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"Vado in “paternità” perché voglio crescere con mia figlia", di Federico Cella

Mi chiedono: “Perché il congedo?” Non sono un eroe né uno originale. Voglio solo stare con mia figlia «Quand’è che inizi ad allattare?». La domanda che mi ha fatto un collega qualche giorno fa riassume in modo più colorito il dato che mi relega a una minoranza tanto piccola da farmi credere di non aver mai fatto parte di un gruppo così ristretto. Sarà che sono sempre stato poco originale. Ora non più: tra pochi giorni sarò tra il 6,9% dei padri che in Italia, secondo l’Istat, si prendono un congedo parentale di almeno un mese per stare a casa con i propri figli. Insomma, vado in paternità. E ci starò per poco meno di cinque mesi. Le reazioni alla «notizia» si dividono usualmente in due, a seconda del genere dell’interlocutore:

«Bravo!», dicono le donne; «E perché?!», mi chiedono gli uomini.

Perché la mia scelta, ragionata e condivisa in famiglia, è così originale pur non essendo per nulla eccezionale? Perché in Italia, per i padri, pensare di stare a casa con i figli è così difficile?

Scoperta la percentuale, ne ho parlato con Marina Piazza, sociologa esperta di politiche di genere che ha fatto parte per l’Italia del network comunitario «Family&work».

Le ragioni sarebbero sostanzialmente tre. Quella economica, legata al fatto che durante il congedo parentale lo stipendio scende al 30% (per i dipendenti pubblici il primo mese rimane al 100%), dato che ci pone all’ultimo posto in Europa: in Francia si è al 45%, nel Nord Europa all’80. C’è quindi un timore legato a una diffusa ostilità nelle aziende, che specialmente in tempo di crisi suggerisce di essere cauti con un certo tipo di scelte di vita. Spiega Piazza:

«Si viene visti come dei «traditori» del proprio genere: i maschi, a differenza delle femmine, dovrebbero dare tutto per il lavoro».

Infine, una motivazione più puramente culturale che vede in Italia ancora una rigida divisione dei ruoli che sarebbero propri dell’uomo e della donna: «Ma i giovani sono sempre meno legati a queste problematiche».

Una mentalità comunque dura a morire, ma che potrebbe essere incrinata dal recente Ddl sulla riforma del lavoro: «L’obbligo per il padre di astenersi dal lavoro, pur per soli tre giorni contro, per esempio, i quindici in Francia», conclude Piazza, «aiuterebbe a sostenere il concetto di genitorialità condivisa».

A questi motivi ne aggiungerei poi un quarto, quello che più ho faticato a superare: la paura di non essere all’altezza. Paura che può poi tradursi anche in non voglia. Perché fare il papà attivo (non chiamatelo «mammo»: esiste già «papà» ed è una parola così bella), al pari della mamma attiva, è una gran fatica. Un compito che non concede pause e che richiede un’alta professionalità. L’igiene personale del piccolo, i cambi di pannolini e vestitini (con l’attenta valutazione delle condizioni atmosferiche) non si possono improvvisare. Né tantomeno il cucinare e gestire la nutrizione di un bambino di un anno e tenere adeguatamente pulito e a sua misura — tra spigoli-killer e prese di corrente a portata di ditino — l’ambiente dove vive.

Una volta presa la decisione con Laura, mia moglie, era sorta un’altra preoccupazione: l’iter burocratico da percorrere per arrivare al congedo. Temevo compilazioni e code infinite, e reiterate, agli uffici Inps e una montagna di documenti da portare in azienda. Niente di più sbagliato: tutto si fa online sul sito www.inps.it.

Bisogna però prima capire cosa prevede la legge per il congedo parentale. Ecco: entro gli otto anni del figlio i genitori possono prendere, a turno, fino a dieci mesi di astensione facoltativa dal lavoro — che diventano undici se il padre ne fa almeno tre —, con un massimo di sei mesi per genitore (sul sito Cisl.it si trova un documento in «pdf» molto chiaro). A questo punto, dopo aver ottenuto il Pin d’accesso alla sezione «Servizi online» del sito Inps, basta compilare la domanda di richiesta. Inviata, si ottiene un numero di protocollo: basta comunicarlo all’azienda e la burocrazia è finita (e, papà, non dimenticate la possibilità di chiedere di integrare lo stipendio con il Tfr fino a tornare al 100% della spettanza mensile).
Per concludere voglio che siano chiare le mie motivazioni. Malgrado questo articolo, non vado in paternità per dare il buon esempio (e così incentivare i maschi italiani a condividere piaceri e doveri della genitorialità) o creare un caso. Non lo faccio per raccogliere materiale per un reportage sul maschio casalingo, né perché ho un libro da scrivere. La ragione è molto più alta e si chiama Martina, un amore che solo chi è genitore può capire. È una persona speciale con cui ho un rapporto speciale che la legge italiana mi permette di coltivare in esclusiva e senza distrazioni per un certo periodo di tempo. Per aiutarla a crescere, perché lei mi aiuti a crescere. Più prosaicamente, poi, l’uso del congedo parentale permette a Laura e me di stare a casa con nostra figlia fino a settembre. Sperando poi di essere fortunati nella lotteria dei nidi comunali. Ma questa è già un’altra storia.

Il Corriere della Sera 07.04.12