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"Emergenza crescita", di Paolo Guerrieri

Durante il suo viaggio in Asia il presidente Monti ha più volte dichiarato – con una certa enfasi – che la crisi dell’area euro possa considerarsi di fatto superata. Anche grazie al più solido sentiero di sviluppo imboccato dall’Italia. Sono affermazioni che per un verso possono non sorprendere, visto il fine propagandistico che in parte le ha animateEr. a necessario spingere alcuni Paesi asiatici a investire in Italia. Tuttavia queste affermazioni sono destinate a suscitare qualche preoccupazione se dovessero trovare conferma nelle future scelte e azioni del premier e del suo governo. Perché va precisato, innanzitutto, che non è affatto vero – purtroppo – che la crisi della zona euro sia ormai alle nostre spalle. Analisi e pareri autorevoli, provenienti anche da Bruxelles, hanno cercato di spiegare a più riprese che l’attuale fase di relativa calma è del tutto temporanea, in quanto dovuta in misura prevalente all’immensa liquidità creata dalla Banca centrale europea a sostegno del sistema bancario e, indirettamente, dei mercati dei titoli sovrani dei Paesi più indebitati. Si è guadagnato del tempo prezioso, ma restano da risolvere i due ordini di problemi, tra loro collegati, che erano e restano alla radice della crisi: l’eccesso di debiti e il ristagno della crescita in Europa. Le politiche di austerità di bilancio adottate finora, pur se corredate da politiche di riforme strutturali a livello nazionale destinate a dare frutti nel medio e lungo termine, hanno provocato una fase recessiva in tutti i Paesi periferici e un periodo di ristagno nel resto dell’Europa. A parità di condizioni c’è il rischio concreto che la recessione in molti Paesi europei duri ancora a lungo. L’agognata ripresa, di cui si parla guardando al prossimo anno, potrebbe rivelarsi così più un auspicio che una fondata previsione. Forti perturbazioni e tensioni tornerebbero in questo caso a caratterizzare i mercati finanziari e le collocazioni dei debiti di molti Paesi. Se questi sono gli scenari attesi, non c’è proprio da rilassarsi. Vanno raddoppiati, semmai, gli sforzi. In primo luogo in Europa per cercare di correggere là dove possibile, a partire dai Paesi forti, politiche troppo restrittive e inaugurare politiche di crescita, finora assenti, all’altezza delle sfide poste dalla crisi globale. Ma molto resta da fare anche nel nostro Paese che sperimenta sulla sua pelle, in misura particolarmente intensa, le ripercussioni di questo corso negativo dell’economia europea. Cifre allarmanti e tutte negative sono circolate in questi giorni sulla nostra produzione e disoccupazione, in particolare dei giovani. Non ci si può limitare a considerarle alla pari di trend ineluttabili, solo da monitorare. Se al governo Monti va riconosciuto il merito di aver avviato in questi mesi il consolidamento dei conti pubblici e varato alcune riforme importanti, gli va altresì chiesto ora di intervenire per evitare che la recessione in corso imbocchi la direzione di un pericoloso avvitamento verso il basso. Il rischio serio che stiamo correndo nelle condizioni attuali è un circolo vizioso che possa divenire a un certo punto inarrestabile e senza sbocchi, deprimendo il potenziale di crescita della nostra economia. L’esempio della Grecia, che vede oggi in lista d’attesa il Portogallo e, poi, la Spagna, dovrebbe insegnare qualcosa a questo riguardo. Va scongiurato mettendo in atto una serie di misure a rapido impatto – molte di esse peraltro assai note – che possano agire a sostegno contemporaneamente della domanda e dell’offerta. Si pensi, ad esempio, a interventi tesi ad alleviare le condizioni di restrizione finanziaria di molte piccole e medie imprese e/o dei debiti scaduti della Pubblica amministrazione. Tutti provvedimenti di cui si parla da tempo, ma che non possono essere più rinviati e vanno varati subito, se vogliamo evitare decine di migliaia di nuovi fallimenti e la perdita di altrettanti posti di lavoro. L’altro problema urgente da affrontare riguarda il nostro sistema produttivo, oggi seriamente indebolito. Il governo ha messo in programma una serie di interventi, in tema di energia e infrastrutture ad esempio, diretti a incidere sul contesto esterno in cui operano le imprese. Ma nulla per ora che riguardi direttamente le stesse imprese e il sistema produttivo. Si continua a operare in una logica di meri salvataggi, senza offrire delle alternative alle imprese in difficoltà per quel che riguarda possibilità di riconversione e ristrutturazione. È una grave carenza dal momento che la forza e solidità di un possibile rilancio della nostra economia dipenderanno anche dalla intensità e diffusione dei processi di ristrutturazione e risanamento produttivo che saremo in grado di realizzare in questa fase. Manca una qualsivoglia politica industriale – per dirla in breve – che in una situazione come questa, nel secondo Paese manifatturiero europeo, dovrebbe rappresentare una priorità assoluta. Con un disegno complessivo e due grandi obiettivi: il sostegno e la riconversione delle imprese in difficoltà; la promozione dei cambiamenti strutturali nell’organizzazione delle imprese, necessari per affrontare con successo la concorrenza futura. Questi ultimi andrebbero avviati subito, anche se avranno effetti differiti nel tempo. D’altra parte altri Paesi in Europa lo stanno facendo, inclusa la Germania. C’è dunque da augurarsi che qualcosa di simile si verifichi anche da noi, in modo che la clamorosa assenza di temi di politica industriale dall’agenda del governo possa essere in tempi brevi sanata.

L’Unità 04.04.12

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Serve la ripresa, non la politica del “Laissez faire”, di Paolo Leon

Mentre si realizzano le peggiori previsioni sulla doppia crisi, certamente causata dalle misure di austerity in Italia e in Europa, dobbiamo capire se vie d’uscita ci sono sostanzialmente precluse o se un governo di tecnici può inventarne di nuove. Oltre al fatto che senza nuova domanda, molte imprese chiudono, c’è anche la restrizione creditizia, ormai denunciata da mesi, che si incarica di allargare le difficoltà anche alle imprese che pure sono capaci di trovare domanda per i propri prodotti. Se aggiungiamo la fuga di imprese italiane e straniere verso lidi che presentano costi del lavoro più bassi mentre i distretti industriali si desertificano, sembra che il governo stia lasciando andare la produzione nazionale al suo destino. L’ironia della sorte ci dà un governo che, dovendo oscillare continuamente tra destra e sinistra, non sembra avere un pensiero proprio, e si trova a suo agio solo con la cultura del “laissez faire”. Anche nel cuore profondo del liberismo di Monti, tuttavia, qualche dubbio alberga, altrimenti non perderebbe tanto tempo a far propaganda in giro per il mondo: anche Monti sa che la disoccupazione aumenta, che il potere di poche grandi imprese non è toccato, che l’equità è come una foglia al vento se non può portare qualche indizio sulla crescita dei posti di lavoro. Nessuno però lo sta aiutando, perché dei diversi programmi di crescita possibili, nessuno sembra essere stato progettato in qualche dettaglio. Non vedo traccia di una “green economy”, almeno nel senso di un programma non solo legato all’energia, ma anche all’innovazione, alla sostituzione di importazioni (pale, pannelli, motori, ecc.), al riuso dei rifiuti e delle materie seconde. Non vedo un deciso passaggio del settore automobilistico verso carburanti meno inquinanti e a minor costo. Non vedo traccia di un’azione di obsolescenza programmata nelle imprese, dopo anni di bassi investimenti, quasi tutti su beni acquistati piuttosto che costruiti in proprio (buy, non make). Non vedo il tentativo di ricostruire produzioni ora abbandonante, dall’alluminio, all’acciaio, al rame. Sembra scandalosa l’idea di una proprietà pubblica industriale volta a ricostruire una capacità imprenditoriale privata: se è lecito nazionalizzare le banche inglesi, sarà lecito farlo anche nell’industria. Non vedo nessun “salto tecnologico” sul quale poggiare una ripresa del manifatturiero e dei servizi. Le cose sono state lasciate andare da Tremonti, e non sono riprese da Monti. Non si può opporre che altre urgenze esistevano, dalla riduzione del deficit alla lotta all’evasione, dalla riduzione delle pensioni all’eliminazione dell’art. 18. A parte ogni possibile critica alle misure finora adottate, non è vero che non si possano perseguire obiettivi brevissimi e obiettivi appena un po’ più lunghi: solo il povero Presidente Ford non poteva masticare il chewing gum e camminare nello stesso tempo. Non si può opporre che non ci sono fondi: sono gli investimenti che creano i risparmi, e non viceversa. Così, una vera politica industriale tende ad autofinanziarsi, se è fatta bene, ben pensata, e strutturata con l’accordo dell’Unione Europea. Mi si può opporre che l’Europa non vuole nessuna politica industriale, che i conservatori europei ritengono che solo risparmiando si può investire, che se aumenta la disoccupazione, è colpa dei disoccupati che non vogliono raccogliere pomodori: ma nessuno ci ha detto che dobbiamo subire tante stupidaggini. Monti ha già messo in campo la sua suadente tattica di tenere stretto l’avversario Merkel, ma si vede subito che non basta, né si possono aspettare le elezioni tedesche del 2013. Forse occorre staccarsi più duramente dall’abbraccio della Merkel e minacciare un’azione in sede comunitaria, usando il potere di veto su tutto ciò che non favorisce la ripresa. Per un governo tecnico che non si aspetta la rielezione, questa strategia è più facile e avrebbe il consenso generale degli italiani.

L’Unità 04.04.12