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«Evasione, tanto clamore ma così non cambia nulla. Lo Stato esce perdente», di Bianca Di Giovanni

L’ex ministro delle Finanze: «Gli italiani la giustificano, i blitz suscitano indignazione temporanea, poi niente. Ma fare qualcosa costa consenso Nel concreto questo governo non è molto diverso da quello precedente». Dopo gli ultimi «clamorosi» (come sempre) blitz dei finanzieri, dopo le ultime grida di indignazione sulle dichiarazioni dei redditi, dopo gli ennesimi appelli alla condanna sociale dell’evasione, nell’ex ministro Vincenzo Visco comincia a farsi strada un dubbio inquietante. «Nella psicologia degli italiani alla fine l’evasione è introiettata, giustificabile e magari giustificata, tanto che c’è bisogno di grandi manifestazioni di indignazione, con tutti che si stracciano le vesti, per poi convincersi che alla fine nulla cambia, che il problema è irrisolvibile».
È quasi un gioco speculare, quello descritto dall’ex ministro, in cui più si alza la voce, più sotto sotto si giustifica. Perché per Visco indignarsi serve a poco: semmai bisogna analizzare il fenomeno in profondità fornire dati scientifici, organizzare una macchina complessa. Ma la lotta a un fenomeno di massa come quello italiano richiede anche una forte determinazione politica, perché combattere l’evasione costa molto in termini di consenso. «Per questo non credo che questo governo sia così diverso da quello precedente. Questa maggioranza non consente di pagare quei costi». Dunque gli allarmi continui per lei sono una sorta di lavacro?
«Quello che si è detto in occasione della pubblicazione delle denunce dei redditi era sostanzialmente identico a quello che si era detto l’anno prima. Basterebbe che i giornalisti andassero a riprendere i loro vecchi articoli per dimostrarlo. Nulla di nuovo, eppure molto clamore. C’è cattiva coscienza, e c’è anche l’occasione per la gente di lamentarsi dicendo: non cambia proprio nulla».
Befera ha detto che i confronti tra dipendenti e imprenditori erano impropri trattandosi di una media. È d’accordo? «Le medie sono degli indici statistici, e danno delle informazioni esatte. Poi certo servirebbero approfondimenti in rapporto alla natura del contribuente. A questo punto dico che bisognerebbe tirare fuori più dati. Noi avevamo preparato una serie di approfondimenti su piccole imprese e studi di settore, ma poi Tremonti ha fermato tutto. Befera ha detto che tra le imprese si contano anche quelle fallite: si potrebbe obiettare che anche tra i lavoratori si contano quelli licenziati o i part-time. Con analisi più raffinate, si potrebbero depurare le statistiche da questi casi. Si è detto che tra i dipendenti coi sono anche alti magistrati e professori universitari, che hanno un reddito molto più alto di un operaio. Ma questo è vero anche per la “famiglia” degli imprenditori: c’è differenza tra un grande industriale e un piccolo artigiano. Non c’è alcun motivo per sostenere che la dispersione sia diversa tra i due gruppi. Il vero dato che emerge è un altro». Quale?
«C’è un addensamento dei contribuenti attorno alle soglie degli studi di settore. Vuol dire che la gestione di questi strumenti non è stata delle migliori. Di fatto questo dato dimostra che si spingono i contribuenti ad avvicinarsi a quelle soglie, anche quelli che realmente stanno sotto, per mettersi l’anima in pace. Così gli studi di settore vengono considerati come una minimum tax, cosa che non sono: quelli sono solo degli indicatori. Ciascuno deve dichiarare il suo reddito, non quello presunto».
Un altro elemento riguarda la popolazione dei più ricchi, composta essenzialmente da dipendenti.
«Questo è un effetto della legge: gran parte dei redditi da capitale è soggetto a un’imposta sostitutiva, così come quelli da fabbricati. I ricchi di solito hanno azioni, obbligazioni e proprietà immobiliri, che non compaiono nell’Irpef. Tra i piccoli imprenditori, poi c’è un altro fenomeno: quello della suddivisione degli utili tra i familiari che lavorano nell’impresa. Anche in questo caso servirebbero dati più analitici».
Insomma, serve più studio contro l’evasione?
«Prima di tutto bisogna essere consapevoli che la lotta all’evasione è una cosa seria, di lungo periodo, che si fa con la buona amministrazione e le buone norme. E soprattutto con un grande accordo politico, perché combattendo l’infedeltà si hanno contraccolpi politici. Mi chiedo se questo governo non sia in parte la continuità del vecchio. Si deve decidre se davvero si vuole mettere in campo una strategia d’attacco, o se si vuole continuare con i redditometri, una forma sotterranea di forfettizzazione. Quanto ai blitz, fanno parte di un apparato dimostrativo, contro cui non ho nulla, a parte il fatto che non sono decisivi. Mi pare che oggi si continuino a confondere le persone. Come quel dato dei 12-15 miliardi già recuperati. Quello non è altro che il frutto dell’azione ordinaria dell’amministrazione. Accade ogni anno, e per metà è il risultato degli incroci telematici. In molti casi non si tratta di evasione, ma di errori dei contribuenti. Se fosse vero, non ci ritroveremmo ogni anno ad indignarci».
Eppure questo governo ha reintrodotto le sue misure antievasione.
«Non tutte: solo l’elenco clienti e fornitori. Ma serve molto di più: le norme sulle costruzioni, quelle sulle professioni. La strategia dev’essere ad ampio raggio: occorre scrutrinare milioni di persone, che in media evadono somme medio-basse».
Sembra proprio che non ci sia mai riusciti.
«Non è vero: se si leggono gli andamenti degli ultimi 20 anni si scopre che molto è stato fatto dopo il ‘95, con il recupero di 4 punti di Pil, e nel 2007 con l’emersione di 3 punti di Pil solo dell’Iva. Se si vuole si può fare».

L’Unità 02.04.12