attualità, politica italiana

"Riparare l'errore", d Claudio Sardo

L ’emergenza economica dunque non è finita. Sarebbe gradita qualche autocritica da parte di chi ha posto lo scalpo dell’articolo 18 in cima all’agenda politica. Anche da parte del governo che, pur di lanciare un segnale ai «mercati» (segnale
non pervenuto), ha sacrificato una ragionevole intesa che avrebbe
rafforzato, quella sì, l’immagine del Paese. Speriamo almeno che si ripari presto al danno. Anche perché la coesione sociale resta la migliore garanzia di efficacia per le misure innovative sul mercato del lavoro, che ora il Parlamento deve vagliare e migliorare. I più recenti interventi di Mario Monti sembrano messaggi di pace rivolti almeno alla sua maggioranza. Meglio un premier che recupera la sobrietà rispetto ad uno che accende polemiche. Ma la prova decisiva sarà nei fatti.
Il testo della riforma ancora non è stato presentato in Parlamento (ritardo non proprio lodevole, che rinverdisce la pratica di precedenti governi). Sarebbe una sorpresa positiva se Monti riconoscesse l’errore e, da subito, conformasse al modello tedesco la modifica dell’articolo 18. Si temono invece ulteriori pasticci, con correzioni parziali che rischiano di complicare il quadro giuridico. Tuttavia il giudizio finale spetta alle Camere. E in quella sede andrà ricomposto lo strappo sociale.
In caso di licenziamento immotivato o ingiusto, il reintegro nel posto di lavoro va reinserito quantomeno come sanzione a disposizione del giudice. È già un segno di grande apertura dei sindacati (che il governo avrebbe fatto bene a valorizzare) la disponibilità ad inserire l’indennizzo economico come sanzione alternativa. Del resto questa soluzione abbasserebbe la barriera che oggi divide il mercato del lavoro sulla base delle dimensioni di impresa e potrebbe persino limitare il contenzioso giudiziario (come avviene in Germania).
Comunque un punto è chiaro fin d’ora: se Monti vuole davvero una soluzione condivisa, deve riportare il reintegro nell’articolo 18. In caso contrario imboccherà la strada della rottura: e sarà una scelta politica, non tecnica. La coesione sociale resta una riserva di energie per l’Italia. È incomprensibile il deprezzamento che ne viene fatto da chi sostiene che i diritti, come i corpi intermedi, sono un costo che dobbiamo ridurre. Se la crisi economica persiste, se non bastano mai i compiti a casa, se le dotazioni del fondo salva-Stati sono sempre insufficienti come la liquidità della Bce, come si può sostenere che lo scalpo dell’articolo 18 possa restituire competività al Paese attirando investimenti esteri? La verità è che questa discussione non ha come orizzonte l’uscita dalla crisi ma il governo dell’esistente. I mercati non attendono certo che alla pesante manovra correttiva del dicembre scorso (i cui effetti non si fermeranno alle addizionali Irpef, ma presto verranno incrementati dalla stangata
Imu e speriamo non sfocino in un aumento dell’Iva a ottobre) si aggiungano dei simboli ideologici. I mercati aspettano l’inversione di tendenza rispetto alla recessione in atto. È questa la vera priorità nell’emergenza. È questo il cuore del mandato del governo Monti. La coesione politica e sociale è condizione perché si possa cambiare l’agenda del Paese e concentrare le forze sullo sviluppo, che vuol dire contrastare l’illegalità, ridurre il peso fiscale sul lavoro, accorciare i tempi dei pagamenti delle Pubbliche amministrazioni, consentire ai Comuni virtuosi di riprendere i loro programmi, etc. Si possono ancora chiedere sacrifici agli italiani, ma solo a condizione di ridurre le diseguaglianze e le insopportabili ingiustizie fiscali. Si può lavorare insieme nella transizione a condizione che le ricette sbagliate dell’Europa di centrodestra non vengano presentate come dogmi di fede.
Monti ha detto che i partiti dovranno continuare i compiti anche dopo il 2013, quando il suo governo non ci sarà più. Se voleva dire che l’Italia non potrà deragliare dalla ricerca di una maggiore competitività e da un serio controllo dei conti pubblici, ha perfettamente ragione.Ma se i compiti sono le solite politiche recessive, se sono quelli che non consentono all’Europa di uscire dalla crisi, allora speriamo proprio che i paradigmi cambino.
E che il centrosinistra possa tornare al governo presentando una proposta alternativa, più orientata alla crescita, più europeista, più attenta alla dimensione sociale. Siamo troppo piccoli per questa ambizione? La dimensione dell’alternativa è oggi europea. L’Europa sì che può farcela a rompere la spirale rigore – recessione – impoverimento- diseguaglianze.Ma il centrosinistra italiano può contribuire a questo progetto insieme alle altre forze progressiste del Continente. È questa la sfida del 2013. Che comincia anche per noi con le prossime elezioni francesi.❖

L’Unità 01.04.12

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“IL CONTAGIO DEL RIGORE”, di Paolo Soldini

Niente da fare: i fantasmi dei fallimenti continuano ad aggirarsi
per l’Europa. Nonostante l’aumento dei fondi salva-stati a 700 miliardi di euro decretato dai ministri economici e finanziari dell’eurozona e a dispetto delle previsioni ottimistiche di Nicolas Sarkozy, il quale sostiene che «si è voltata pagina». E anche a dispetto del premier italiano Mario Monti, secondo il quale gli «aspetti finanziari» della crisi si sarebbero esauriti.
Non la pensano così gli esperti della Commissione e del Consiglio Ue che venerdì scorso hanno consegnato ai ministri due rapporti riservati dai toni assai meno rosei. Nei due studi, di cui hanno riferito per cenni la «Stampa» e il «Financial Times» si sosterrebbe che il rischio del contagio non è affatto bandito e potrebbe anzi «riemergere con un preavviso molto breve, come si è visto qualche giorno fa, e rilanciare il triangolo potenzialmente perverso tra debiti sovrani, rischi per le banche e i fondi d’investimento e la crescita» (e qui forse si sarebbe potuto scrivere, meglio: la mancanza di crescita). L’allusione a ciò che si è «visto qualche giorno fa» era chiaramente riferita alla Spagna, dove c’è stata una brusca impennata del costo degli interessi sul debito. Ancora una volta, dunque, si delinea lo scenario della crescita di un rischio default di un paese che potrebbe trascinare tutti nel disastro e al quale i governi e le istituzioni della Ue rispondono nell’unico modo in cui, dall’inizio della crisi dei debiti sovrani, hanno saputo e voluto fare, sia pure alcuni (la Germania) molto, molto malvolentieri: pompando denaro in fondi che, alla fine, serviranno tutt’al più a garantire i grandi investitori finanziari, molti dei quali sulla crisi hanno speculato allegramente. In un certo senso, l’evoluzione delle cose sta dando ragione a Wolfgang Schäuble, quando lamentava l’inclinazione europea ad aumentare i fondi per riempire «un pozzo che in realtà è senza fondo». Depurata da un bel po’ di demagogia pro domo sua, l’affermazione del super ministro di Angela Merkel non è del tutto insensata. Anche se tanto Schäuble che la sua cancelliera dovrebbero riflettere su come e quanto la logica di rispondere al rischio aumentando la quantità di denaro per contrastarlo non sia altro, in realtà, che l’altra faccia della medaglia che piace tanto loro e sulla quale hanno scommesso tutto, fino all’imposizione del fiscal compact: l’idea che la crisi dell’eurozona si risolva solo con l’arma della disciplina di bilancio e dei diktat imposti ai paesi che cercano di non farsela puntare addosso.
È davvero impressionante quanto sia mancato, in tutti questi mesi, ogni stimolo ad allargare, quanto meno, il discorso alla necessità di misure e di politiche per favorire ripresa e occupazione e alleviare le condizioni materiali dei ceti più schiacciati dalle scelte lacrime e sangue. Fino al paradosso di soprassedere ad ogni azione di controllo e regolazione dei mercati finanziari che pure tutti riconoscono essere stati, con il loro comportamento, uno dei fattori scatenanti della crisi. Questa sorta di «pensiero unico
della disciplina di bilancio» (prevalentemente ma non solo tedesco) dovrebbe essere riconosciuto per quello che è: non l’unica risposta possibile alla crisi dell’euro, ma come una precisa scelta politica. A dimostrare questa verità non c’è solo la Grecia, alla quale, quali che fossero stati errori e mancanze, è stato imposto un corso economico non solo crudele, ma del tutto insensato, fatto insieme di tagli, sacrifici e obblighi recessivi e della pretesa che il Paese si mettesse però nella condizione di pagare i suoi debiti. Ora ci sono il Portogallo e, soprattutto la Spagna. La manovra annunciata dal governo conservatore di Mariano
Rajoy è del tutto simile, almeno nella logica ispiratrice, a quella
imposta ad Atene: tagli quasi lineari del 17% delle spese dei ministeri, congelamento degli stipendi pubblici, aumenti delle bollette di luce e gas. Con, in più, un tocco «italiano»: uno scudo fiscale per il rientro dei capitali evasi con una tassa liberatoria del 10% (da noi fu il 5%).
Eppure il debito spagnolo, a differenza di quello greco (e anche di quello italiano) è relativamente contenuto e le durissime misure decretate servono, in realtà, «soltanto» a riportare il deficit di bilancio dall’8,5 intorno al tetto del 5% previsto dal fiscal compact. Un abbattimento forse necessario, ma sulla cui sostenibilità c’è da dubitare seriamente in un paese in cui la disoccupazione generale viaggia verso il 25% e quella giovanile verso il 50%. Sono proprio quelle di Rajoy le priorità dell’economia spagnola? La domanda non riguarda solo Madrid.

L’Unità 01.04.12