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"In nome della madre una storia esemplare", di Sebastiano Vassalli

Quella di Denise, la figlia di Lea Garofalo uccisa e sciolta nell’acido vicino a Milano nel 2009, è una storia esemplare. Non solo è un dramma personale e familiare, ma è anche il nostro dramma. Una storia terribile, quella di Lea Garofalo uccisa e sciolta nell’acido vicino a Milano nell’autunno del 2009. Una storia che mescola vicende personali e legami di ‘ndrangheta in un groviglio così intricato da non essere quasi raccontabile: siamo di fronte ad una di quelle vicende a cui si riferiva Louis-Ferdinand Céline quando diceva che, in letteratura, non darebbero un risultato realistico ma grottesco. Ne verrebbe fuori un pasticcio, una caricatura.
Più raccontabile, invece, e a suo modo esemplare, è la storia della figlia di Lea, Denise: che ora ha diciannove anni (ne aveva diciassette all’epoca dei fatti), ed è stata la testimone chiave di un processo che ha condannato all’ergastolo sei imputati. Il padre della ragazza, due suoi zii e altri tre mafiosi. Il dramma di Denise è innanzitutto un dramma personale e familiare: figlia di un padre-mostro e nipote di altri due mostri (usciamo, una buona volta, dal «politicamente corretto», e chiamiamo i mostri con il loro nome), Denise ha avuto il coraggio e la lucidità di fare la cosa giusta. Ma il suo dramma è anche una storia esemplare: è il nostro dramma, perché dietro questa vicenda c’è la Calabria. Una terra stremata dall’emigrazione, che ha disperso nel mondo le sue forze migliori ed è ormai in qualche misura alla mercé di quelle peggiori. Una terra sempre più rassegnata. Diversamente dalla Sicilia: che non ha risolto tutti i suoi problemi, figuriamoci!, ma insomma ha le forze e le capacità per combatterli.
La Calabria di oggi quelle forze sembra non averle, e in compenso ha una mafia ancora più violenta e invasiva di quella siciliana, che è arrivata ad infettare gran parte dell’Italia del nord, dalla Liguria alla Lombardia, dal Piemonte all’Emilia Romagna.
Indro Montanelli diceva dei siciliani che sono italiani esagerati, nel bene e nel male. Dei calabresi di oggi si potrebbe forse dire che sono italiani rassegnati. Non credono che le cose, nella loro terra, possano cambiare. Pensano che la situazione sia irreversibile (Sciascia diceva: «Irredimibile») e che l’unico modo per tenersene fuori sia non parlarne. Perciò la storia di Denise è una storia importante, come erano importanti le scritte nei cortei dei ragazzi di Locri: «E adesso ammazzateci tutti». Perché ci dà un speranza.
Denise è una ragazza di quest’epoca, che studia all’università e che vuole vivere in un modo dove a dettare le leggi e ad applicarle non siano i mostri come suo padre. I ragazzi di Locri sono, anzi purtroppo erano perché non se ne è più sentito parlare, dei ragazzi come lei che volevano crescere in una società non mafiosa e avere ad adulti altre possibilità oltre a quelle di emigrare o di diventare mafiosi. C’è ancora, per fortuna, una Calabria non rassegnata alla ‘ndrangheta, che ogni tanto esce allo scoperto: ma che sostegno trova nel resto del Paese? Che cosa si fa per aiutarla?
Sono domande che possono sembrare retoriche e che non lo sono. Anche se i mali profondi di quella terra, bellissima e sfortunata, dipendono da ragioni strutturali, che nessun governo e nessuno potrebbe cambiare dall’oggi al domani con un tocco di bacchetta magica. Ci sono cose che si potrebbero fare a costo zero, o quasi, e che non si sono mai fatte. Non spetta a me indicarle, ma ci sono. Cose che servirebbero a ridare fiducia alla generazione di Denise e dei ragazzi che ancora vanno a scuola, perché non si rassegnino già prima di diventare adulti. Cosa che ridarebbero fiato e speranza a che vuole stare dalla parte della legalità contro i mostri.
Altrimenti i giudici non basterebbero mai, i poliziotti non basteranno mai, i collaboratori di giustizia saranno sempre più rari e anche le storie esemplari, come quella di Denise e dei ragazzi di Locri, avranno un loro valore simbolico e ideale ma, in definitiva, non serviranno a niente.

Il Corriere della Sera 01.04.12

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“Sindaco Lanzetta, resista. Per aiutare tutte le donne”, di Goffredo Buccini

L’ultimo episodio intimidatorio nella notte tra mercoledì e giovedì. Quando tre colpi di pistola calibro 7.65 vengono sparati da sconosciuti contro l’auto di Maria Carmela Lanzetta, 57 anni, farmacista e, soprattutto, sindaco di Monasterace (Reggio Calabria), un paesino di circa 3.500 abitanti che si affaccia sul Mar Ionio. Prima ancora, tra il 25 e il 26 giugno, qualcuno aveva incendiato la farmacia della Lanzetta: in quell’occasione i danni furono ingenti. E così la donna, del Pd, ha detto basta: si è dimessa dalla carica di primo cittadino (al suo secondo mandato). Nel paese, però, in centinaia sono scesi in piazza, venerdì sera, per manifestarle solidarietà e vicinanza. Una fiaccolata silenziosa ha attraversato le stradine per ribadire con forza la voglia di legalità e sicurezza. Soprattutto: per convincer il sindaco a ritirare le dimissioni. La solidarietà è arrivata anche dal mondo politico. Il segretario del Partito Democratico, Pier Luigi Bersani, ha annunciato «un’iniziativa per sollecitare l’intervento del governo, delle forze dell’ordine e della magistratura».

Gentile sindaco Maria Carmela Lanzetta,
accetti queste righe in segno di ammirazione e rispetto. L’ammirazione è dovuta alla sua storia: qualche anno fa, da rappresentante d’una società civile della quale noi giornalisti amiamo spesso riempirci la bocca a vanvera, lei fece un passo avanti; nel 2003 il consiglio comunale di Monasterace, il suo paese in provincia di Reggio Calabria, era stato sciolto per infiltrazioni mafiose, due ‘ndrine spadroneggiavano sugli appalti, un certo buonsenso da don Abbondio avrebbe suggerito a molti più robusti di lei di restarsene chiusi tra le mura domestiche.
Lei, mamma di due ragazzi, lasciò la sua farmacia, entrò in politica (ora milita nel Partito democratico), riuscì a vincere le elezioni col viso dolce e il sorriso pulito che adesso scopriamo dalle foto dei quotidiani, salì in municipio alla guida di una giunta piena di giovani e di donne. Il clima di intimidazione dovette sentirlo da subito, perché con lei l’aria in Comune era cambiata, la pacchia dei boss finita, lo Stato aveva un degno rappresentante e persino le operaie delle serre ortofrutticole, sfruttate e senza paga, grazie a lei non si sentirono più abbandonate al loro destino.
Il rispetto è doveroso guardando alla sua scelta più recente: dopo il secondo attentato in nove mesi, lei ha deciso di dimettersi. Quando, a giugno del 2011, le avevano bruciato la farmacia, aveva resistito, commossa da quei concittadini che le si erano stretti attorno. Ma mercoledì scorso i picciotti del disonore si sono fatti di nuovo vivi, a colpi di pistola: hanno sparato contro la sua macchina, una pallottola s’è conficcata nel muro del suo palazzo. E lei ha pensato di non poter mettere più a repentaglio la vita dei suoi figli. S’è arresa, le ragioni della madre hanno prevalso.
In uno Stato sgangherato come il nostro, fare il proprio dovere diventa spesso eroismo. E certo non può chiederle di restare un minuto in più sulla poltrona di sindaco chi se ne sta comodamente a discettare di questa vicenda da una rassicurante distanza di qualche centinaio di chilometri.
Tuttavia noi crediamo che lei possa dare ancora ascolto alle tante voci che le si levano attorno, nella sua Calabria. Voci di donne, soprattutto. Di donne spesso tanto diverse da lei per cultura e condizione, e per le quali lei può fare molto, a patto di restare ciò che è. Non pensiamo soltanto alle «sue» operaie delle serre. Pensiamo anche alle tante figlie, sorelle e mogli cresciute o trapiantate nelle famiglie di ‘ndrangheta e che adesso iniziano a mostrare la voglia di ribellarsi in questa che sembra un’improvvisa primavera delle donne calabresi.
Lei conosce meglio di noi i loro nomi, le loro storie. Pensiamo a Lea Garofalo, i cui carnefici sono appena stati condannati all’ergastolo dalla Corte d’assise di Milano, a Maria Concetta Cacciola, a Giuseppina Pesce, alle «pentite» coraggiose ma anche a tante ragazze qualsiasi che stanno scegliendo proprio ora da quale parte schierarsi, che s’accingono a dire «no» alle leggi arcaiche di una società fondata sulla sopraffazione. Noi non sappiamo se davvero le donne salveranno il mondo ma crediamo fortemente che, nel loro piccolo, le donne calabresi salveranno la loro terra, riscattandosi e riscattandoci. Quelle donne, sindaco, guardano a persone come lei. Come facciamo noi, del resto, da una distanza che va accorciata di parecchio. Perché Monasterace deve diventare questione che ci riguarda tutti: una nostra casa da difendere quel suo ufficio al Comune, dove ci auguriamo di vederla ancora molto a lungo.

Il Corriere della Sera 01.04.12