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"Reintegro, deciderà il giudice quando c’è manifesta insussistenza", di Mario Tedeschi

L’opposizione dura della Cgil in ambito sindacale, l’opposizione ferma e responsabile del Pd in ambito politico hanno portato al risultato di una modifica decisiva sulle iniziali intenzioni del governo sull’articolo 18 ed in particolare del ministro Elsa Fornero. Il reintegro sui licenziamenti per motivi economici che sembrava impossibile è stato dunque riconquistato. Il drammatico snodo di due settimane fa che ha portato alla mobilitazione sindacale, così come era stato nel 2002 per un analogo attacco ai fondamenti dell’articolo18 dello Statuto dei lavoratori, è stato superato attraverso la mediazione politica e la rivolta della base ad ogni livello politico e sindacale. La prima versione dell’esecutivo escludeva il reintegro per licenziamento economici, bensì solo l’indennizzo tra 12 e 27 mesi. Versione gradita a Confindustria e a tutta la destra e il centro che sostengono il governo. Camusso ha messo subito le mani avanti: si apre la strada alla cacciata dal mondo del lavoro di tutti i cinquantenni, più costosi perché con maggiore anzianità.Una jungla sociale insopportabile in una situazione economica in cui, articolo 18 vigente, le imprese stanno licenziando a rotta di collo. Il Pd ha subito fatto sapere che un provvedimento del genere non avrebbe potuto votarlo sic et simpliciter in Parlamento, rivendicando la centralità delle Camere per modificarlo sostanzialmente. Anche molta stampa inizialmente favorevole strada facendo ha cambiato idea. L’Unità è stato il principale baluardo a difesa dei lavoratori e della loro dignità su questo punto. Ecco, dunque a cosa siamo arrivati. Se la motivazione economica è «manifestamente insussistente», il giudice può ordinare il reintegro in caso di licenziamento per motivi economici. Ove non vi sia, in tutti gli altri casi, c’è l’indennizzo compreso tra 12 e 24 mensilità. Ai fini della determinazione dell’indennità il giudice tiene conto anche delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione e del comportamento delle aprti nell’ambito della procedura di conciliazione. Qualora nel corso del giudizio sulla base della domanda formulata dal lavoratore che non ha l’onere della prova il licenziamento risulti determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, il giudice applicherà le relative tutele previste per questa tipologia di licenziamento. Quindi: lettera di licenziamento; impugnazione del provvedimento; procedura obbligatoria di conciliazione; entro sette giorni convocazione delle parti all’Ufficio del Lavoro; accordo con indennizzo o reintegro. Senza accordo si va dal giudice. Sulla manifesta insussistenza si è detto. Se è illegittimo il licenziamento economico, ma non manifestamente insussistente c’è l’indennizzo da 12 a 24 mensilità; se si accerta la discriminazione si passa alle norme che la tutelano. Nel caso in cui il giudice dà ragione all’azienda nonc’è né reintegro né indennizzo. Per quelli disciplinari c’èuna doppia strada: o il reintegro o l’indennizzo a seconda del fatto contestato dall’azienda e risultato poi illegittimo. Se è inesistente il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del dipendente, oltre al risarcimento dei danni da esso subiti in una misura non superiore a 12 mensilità e al pagamento dei contributi previdenziali e assistenziali. negli altri casi scatterà solo l’indennizzo tra 12 e 24 mensilità in base all’anzianità del lavoratore e altri parametri compresa la dimensione dell’azienda. Nel caso di licenziamenti discriminatori non cambia nulla, quale sia il numero dei dipendenti, obbligando all’immediato reintegro.

L’Unità 06.04.12

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«Salvata la dignità dei lavoratori. Il governo ha perso», di Oreste Pivetta

Un passo indietro. Abbiamo costretto il governo ad un passo indietro. Non succedeva da tempo». Primo commento di Susanna Camusso, segretario Cgil, al testo ufficiale del disegno di legge sul mercato del lavoro. Contenta, evidentemente, per il risultato, che in fondo premia un sindacato che tante volte ministri passati e presenti pensavano d’aver costretto alle corde, che s’è visto spesso sostenere battaglie in solitudine e parte di questo Paese. Commento favorevole perché si è ripristinato il reintegro nel caso di licenziamenti economici con giustificazioni “insussistenti”. Insieme compaiono le critiche, però, perché altro bisognerebbe fare sul precariato, altro per gli ammortizzatori sociali «perché l’universalità dichiarata proprio non esiste» e soprattutto perché la “crescita” sta solo, come annuncio, nel bel titolo speranzoso, «Riforma del lavoro in una prospettiva di crescita ». Niente per le tasse, niente per i salari, niente per gli investimenti. Il comunicato della Cgil è ancora duro:

«Le distanze tra il testo presentato rispetto agli annunci propagandistici del governo sono evidenti e rischiano di arretrare i risultati ottenuti nel confronto con le organizzazioni sindacali».

Segretario, se ne sono accorti anche all’estero della nostra “reticenza” di fronte a strumenti e obiettivi possibili di crescita. I giornali stranieri scrivono, autorevolmente, che siamo un paese in recessione che non s’attrezza per uscirne. L’Ocse ci comunica un ulteriore calo del Pil. È vero che si continua a far troppo poco?

«Sì, purtroppo è così, grazie a un governo che pensa di poter aggiustare i conti con i partner internazionali semplicemente lavorando sul debito e che in Italia progetta e vara riforme di contesto che dovrebbero riavviare di per sé la crescita. Non è così. Non si capisce come certe riforme dovrebbero rimetterci in corsa. Però altri provvedimenti non sembrano trovar spazio tra le priorità del governo. Con il risultato che la recessione s’aggrava, il Pil rallenta, il debito aumenta. Per questo la nostra mobilitazione non cessa, dopo il passo indietro del governo sull’articolo 18, anzi si presenta con nuovi temi, cercando di riprodurre quell’unità e quella mobilitazione che sono maturate in questi giorni. Pensiamo, e lo proporremo a Cisl e Uil, che bisognerà intanto presidiare il percorso parlamentare con la mobilitazione, perché su ammortizzatori sociali e precarietà ci siano altre risposte, perché l’azione per la crescita conquisti il primo piano».

C’è in ballo uno sciopero generale. Verrà confermato? «Si riunirà il direttivo e deciderà. Certo viene confermata una iniziativa costante. Non smobilitiamo di fronte a un primo successo. Non abbassiamo la guardia, intanto perché la riforma è attesa all’esame del Senato prima e della Camera poi, esame che potrebbe originare modifiche. Si dovrà stare bene attenti. Le leggi si controllano nei particolari, particolari che possono diventare decisivi. E si dovrà stare attenti perché si possa appunto cambiare qualcosa a proposito di ammortizzatori, che non vengono affatto estesi, malgrado si pretendano più soldi, mentre aumentano i contributi, e a proposito di norme sul precariato che lasciano intatte figure di lavoratori in condizioni inaccettabili. Faccio un esempio: l’associazione in partecipazione, forma di lavoro autonomo che maschera un lavoro subordinato, che esclude il lavoratore dagli utili e gli scarica addosso le perdite, attribuendogli una quota di partecipazione senza alcuna possibilità di controllo. Promettevano di ridurre il dualismo,ma non mi pare che abbiano mantenuto la promessa. Anche in questo caso c’è stato un passo indietro rispetto al testo uscito dal Consiglio dei ministri del 23 marzo, ma di segno completamente negativo: allora si diceva che l’associazione in partecipazione poteva riguardare soltanto i parenti di primo grado del titolare di una impresa, adesso si va oltre il terzo grado».

Invece con l’articolo 18 è andata bene… «Sì, per il reintegro, ripristinando un principio di civiltà giuridica. E poi rendendo più rapido l’iter di giudizio, riconoscendo il ruolo del sindacato nella conciliazione, attribuendo l’onere della prova all’azienda. L’articolo 18 conserva così il suo valore deterrente, che scongiura la pratica dei licenziamenti facili, che governo e Confindustria avrebbero voluto introdurre. Questo grazie alla nostra mobilitazione e al consenso che si è costruito nel Paese. La difesa della dignità del lavoro è tornata ad essere argomento comune di impegno e di lotta, di fronte al quale si sono ritrovati i sindacati e le forze politiche progressiste».

Insomma,qualche merito andrebbe riconosciuto finalmente al Pd di Bersani… «Diciamo che il Partito democratico ha prestato ascolto a un sentimento diffuso che si è manifestato nel corso di queste settimane…». Forse la gente s’è resa conto che smantellare l’articolo 18 non avrebbe cambiato di una virgola il nostro orizzonte di crisi.

La Confindustria pare se la sia presa a morte, invece… La Marcegaglia ha definito il testo addirittura “pessimo». «Evidentemente avevano dato per scontato un esito diverso. Credo che siano stati colti in contropiede, di sorpresa. La Confindustria si conferma purtroppo nell’idea che alla crisi si dia risposta comprimendo i diritti, riducendo i salari, risparmiando sul costo del lavoro. Non è così. Vecchie strategie…».

E vecchia Confindustria. In attesa del nuovo presidente, Squinzi… «Presidente di Confindustria è ancora Emma Marcegaglia. Comunque la reazione degli industriali e quella di conseguenza di certa politica ci dimostrano che non è il momento di ritrarsi, che i pericoli sono ancora tanti, soprattutto perché tanti sono i problemi aperti e tanti sono gli obiettivi. Ripeto: tasse, provvedimenti anti recessione, pensioni. Resta ad esempio aperta la questione di quei lavoratori con più di cinquantacinque anni che hanno la pensione sempre più lontana. Resta aperta, malgrado le assicurazione, la questione degli esodati…».

Ecco, siamo ad un altro appuntamento. In piazza con Angeletti e Bonanni. «Con la manifestazione del13 aprile, con Cisl e Uil. Sarà una buona occasione per scrivere per l’ennesima volta il libro dei problemi e delle nostre proposte e per pretendere una soluzione al caso di migliaia di persone senza più stipendio e senza pensioni. È da troppo tempo che si aspetta…».❖

L’Unità 06.04.12