli anni il termine garantismo assumesse un significato sinistro divenendo l’atteggiamento mentale e la propensione a porsi sempre e comunque dalla parte dell’imputato eccellente per ragioni politiche o economiche.
Un garantismo selettivo, dunque, in quanto espressione di un’insofferenza dei poteri politici ed economici per il controllo giurisdizionale, per la separazione dei poteri e per l’indipendenza dei giudici.

L’interpretazione della Costituzione è molto spesso diventata, in conseguenza di questa impostazione, un pretesto per ricercare per l’indagato sempre nuove occasioni per dilatare i tempi del processo o addirittura per sfuggire ad esso.
E questo tipo di esegesi ha finito per determinare quella che è stata definita la morte del processo.
Un paradosso se si pensa che proprio il processo è secondo il moderno costituzionalismo il luogo delle garanzie.
Legittimando così di fronte all’opinione pubblica l’idea della custodia cautelare e persino dell’avvio delle indagini come pena sostitutiva a quella che il processo, ormai destrutturato, non è in grado di comminare.
A questa impostazione ha fatto seguito nel nostro campo una reazione speculare che anziché contrapporre il carattere originario e proprio del garantismo ed estenderlo al di fuori dell’ambito penale saldando il giusto processo alla giustizia nella società, ha sviluppato una propensione a porsi sempre contro l’imputato, ad assolutizzare le pronunce giurisdizionali fino ad assegnare ad esse un valore etico.

Si è determinata così una nuova stagione del sostanzialismo, fenomeno che accompagna il nostro debole Stato e la nostra debole cultura dello Stato sin dai suoi albori.
Concorre a ciò una politica che ha smarrito gli strumenti ed i luoghi per l’individuazione delle responsabilità e delle sanzioni politiche appunto, e per questo scarica sul processo penale funzioni e finalità improprie.
Un fenomeno che non riguarda peraltro soltanto la politica ma l’insieme di una società che ha progressivamente smarrito prassi e percorsi di autoregolamentazione eticamente orientati e per questo finisce per assegnare alla magistratura un ruolo di regolazione complessiva assolutamente innaturale e porre al processo penale assai più domande di quelle alle quali può fisiologicamente rispondere.

Determinando la frustrazione di una diffusa e come si vede malriposta domanda di giustizia ed un oggettivo sovraccarico sui processi che non di rado determina varie forme di corto circuito.
A questo mutamento semantico si è accompagnata un’esasperazione delle paure dei cittadini; paure e insicurezze alimentate dalla retorica politica dell’ordine e della sicurezza, il tutto completamente slegato dal reale tasso di criminalità del paese.
Uno dei fenomeni più illuminanti è quello della contemporanea riduzione in Italia del numero dei reati verso la persona e l’aumento della percezione dell’insicurezza. In Italia il numero degli omicidi, nonostante le tante mafie e camorre, è di 600 l’anno. Pensate che in Brasile è di 44 mila, negli Stati Uniti di 20 mila.

E lo stesso vale anche nei confronti del nostro passato. Nell’Italia di fine Ottocento gli omicidi erano circa 4.000, negli anni Cinquanta erano 2.000, con una popolazione inferiore. Si è avuta una diminuzione della violenza criminale ed un aumento della paura e dell’insicurezza alimentata da quella fabbrica che è la televisione. I talk show, i vari dibattiti televisivi sui crimini più efferati e soprattutto la cronaca nera presentata come prima notizia.

Su questo senso comune ha fatto leva il populismo penale, coniugandosi con il populismo politico, ed è divenuto fattore di depressione dello spirito pubblico, rompendo i legami sociali, creando paura e insicurezza.
La terza conseguenza che richiamavo è quella che nell’assenza di un’azione riformatrice coerente e con la potente presenza del fattore Berlusconi si sono combinate e legittimate posizioni corporative in tutti gli ambiti del settore.
Le reazioni rabbiose ad ogni cambiamento sono tipiche di un sistema che ha smarrito una visione d’insieme nel quale le singole componenti sono state volutamente ed irresponsabilmente contrapposte.

Se questo è lo scenario che la destra ci consegna, ed io credo lo sia, allora la ricostruzione deve muovere su più piani: quello della bonifica del campo crivellato dallo scontro di questi anni, quello di un disegno di riforma in grado di fare della giurisdizione uno degli elementi di unità e di forza del Paese e quello della battaglia culturale finalizzata, anche modificando il senso comune, a riconnetterci con la cultura costituzionalistica europea.
Le garanzie sono, infatti, l’altra faccia dei diritti e il garantismo è l’altra faccia del costituzionalismo.
Per questo noi dobbiamo avere anche il coraggio di sfidare il senso comune, anche quello che si è sedimentato nel nostro campo spesso attingendo all’armamentario reazionario.

Traendo da questa impostazione le necessarie conseguenze a partire dal progetto di un diritto penale minimo, cioè fondato su una serie di limiti al potere punitivo, legislativo, giurisdizionale ed anche di polizia, nella consapevolezza che la trasformazione del diritto penale in estrema ratio può realizzare anche l’efficienza del sistema penale. Per arrivare ad un ordinamento che nel suo insieme sia in grado di dare effettività ai diritti fondamentali. Non solo quindi una fredda efficienza ma un’ efficacia misurata con questo metro è il nostro obbiettivo.
Dicemmo nel Maggio del 2010 alla nostra Assemblea Nazionale, anche grazie al lavoro che era stato fatto nei due anni precedenti, che i nostri riferimenti per una riforma erano due: la Costituzione ed il cittadino.
La Costituzione tutta.

Ed il cittadino parte lesa, vittima, attore, convenuto, ma anche imputato, condannato.
Ricordando che dietro ciascuna figura, alla luce dei diversi comportamenti e diverse posizioni che meritano diversa tutela, c’è sempre una persona come tale portatrice di diritti insopprimibili.
Indicammo un percorso possibile per le riforme utili al Paese che affrontasse per primi i temi sui quali si registrava la più ampia convergenza, che non a caso erano quelli imposti dalle evidenti emergenze del sistema.
Proponemmo al Governo allora in carica di partire da questi temi per modificare un’agenda che pareva più quella di un imputato che quella di un Paese.
Come sono andate le cose è noto a tutti.
Peraltro non abbiamo mai, e non lo facemmo allora, contrapposto le emergenze evidenti e gli interventi sulla funzionalità ad interventi di riforma che affrontassero le questioni più controverse e spinose.
A partire dal processo penale e dai suoi tempi.
Contro l’agitazione strumentale di questo tema, finalizzata a giustificare il cosiddetto processo breve proponemmo una ricognizione delle norme processuali che distinguesse ciò che costituisce garanzia da ciò che rappresenta una mera occasione di dilazione per decongestionare il processo mediante una seria depenalizzazione, di rendere più trasparente e leggibile l’esercizio dell’azione penale.

E non ci nascondemmo per motivi opportunistici l’esigenza di una seria riflessione su come coniugare la piena indipendenza della magistratura, per la quale ci siamo battuti, con la responsabilizzazione nell’esercizio della giurisdizione vuoi mediante una revisione dei meccanismi del disciplinare, vuoi attraverso la riforma del meccanismo elettorale dell’ autogoverno.
Ed immaginammo così un percorso che aveva come approdo il coordinamento delle diverse giurisdizioni.
Quell’impianto, di cui si è discusso molto, fuori e dentro il partito, ha retto alle prove, non semplici, dei mesi successivi, e ci ha consentito di rispondere con proposte radicalmente alternative a quel precipitato di propaganda e pulsioni autoritarie definita come “riforma epocale” (in effetti un epoca l’ha chiusa).

Quelle proposte, va detto, collocandosi all’interno del quadro costituzionale vigente ci ha consentito di valorizzare l’attualità della Carta fondamentale senza arroccarsi in chiusure corporative e antistoriche. Questa posizione ci è stata rimproverata, è stata scambiata per ingenuità o peggio per complicità.
Credo invece che il Pd abbia saputo dimostrare come si possano coniugare battaglie intransigenti e capacità progettuale. E come i due termini possano reciprocamente rafforzarsi.
E’ proprio quest’atteggiamento che ci consente oggi di porci dal punto di vista generale e di poter svolgere un ruolo di sintesi e di equilibrio tra le diverse componenti del mondo giudiziario.
Credo che il PD debba rivendicare il merito di non essersi fatto ingabbiare dalle contingenze e in forza di ciò di avere promosso il dialogo con tutte le componenti del sistema giudiziario.
Abbiamo illustrato le nostre proposte in oltre venti tappe di un viaggio che ci ha fatto visitare alcune delle sedi giudiziarie del Paese ed incontrare magistrati, avvocati e personale giudiziario.

Credo che quell’impianto mantenga la sua validità anche se ci sono da aggiornare alcune proposte e da colmare alcune lacune che nel corso di questi due anni si sono evidenziate.
In particolar modo c’è da chiedersi se non si possa superare, alla luce delle novità politiche che si sono determinate, la particolare cautela che ci aveva fatto derubricare all’epoca, qualsiasi ipotesi di intervento che avesse un riflesso costituzionale.
Mi riferisco specificamente all’obbiettivo dell’unificazione delle giurisdizioni sotto il profilo disciplinare e dell’autogoverno.
E’ infatti sempre meno difendibile un meccanismo di accertamento della legittimità che può pronunciarsi in tre modi diversi sullo stesso fatto che può essere qualificato dal punto di vista della giustizia ordinaria, di quella contabile e di quella amministrativa.
Così come se è urgente ed auspicabile un intervento di depenalizzazione è evidente che questo enfatizzerebbe l’esigenza di assicurare piena indipendenza alla magistratura amministrativa.
Peraltro le vicende legate alla corruzione emerse in questi mesi pongono l’urgenza di superare la commistione tra funzioni giurisdizionali e funzioni amministrative.

Non ci sono forse i tempi per affrontare in modo organico questo punto cruciale dell’assetto della giurisdizione. Tuttavia penso si possa riavviare una riflessione sul punto.
Il Pd promuoverà per questo uno specifico momento di approfondimento.
Con la nascita del Governo Monti si è modificata l’agenda, colmando il clamoroso divario che, in quest’ambito più che in ogni altro, la destra aveva determinato tra esigenze del Paese e azione di governo.
Le priorità che il Ministro Severino ha illustrato al Parlamento in occasione della relazione sull’amministrazione della giustizia sono 4 emergenze (deficit di efficienza degli uffici, eliminazione dell’arretrato nel civile, razionalizzazione amministrativa degli uffici giudiziari) ed hanno molti punti di contatto con le emergenze che denunciammo, e sulle quali avanzammo la nostra proposta programmatica, nel maggio 2010 (giustizia civile, carcere, organizzazione degli uffici giudiziari).

Naturalmente essere d’accordo sui titoli non significa essere automaticamente d’accordo sullo svolgimento dei singoli temi. E soprattutto anche interventi parziali devono avere l’ambizione di stare dentro a quell’obbiettivo di riforma complessiva, di ardita modernizzazione di cui il Paese ha bisogno in tutti i suoi campi.
Per questo è urgente un confronto aperto che chiami tutte le forze politiche e sociali ad una assunzione di responsabilità che espliciti senza ipocrisie divergenze e punti di unità, un confronto che non sia dettato soltanto dalle contingenze del giorno e che elimini ogni equivoco.

In questo senso il Governo ha l’onere della prima mossa.
Lo stesso obbiettivo dell’efficienza può realizzarsi mediante modelli tra loro assai diversi.
La razionalizzazione del flusso di procedimenti in entrata, ad esempio, si può realizzare mediante la prosecuzione dell’innalzamento dei costi per l’acceso alla giustizia oppure affrontando i fattori che generano la domanda di giustizia.
Noi riteniamo che si debba seguire la seconda strada.
E riteniamo invece che il carattere pubblico ed unitario della giurisdizione sia tutt’uno con la sua terzietà.
Nel corso di questi anni abbiamo assistito ad un tentativo talvolta strisciante, talvolta esplicito di intaccare la natura pubblica del servizio.
Si pensi ad una certa impostazione che ha accompagnato la media conciliazione o alle clausole compromissorie previste nel collegato al lavoro.
E’ in questo quadro che diciamo si ad una specializzazione della giustizia ordinaria che consenta una più adeguata risposta alle esigenze delle imprese, ma esprimeremmo perplessità se questo progetto dovesse risolversi in una sorta di giurisdizione speciale che lasciando inalterato il funzionamento di quella civile aprisse corsie privilegiate per alcuni soggetti, in funzione di criteri patrimoniali o economici.

E’ invece appunto urgente lavorare sull’insieme del funzionamento della giustizia civile.
L’attuazione della delega non ha compiutamente risolto il tema della unificazione dei riti. Pensiamo si debba tornare sull’argomento, ma pensiamo altresì che non sia più sufficiente soffermarsi sulle regole del processo, occorre agire sul suo concreto funzionamento.
Per questo sottolineiamo l’esigenza di fare della figura dell’assistente del giudice il primo tassello dell’ufficio del giudice. Ed è quest’ultima la condizione essenziale per un salto di qualità nella trattazione delle cause.
E riteniamo che invece si debba agire sulle cause della domanda incentivando le buone pratiche della targatura dei flussi in entrata e con accordi con i soggetti che generano contenzioso seriale, si pensi agli enti di previdenza .
A suo tempo abbiamo manifestato le nostre perplessità, non sull’istituto, ma sulla modalità dell’attuazione della media conciliazione.

Una immediata obbligatorietà in assenza di un’effettiva formazione dei soggetti abilitati alla mediazione, ha rischiato e rischia di imporre al cittadino un quarto grado di giudizio, in assenza delle garanzie e appunto della qualità, degli altri tre gradi.
Si rischia di assegnare ad improvvisati giudici la soluzione di controversie tutt’altro che prive di rilievo per la vita delle persone.
Naturalmente siamo consapevoli che chi assume l’obbiettivo della difesa della natura pubblica della giurisdizione a questo punto ha anche l’onere di indicare strategie adeguate per la sua razionalizzazione e per l’ottimizzazione delle risorse.
Per questo abbiamo sollecitato una revisione della geografia giudiziaria.
Due anni fa, quando il governo in carica negava l’opportunità di questo intervento suggerimmo un criterio che onestamente ci pare più funzionale e chiaro di quelli contenuti nella delega, basati su oscuri algoritmi e simbologie cabalistiche.
Un tribunale ogni provincia ad eccezione delle aree metropolitane, i tribunali minori, così soppressi, trasformati in sezioni distaccate ed una valutazione rimessa ai presidenti di tribunali in ordine al mantenimento o alla chiusura delle stesse. Questo è il nostro approccio.

Se questa ipotesi non fosse condivisa proponiamo alle altre forze politiche un patto, sentito il territorio, per la chiusura di 30 tribunali.
Vorremmo, infatti, evitare che una trattativa tutt’altro che trasparente generi una situazione di confusione ed una reazione diffusa che può finire con il produrre l’ennesimo rinvio di una questione non più procrastinabile.
Va invece dato corso alle indicazioni legislative nel processo telematico, indicazioni che hanno trovato attuazione assai differenziata nella realtà giudiziaria.
Va tuttavia riconosciuto come l’innovazione sul territorio si sia realizzata grazie alla collaborazione tra uffici giudiziari ed enti locali.
Un processo che ha prodotto eccellenza ed al contempo, in assenza di una regia e di precisi parametri, il rischio di inopportune contiguità.
Per questo riteniamo essenziale istituire una struttura di monitoraggio presso la conferenza Stato Regioni sancendo anche formalmente la fine del monopolio ministeriale in questo campo.
Conveniamo sulla direzione di marcia assunta dal Governo Monti sul tema del carcere.
Seppure il cosiddetto decreto “ svuota carceri” avrà forse esiti quantitativi contenuti, a causa delle molte interdizioni esercitate dalla destra preoccupata di accrescere troppo le distanze dalla lega, segna nel contesto culturale che abbiamo descritto una prima inversione di tendenza.

Tanto più se si pensa che fino a pochi mesi fa la strategia maestra indicata dal ministero per affrontare il sovraffollamento consisteva nella costruzione di nuove carceri.
Sia la riflessione che il provvedimento ha indotto sui caratteri della custodia cautelare, sia il tentativo di fermare il processo di identificazione tra pena e carcere possono costituire i presupposti per ulteriori passi nella giusta direzione.
Fa ben sperare anche la scarsa presa avuta dalla campagna propagandistica che Idv e Lega hanno cercato di imbastire nel dibattito di conversione del decreto, parlando di una nuova amnistia, segno questo oltreché dell’evidente strumentalità degli argomenti di un primo mutamento dell’opinione pubblica sino a pochi mesi fa estremamente reattiva alle parole d’ordine forcaiole.

Dovremmo cominciare a considerare il carcere come l’estrema ratio, riservata ai reati più gravi, ed applicare ai reati più lievi quelle forme di limitazione della libertà personale meno restrittive e segregative, rispetto a quanto sia la carcerazione.
Questa differenziazione delle pene deve riflettere una differenziazione dei beni giuridici ritenuti meritevoli di punizione proprio per non screditare il diritto penale attraverso la sanzione uguale di reati di rilevante diversità quanto alla loro gravità.
Intanto, ora si tratta di proseguire dando corso alla delega sulla depenalizzazione e all’istituzione della messa alla prova e sviluppando la gamma delle pene alternative al carcere.
Nella stessa direzione va la proposta di Legge Tenaglia per l’archiviazione per tenue entità o inoffensività del fatto, che ci auguriamo sia rapidamente approvata.

Nella prosecuzione di questa legislatura pensiamo sia ipotizzabile un intervento sul tema della custodia cautelare che superi in primo luogo gli automatismi, introdotti da una normativa scritta più per esigenze mediatiche che per ragioni di sicurezza o procedurali.
Sappiamo che non ci sono le condizioni per un congiunto intervento sui codici. E in quella sede procedere ad una riforma organica della prescrizone.
Così come sappiamo che sia necessaria una revisione organica del processo penale segnato da continui e non sempre armonici interventi che hanno stravolto e contraddetto l’impianto del codice dell’89.
Per operazioni organiche di questo tipo non credo ci sia né il tempo né la necessaria omogeneità politica della maggioranza.
Tuttavia l’anno che ci separa dalle elezioni potrebbe essere utilmente impiegato per una serie di interventi puntuali su notifiche, impugnative, processi contumaciali.
A tal fine proponiamo al governo l’istituzione di un tavolo di confronto tra avvocatura e magistratura che istruisca i necessari passaggi istituzionali.
Credo che il PD debba in vista della definizione di un programma per l’alternativa assumere l’indicazione di Luigi Ferrajoli, per la previsione di una riserva di codice per la definizione dei reati.
Per dirla con le sue parole “una rifondazione della legalità penale. In Italia abbiamo qualcosa come diecimila figure di reato e una quantità sterminata di leggi speciali e soprattutto di codicilli penali applicati a qualsiasi legge, col risultato che la legalità penale si è disgregata.

E’ stata dichiarata la bancarotta del diritto penale con una famosa sentenza del 1988, che stabilì che in questo ginepraio l’ignoranza della legge deve comunque inevitabilmente scusare quando il più esperto penalista non è in grado di conoscere tutto il diritto penale.
Noi ci troviamo di fronte ad una disfunzione legislativa in forza della quale la pena è stata sempre considerata l’unica forma di responsabilizzazione, efficace anche per il carattere demagogico e congiunturale, che viene associato all’intervento punitivo, dobbiamo quindi renderci conto di come questa inflazione penale comporta un crollo del principio di legalità, dell’obbligatorietà dell’azione penale.”
Se è vero che non ci sono le condizioni per intervenire oggi sui codici c’è però l’esigenza di dare segnali chiari che dicano che non si è soltanto chiusa una fase ma che se ne sta aprendo un’altra.
Io credo che questo possa avvenire con tre fatti concreti.
Il primo è l’abolizione della cosiddetta ex Cirielli.
Il vero emblema della politica giudiziaria della destra ed una delle cause del sovraffollamento carcerario.
Un doppio binario penale che prevede prescrizioni lampo per gli amici e pene draconiane per i delinquenti di strada.
Con conseguenze che non solo contraddicono come è ovvio il principio di eguaglianza ma anche la razionalità penalistica.
Della capacità di prevenzione, infatti, del diritto penale non si può parlare in astratto o in maniera uguale per tutti i tipi di reati.
Dobbiamo riconoscere che l’efficacia intimidatoria e deterrente del diritto penale è direttamente proporzionale al grado di esigibilità dell’osservanza.
E’ massima per i reati di sangue ma anche per i reati dei colletti bianchi laddove l’impunità è un fattore criminogeno, mentre è praticamente inesistente per la cosiddetta delinquenza di strada, nei cui confronti si sono accaniti i diversi pacchetti di sicurezza.

Il delinquente di strada non viene nemmeno a sapere dell’inasprimento punitivo e processuale nei confronti di questo tipo di delinquenza che, tuttavia, deve essere punita, gli inasprimenti punitivi non servono assolutamente a nulla.
Sono soltanto il segno di un uso congiunturale e demagogico del diritto penale per soddisfare gli umori forcaioli della società.
Il Pd ha già depositato un progetto di legge finalizzato alla sua cancellazione di cui chiederà nei prossimi giorni la calendarizzazione .
Il secondo è rappresentato dalla abolizione del reato di immigrazione clandestina.
Un abominio giuridico che punisce gli individui per il loro status non per un concreto comportamento.
Gli organismi internazionali hanno già censurato queste norme depotenziandone la portata.
Tuttavia resta il valore simbolico.
Io penso che il Pd debba raccogliere le firme per proporre una legge di iniziativa popolare per la sua abolizione.
E’ una occasione importante per una presa di coscienza collettiva su come non possa essere una norma penale a regolare un fenomeno complesso, strutturale e storico come quello dell ’immigrazione.
Ed anche un modo per dimostrare di fronte all’opinione pubblica che chi lo sostiene mente sapendo di mentire.
Lo ha fatto come ha spiegato la corte di giustizia europea per nascondere il fallimento delle politiche di contrasto alla clandestinità.

La corte europea ci ha detto, infatti, che se si è capaci i clandestini vanno rimpatriati e non incarcerati.
Il terzo è costituito dalla rapida approvazione delle norme necessarie a rafforzare la lotta alla corruzione e alle sue cause.
La corruzione rappresenta un fenomeno in costante crescita nel nostro Paese. Si tratta di una situazione molto diversa dal sistema scoperchiato da Tangentopoli.
Non siamo infatti di fronte ad un sistema dei partiti che occupa spazi che non gli competono alimentando il circuito del finanziamento illecito delle forze politiche e delle loro correnti, ma ad una politica e ad un assetto istituzionale deboli, che possono quindi essere occupate da cricche e gruppi di potere che fanno dell’occupazione di spazi pubblici il presupposto del loro arricchimento.

Un contesto che a sua volta facilita l’infiltrazione delle grandi organizzazioni criminali.
La corruzione rappresenta un peso rilevante per la coesione sociale, promuovendo egoismo ed irresponsabilità, ma anche per l’ economia del Paese, con un costo stimato di 60 miliardi l’ anno e con il suo peso sul piano della nostra credibilità verso chi vuole investire in Italia.
E’ un fenomeno che non si vince soltanto con nuove sanzioni.
L’azione di contrasto alla corruzione deve misurarsi con la battaglia per la promozione dell’ etica pubblica e con la lotta alle sue cause.
Occorre poi rimuovere le condizioni che facilitano la corruzione, a partire dalle gestioni speciali, terreno privilegiato della illegalità.
Energia, appalti, grandi eventi devono tornare a rispondere a procedure certe e definite.
Inoltre la corruzione si combatte con la semplificazione dei modelli organizzativi, con regole e controlli interni più efficaci nella pubblica amministrazione, con un rigido regime delle incompatibilità, che spezzi le commistioni fra politica, amministrazione, interessi privati e giustizia.

Un insieme di provvedimenti quindi per prevenire illegalità e malaffare, perché l’intervento penale rappresenti l’ ultima trincea in una lotta alla corruzione che prima di tutto sappia scoraggiare e prevenire il fenomeno.
In questo senso il PD ha avanzato proposte di riforma della legislazione lo scorso anno.
Non bastano le sanzioni, abbiamo detto, ed al contempo occorrono sanzioni differenziate a partire da quelle economiche che potranno avere l’ effetto di rafforzare l’efficacia deterrente delle sole sanzioni detentive.
Le proposte del Pd riguardo alla disciplina penale della corruzione risalgono ad un progetto di legge presentato dal nostro gruppo al Senato nel maggio 2010; gli stessi contenuti li abbiamo espressi in un testo presentato alla Camera ed in numerosi emendamenti al Disegno di legge sulla corruzione.
Nel merito, le proposte formulate sono sintetizzabili nella parola d’ordine: “tolleranza zero per la corruzione”.
Esse mirano infatti a rafforzare al massimo grado la repressione dei fenomeni corruttivi, dando attuazione alle convenzioni firmate dall’Italia e recependo le sollecitazioni che provengono da anni dagli organismi internazionali.
La priorità indiscussa è l’attuazione della Convenzione di Strasburgo sulla corruzione del 27 gennaio 1999, che è stata approvata solo qualche giorno fa dal Senato.

In questa direzione, abbiamo tentato di armonizzare la legislazione italiana alle indicazioni della convenzione, non solo nel senso di introdurre quelle fattispecie che ancora non sono presenti nel nostro ordinamento, ma anche nel senso di uniformare i reati già presenti nel codice all’impostazione europea ed internazionale.
E’ in questo contesto che si inserisce la riscrittura della fattispecie della concussione a favore di un ampliamento delle ipotesi di estorsione aggravata (dove dovrebbero confluire le condotte di costrizione per violenza e minaccia) e di corruzione (dove confluirebbero quelle per induzione ) prevedendo un conseguente aumento delle pene edittali, oltre alla pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici obbligatoria, quale che sia l’entità della pena comminata in caso di condanna.
Il messaggio che si vuole mandare ai cittadini è semplice: non devono mai assecondare le suggestioni illecite provenienti da un pubblico ufficiale, cedere alle sue richieste indebite.
D’altronde, non solo il reato di concussione non è previsto dalla Convenzione di Strasburgo, ma addirittura sono già diversi anni ormai che l’OCSE sollecita l’Italia ad abbandonare questa fattispecie, che non ha equivalente nella maggior parte delle legislazioni dei paesi occidentali e perciò potrebbe costituire un freno nella lotta alla corruzione internazionale e persino impedire l’estradizione all’estero di individui colpevoli.
Il pericolo paventato dall’OCSE è quello che dietro alla concussione si celi il rischio di lasciare impunita una delle forme di corruzione.

Si vuole inoltre introdurre il reato del traffico di influenze illecite, secondo le indicazioni dell’art. 12 della convenzione di Strasburgo del 1999 e dell’art.18 della convenzione Onu (Merida ); ampliare l’ambito della corruzione fra privati, aumentare le pene della maggior parte dei reati contro la pubblica amministrazione, introdurre il reato di autoriciclaggio, ripristinare il falso in bilancio, allungare i termini di prescrizione, punire più severamente i reati contro il fisco. In aggiunta vi sono anche forme di riparazione pecuniaria punitiva contro i corruttori e strumenti premiali per incentivare la rottura dell’omertà che spesso caratterizza i patti corruttivi.

Su queste proposte non facciamo né scambi né trattative. Siamo disponibili a discutere con tutte le forze politiche su quali sono le formulazioni normative più adeguate. Non a legare la durata della legislatura o del Governo all’attenuazione di questa azione.
Tra le lacune da colmare riguardo alla piattaforma del Maggio 2010 c’è indubbiamente il tema dell’avvocatura.
Pesava allora una distanza che si era creata tra noi ed il mondo forense dovuta a pregiudizi ideologici, cattiva propaganda, errori di comunicazione.

Abbiamo lavorato nel corso di questi due anni per ricostruire un rapporto con l’insieme dell’avvocatura, le sue rappresentanze ed il variegato mondo associazionistico forense ed elaborare una proposta in proposito.
Voglio, in proposito augurare una pronta guarigione al professor Alpa, colpito nei giorni scorsi da un attacco cardiaco.
Superare la crisi dell’avvocatura costituisce un passaggio fondamentale per affrontare quello della giurisdizione.
Dobbiamo in proposito riconoscere un nostro limite, quello cioè di aver affrontato il tema in termini economicistici, come se si trattasse soltanto di una questione di costi e non invece del ruolo di un ceto che aveva retto nel suo sviluppo la giurisdizione e costituito una parte significativa del bacino in cui si è selezionata la classe dirigente del Paese.
La destra ha colto questo limite ed ha cercato di costruire una risposta corporativa che ha interpretato il malessere e l’insicurezza di questo mondo.

Ma l’efficacia di questa risposta si è dimostrata, in breve tempo, nulla.
In questo campo come in molti altri non si affronta la competizione internazionale con fragili steccati normativi, ne produce risultati, se non sul piano della propaganda, la chiusura delle stalle quando i buoi sono da tempo fuggiti.
Per tre lunghi anni si è sventolata come la panacea la riforma forense il cui iter legislativo subiva improvvise accelerazioni in vista delle tornate amministrative locali.

Nell’ultimo anno del Governo Berlusconi mentre con una mano si prometteva all’avvocatura la chiusura degli accessi e la reintroduzione dei limiti tariffari con l’altra si scrivevano norme sotto dettatura dell’Europa che andavano in direzione diametralmente opposta.
Va ascritto a merito del governo Monti l’essere tornato a parlare con una sola voce impostando un confronto finalmente serio.
Ma una risposta strutturale alla crisi determinata anche dall’accesso incontrollato dell’ultimo decennio alla professione non si può affrontare con le sole regole che disciplinano la professione stessa.
Occorre affrontare la dimensione sociale del fenomeno e cioè la proletarizzazione della categoria.
E’ necessario riconoscere la presenza di figure parasubordinate che operano nei grandi studi e che si distinguono da quella del professionista sul quale è disegnato lo status sino ad oggi.

Ed è necessario trasformare il numero degli iscritti all’albo da emergenza sociale a possibile risorsa per un riassetto complessivo della giurisdizione, in connessione alla riforma della magistratura onoraria, della ridefinizione del ruolo del notaio, in riferimento alla costituzione dell’ufficio del processo, con corsie privilegiate legate all’accesso alla media conciliazione.
Per questo è necessario procedere al più presto ad un tavolo contro la crisi dell’avvocatura che oltre ai soggetti interessati coinvolga l’università, la magistratura, il ministero del lavoro e quello dello sviluppo oltre ovviamente a quello della giustizia.
Un atto significativo in grado di rafforzare l’unità della giurisdizione ed il ruolo dell’avvocatura è al contempo l’incremento della presenza di quest’ultima nei consigli giudiziari, un obbiettivo perseguibile anche in breve tempo.
Tra le questioni volutamente eluse due anni fa c’è quella della responsabilità civile dei magistrati.
Non ci pareva salutare aprire un dibattito su questo tema mentre si realizzava la più straordinaria aggressione legislativa e mediatica alla magistratura che la storia repubblicana abbia visto.

Sapevamo tuttaviache il problema non poteva considerarsi pienamente risolto con la Legge Vassalli.
Il numero dei procedimenti arrivati a termine lo dice loquentemente.
Per questo avevamo partecipato nelle commissioni parlamentari all’elaborazione di alcune ipotesi di correzione del meccanismo.
L’On.le Pini è riuscito nel non semplice intento di peggiorare la situazione.
La norma che assume come pretesto una sentenza della Corte europea riferita all’interpretazione del diritto comunitario, innesca un nuovo meccanismo a catena destinato ad orientare in senso conformistico l’attività giurisprudenziale.
La citazione del singolo giudice finirà inevitabilmente per condizionare preventivamente l’attività del giudice, addirittura, sin dall’individuazione delle priorità nell’ambito penale. A scapito tanto per cambiare dei soggetti più deboli e a detrimento delle garanzie processuali.
Non è un caso che nessuno degli ordinamenti europei preveda questo meccanismo.
La sede per affrontare la questione non è la legge comunitaria.
Ci si può confrontare su come attenuare il filtro che valuta i ricorsi, rivedere la tipizzazione della responsabilità ed incrementare le probabilità di rivalsa dello Stato sul singolo magistrato a seguito di giudizio definitivo.
Il presupposto fondamentale è che con la Legge comunitaria si risponda strettamente a ciò che la Corte europea ha sollevato, ed in seguito si proceda allo stralcio della norma fissando un termine congruo entro il quale portare alle Camere un disegno di legge ad hoc.

Non è un amnesia invece che oggi ci impedisce di affrontare il tema degli strumenti necessari alla lotta alle mafie.
Abbiamo valutato ormai limitativo il campo della giustizia ed anche quello della sicurezza da un fenomeno che è sempre più sociale, economica e politico oltreche ovviamente criminale.
Per questo nel trentesimo della morte di Pio La Torre e a vent’anni da quella di Falcone e Borsellino dedicheremo una serie di momenti di approfondimento e poi in collaborazione con il forum sicurezza, il dipartimento economia e quello che si occupa di istituzioni una conferenza nazionale sulla lotta alle mafie.
Queste sono le nostre idee e le nostre proposte che saranno ulteriormente esplicitate dalle comunicazioni che seguiranno . Sono il frutto di un lavoro collettivo per il quale ringrazio tutti coloro che hanno contribuito.
Alcune per affermarsi hanno bisogno di tempo e battaglia politica. Altre potranno essere utili sin dai prossimi giorni nell’iniziativa parlamentare e nel dibattito pubblico.
Tutte sono sottoposte al confronto, a partire da quello di oggi e poi a quello che si svilupperà sul territorio grazie alla rete che si è sviluppata intorno al forum.

Il prossimo mese riuniremo l’assemblea degli avvocati iscritti al Pd, una struttura che funziona positivamente ormai da un anno.
Il prossimo obbiettivo che ci diamo è quello di far uscire questa discussione dalla ristretta cerchia degli addetti ai lavori. E’ questo un modo per limitare il peso dei corporativismi e di recuperare sino in fondo la portata dell’argomento: come modernizzare un’infrastruttura essenziale per la vita economica del Paese e per la qualità della sua democrazia.
Una portata di cui dobbiamo avere piena consapevolezza anche in vista della costruzione delle alleanze.
Sulla giustizia non si possono fare desistenze. Non solo perchè è stata la causa in questi venti anni di fibrillazioni e rotture tra le forze politiche dentro di esse ma anche perchè il modello di giurisdizione, il sistema della pena, l’assetto del processo alludono ad un’idea di società.

Al concetto che si ha dei rapporti tra Stato ed individuo. Questione fondamentale in un progetto di Governo.
Non è sufficiente per governare insieme affermare che la Legge sia uguale per tutti o difendere insieme l’indipendenza della magistratura.
Sono requisiti necessari ma ormai non più sufficienti.
Un altro degli effetti della caduta del Governo Berlusconi è che questi elementi non bastano più a definire un campo di forze.
Occore dire da che punto di vista ci si vuole mettere per cambiare.
Noi vogliamo metterci dal punto di vista dei più deboli, di chi ha meno forza e meno voce per far valere le proprie ragioni. Ragioni che sono scomparse dalle risse di questi anni.

Al servizio del loro riscatto vogliamo mettere la nostra azione e la nostra forza. Perché è dal loro riscatto che dipende quello del Paese e la possibilità di affermare il concetto di giustizia nella ricchezza di tutti i suoi significati.

Al servizio del loro riscatto vogliamo mettere la nostra azione e la nostra forza. Perché è dal loro riscatto che dipende quello del Paese e la possibilità di affermare il concetto di giustizia nella ricchezza di tutti i suoi significati.

www.partitodemocratico.it