attualità, lavoro

“Un tempo si diceva: L’operaio vale come un cavallo”, di Michele Prospero

Le parole pronunciate da Marchionne alla Bocconi (dove se no?), contro i diritti e in difesa di una più agevolata libertà di licenziamento, sembrano ridare fiato ad un vecchio manuale di diritto commerciale. Il suo autore, G. Ferri, resisteva alla modernizzazione, che allora però aveva un altro segno: l’autonomia collettiva e la programmazione, e sosteneva che nell’impresa doveva sempre regnare una asimmetria di potere. La locatio hominis o contratto, non si distingueva dalla locatio bovis, ciò che contava era il pieno comando della proprietà sul lavoro. Già Locke del resto aveva identificato l’operaio e il cavallo, entrambi strumenti passivi a disposizione del padrone. L’essere dell’operaio, come persona coinvolta profondamente nel suo operare, è per il diritto una scoperta piuttosto recente. Da un ventennio ormai il diritto del lavoro classico, che riconosce il valore del corpo che lavora, scricchiola, eroso da una pioggia insistente di nuovi contratti, concepiti per lo più nel segno modernista della flessibilità e della precarizzazione. L’impatto economico che le infinite tipologie contrattuali hanno riversato sulla crescita e l’occupazione non è stato positivo. Al contrario. È stato sfigurato, visto come un fattore di rigidità, il diritto del lavoro sensibile alle istanze della costituzione, ma senza che lo scambio tra il razionamento dei diritti e un impiego senza qualità abbia portato dei vantaggi in termini di produttività. Meno tutele e caduta drastica degli indici della crescita (e dell’occupazione) costituiscono una smentita ai profeti del modernismo senza diritti. Dopo le nuove riforme dell’articolo 18 che cosa resterà? Sul piano storico il diritto del lavoro si afferma in Europa quando si scopre nella pratica sociale che il mito dell’autonomia negoziale (per cui ogni singolo contratta con l’altro le condizioni di una prestazione subordinata) si infrange duramente contro le scomode realtà che disvelano in un lato dominio e nell’altro sottomissione. La potenza economica, simbolica, politica che l’imprenditore concentra nelle sue mani è troppo soverchiante rispetto all’angusta capacità di influenza che resta nel raggio d’azione di un singolo prestatore d’opera. Il contratto individuale, massima incarnazione del dogma liberale della volontà soggettiva, si rivela una finzione ingannevole. Nelle vesti della astratta eguaglianza formale, il contratto tra singoli appare come uno strumento pieghevole a disposizione del soggetto più forte economicamente, che ha la maniera di imporre agli altri contraenti i tempi, i modi, i luoghi, le remunerazioni, le condizioni del lavoro. Con il contratto individuale di lavoro, il denaro ha un potere di controllo tale da ridurre il singolo lavoratore a un ingranaggio irrilevante. Solo quando i singoli lavoratori possono mettere insieme di fronte al padrone la loro unica forza (il numero) cambiano in maniera significativa le condizioni giuridiche del lavoro. Questa, lo ha chiarito un classico del giuslavorismo come O. Kahn-Freund, è la genesi del diritto del lavoro, invenzione novecentesca, a confine tra diritto privato e diritto pubblico, che in tanti sulla scia di Marchionne vorrebbero oggi consegnare all’oblio. Il diritto del lavoro nasce riconoscendo esplicitamente l’asimmetria di potere esistente tra il dipendente e l’imprenditore, asimmetria che può essere attenuata, non annullata in una economia di mercato solo immettendo visibili correzioni: contratto collettivo, regole pubbliche. La più rapida libertà di licenziamento individuale per motivi economici, in un Paese che non crea nuovi posti e ha da sempre una scarsa mobilità, rappresenta una inversione radicale rispetto al diritto del lavoro classico. Quest’ultimo era nato a garantire una (relativa) protezione del contraente più debole, le manutenzioni odierne mirano a rendere più completo il comando assoluto dell’impresa sul lavoro attraverso un più snello potere di licenziare e disciplinare. L’impresa rivendica una maggiore discrezionalità nei licenziamenti per esigenze di costo (per sbarazzarsi dei lavoratori che sul bilancio pesano di più: con maggiore anzianità di servizio, con più figli a carico, con ripetute gravidanze, con difficoltà fisiche o comportamentali di diversa natura), per motivi di controllo e sorveglianza (dei ribelli, delle teste calde, o semplicemente dei più combattivi), per ragioni simboliche (per mostrare chi comanda nella società e chi ha la forza reale per toccare l’egemonia nelle culture, nelle politiche). Sta emergendo un nuovo e paradossale diritto del più forte. Di diritti a favore del contraente più debole non si muore, come teme Marchionne, spettrale è invece il trionfo della logica d’impresa, agitata come una clava dalle nuove potenze, nostalgiche dei bei tempi antichi quando del lavoratore si poteva fare come per la locatio bovis.

L’Unità 31.03.12

attualità, lavoro

“Un tempo si diceva: L’operaio vale come un cavallo”, di Michele Prospero

Le parole pronunciate da Marchionne alla Bocconi (dove se no?), contro i diritti e in difesa di una più agevolata libertà di licenziamento, sembrano ridare fiato ad un vecchio manuale di diritto commerciale. Il suo autore, G. Ferri, resisteva alla modernizzazione, che allora però aveva un altro segno: l’autonomia collettiva e la programmazione, e sosteneva che nell’impresa doveva sempre regnare una asimmetria di potere. La locatio hominis o contratto, non si distingueva dalla locatio bovis, ciò che contava era il pieno comando della proprietà sul lavoro. Già Locke del resto aveva identificato l’operaio e il cavallo, entrambi strumenti passivi a disposizione del padrone. L’essere dell’operaio, come persona coinvolta profondamente nel suo operare, è per il diritto una scoperta piuttosto recente. Da un ventennio ormai il diritto del lavoro classico, che riconosce il valore del corpo che lavora, scricchiola, eroso da una pioggia insistente di nuovi contratti, concepiti per lo più nel segno modernista della flessibilità e della precarizzazione. L’impatto economico che le infinite tipologie contrattuali hanno riversato sulla crescita e l’occupazione non è stato positivo. Al contrario. È stato sfigurato, visto come un fattore di rigidità, il diritto del lavoro sensibile alle istanze della costituzione, ma senza che lo scambio tra il razionamento dei diritti e un impiego senza qualità abbia portato dei vantaggi in termini di produttività. Meno tutele e caduta drastica degli indici della crescita (e dell’occupazione) costituiscono una smentita ai profeti del modernismo senza diritti. Dopo le nuove riforme dell’articolo 18 che cosa resterà? Sul piano storico il diritto del lavoro si afferma in Europa quando si scopre nella pratica sociale che il mito dell’autonomia negoziale (per cui ogni singolo contratta con l’altro le condizioni di una prestazione subordinata) si infrange duramente contro le scomode realtà che disvelano in un lato dominio e nell’altro sottomissione. La potenza economica, simbolica, politica che l’imprenditore concentra nelle sue mani è troppo soverchiante rispetto all’angusta capacità di influenza che resta nel raggio d’azione di un singolo prestatore d’opera. Il contratto individuale, massima incarnazione del dogma liberale della volontà soggettiva, si rivela una finzione ingannevole. Nelle vesti della astratta eguaglianza formale, il contratto tra singoli appare come uno strumento pieghevole a disposizione del soggetto più forte economicamente, che ha la maniera di imporre agli altri contraenti i tempi, i modi, i luoghi, le remunerazioni, le condizioni del lavoro. Con il contratto individuale di lavoro, il denaro ha un potere di controllo tale da ridurre il singolo lavoratore a un ingranaggio irrilevante. Solo quando i singoli lavoratori possono mettere insieme di fronte al padrone la loro unica forza (il numero) cambiano in maniera significativa le condizioni giuridiche del lavoro. Questa, lo ha chiarito un classico del giuslavorismo come O. Kahn-Freund, è la genesi del diritto del lavoro, invenzione novecentesca, a confine tra diritto privato e diritto pubblico, che in tanti sulla scia di Marchionne vorrebbero oggi consegnare all’oblio. Il diritto del lavoro nasce riconoscendo esplicitamente l’asimmetria di potere esistente tra il dipendente e l’imprenditore, asimmetria che può essere attenuata, non annullata in una economia di mercato solo immettendo visibili correzioni: contratto collettivo, regole pubbliche. La più rapida libertà di licenziamento individuale per motivi economici, in un Paese che non crea nuovi posti e ha da sempre una scarsa mobilità, rappresenta una inversione radicale rispetto al diritto del lavoro classico. Quest’ultimo era nato a garantire una (relativa) protezione del contraente più debole, le manutenzioni odierne mirano a rendere più completo il comando assoluto dell’impresa sul lavoro attraverso un più snello potere di licenziare e disciplinare. L’impresa rivendica una maggiore discrezionalità nei licenziamenti per esigenze di costo (per sbarazzarsi dei lavoratori che sul bilancio pesano di più: con maggiore anzianità di servizio, con più figli a carico, con ripetute gravidanze, con difficoltà fisiche o comportamentali di diversa natura), per motivi di controllo e sorveglianza (dei ribelli, delle teste calde, o semplicemente dei più combattivi), per ragioni simboliche (per mostrare chi comanda nella società e chi ha la forza reale per toccare l’egemonia nelle culture, nelle politiche). Sta emergendo un nuovo e paradossale diritto del più forte. Di diritti a favore del contraente più debole non si muore, come teme Marchionne, spettrale è invece il trionfo della logica d’impresa, agitata come una clava dalle nuove potenze, nostalgiche dei bei tempi antichi quando del lavoratore si poteva fare come per la locatio bovis.

L’Unità 31.03.12