attualità, memoria

"Addio Miriam, libera e battagliera."La nostra politica si è fatta storia", di Alfredo Reichlin

Mi è molto difficile dire addio a Miriam Mafai, cara amica, rara. È triste, perfino angoscioso, per me almeno, scrivere queste righe nell’Italia volgare e corrotta di oggi. E avendo nella mente l’immagine fulgente di quella ragazza di allora: come io la conobbi. In un’altra Italia. Nella Roma che usciva dalla guerra povera e affamata nel senso letterale della parola. Ma piena di slancio, di speranze, e soprattutto di fiducia: l’enorme fiducia nell’avvenire di noi ragazzi che avevamo preso le armi. Libertà e giustizia erano lì alla nostra portata. E non parlo solo della libertà politica ma quella di essere se stessi, di crescere, di pensare. Tante cose di quel tempo io ho dimenticato ma non l’ebbrezza della felicità: l’immensa felicità della politica che si fa storia. È lì che conobbi Miriam: bella e ridente, la sua travolgente risata. Era una donna vera. E si portava dietro tante cose: una famiglia straordinaria, il padre Mario Mafai pittore grandissimo e la madre Antonietta Rafael scultrice, misteriosa, l’immagine stessa dell’artista che viene non si sa da dove e la cui meta è sconosciuta. E poi Miriam e le sue sorelle. È soprattutto lei, la prima donna che mi intimidiva per la sua padronanza di sé, ironica, sottile. Forte e al tempo stesso molto terrestre (anche antiretorica: «Non raccontiamoci balle»).
Il Pci ci travolse. La ritrovai a Pescara, moglie del segretario di quella federazione, un popolano molto intelligente, Umberto Scalia. Lei era immersa nella lotta dei braccianti della Marsica e dei minatori dell’alta valle del Pescara. Io redattore dell’Unità, uscivo dalla mitica scuola di Frattocchie e venivo mandato come molti altri per alcuni mesi in una piccola provincia per imparare
che cos’è l’Italia vera e come si parla alla gente e si organizzano le lotte. Abbiamo fatto tanti comizi insieme: Bussi, Popoli, Manoppello. Poi lei tornò a Roma. Diventò una grande
giornalista, unì la sua vita a quella di Giancarlo Pajetta,uomo difficile e straordinario. Diventò insomma Miriam Mafai, quella protagonista dell’Italia repubblicana e democratica che tutti hanno conosciuto. Io so di chi parlo perché è con Miriam che ho avuto un dialogo abbastanza fuori dall’ordinario. È lì che capii meglio chi era: un impasto di ragioni ideali e di realismo, fino al limite dello scetticismo. Speranze ma senza illusioni. E soprattutto una grande curiosità per gli altri e l’amicizia con le persone più diverse, perfino troppo diverse per i miei gusti almeno.
Tutto ciò mi apparve molto chiaro dopo quel giorno (erano gli anni 90) in cui Vittorio Foa mi telefonò per chiedermi, con mio grande stupore: posso intervistarti? E mi spiegò una sua idea di cui aveva già parlato con Miriam, quella di pubblicare uno scambio di lettere tra lui e due persone, una donna e un uomo, che lui considerava significativi, sul tema che lo assillava: il silenzio dei comunisti. Voi, diceva, dovete farmi capire questo mistero. Da posizioni sia pure diverse eravate esponenti di un grande partito che per lungo tempo aveva occupato le menti e i cuori degli italiani. Milioni di persone votavano per voi, molte migliaia militavano in esso, e combattevano e sacrificavano se stessi, animati da una fede che spinse molti di loro a sacrifici estremi.A
un certo punto, quasi d’improvviso su tutto questo è calato il silenzio. Perché?E perché quelli che sono venuti dopo di voi, ai vertici della sinistra tacciono o non sembrano molto interessati a questa domanda?
Dopo tutto stiamo parlando della storia italiana, non di una setta.
Scrivemmo, discutemmo, ci interrogammo nella umile casa di Vittorio e di Sesa Foa a Formia, mangiando insieme e chiacchierando nel piccolo giardino dei limoni. Miriam scelse la strada di lasciarsi alle spalle le ideologie e di riflettere soprattutto su se stessa, la ragazza e la donna che era stata. E quella che era adesso, così diversa e anche lontana, ma la cui base morale restava quella: aver lottato per la giustizia e perché, diceva, i figli dei braccianti del Fucino, nell’ex feudo dei principi Torlonia, potessero smettere di andare scalzi a scuola.
Aveva un solo rammarico: mi sono occupata poco dei miei figli. E qui che Foa pose a lei come a me una domanda cruciale: ma voi credevate davvero nella rivoluzione? Non sto a ricordare le nostre risposte. La mia, dopotutto non fu molto diversa da quella storia del Fucino. Abbiamo creduto e abbiamo lottato perché finalmente in Italia, «gli ultimi», quelli senza scarpe potessero alzare la testa e cominciare a contare. È poco? Miriam Mafai è stata anche molte altre cose. Ma se non ci fossero state persone come lei questo Paese italiano sarebbe diverso, peggiore. Qualcuno dovrà pure riempire questo vuoto che provo di fronte alla dipartita di questa magnifica donna italiana.

L’Unità 10.04.12

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“Miriam Mafai la verità a ogni costo” di Lucia Annunziata

Miriam Mafai, morta ieri a Roma dopo una lunga malattia, era nata a Firenze nel 1926 e aveva vissuto una giovinezza antifascista a Roma nelle file del Partito comunista. Ha scritto per l’Unità , Paese Sera , Repubblica , ha diretto dal 1965 al ’70 la rivista “Noi donne” e tra il 1983 e l’86 è stata presidente della Federazione nazionale della stampa
Lasciatemi innanzitutto dire che Miriam Mafai morta ieri a Roma, a 86 anni, dopo una lunga malattia – aveva una risata alla quale era impossibile sfuggire. Per tono e per entusiasmo. Cominciava con un urlo e gorgogliava via, riempiendo l’intera stanza, e, se c’erano più stanze, tutto il resto della casa. Era un rito di saluto e di approvazione, e non c’era assolutamente nulla che più meritasse una di queste sue gloriose risate di un racconto, del disvelamento di un dettaglio, di un retroscena, di una notizia, insomma. Perché soprattutto e sopra ogni cosa – eccetto, naturalmente, i suoi figli, i suoi nipoti, le sue pronipoti e il suo Nullo, Giancarlo Pajetta – Miriam amava la notizia.

«Eh, questa è buona», era il suo intercalare, «questa bisogna scriverla». Militante appassionata, figura centrale del mondo esclusivo ed escludente che per lungo tempo è stato il Pci, pure, davanti a una notizia, non ha mai avuto nessun dubbio: bisognava scriverla. Non importa chi riguardasse, non importa quale sancta sanctorum violasse, «bisognava scriverla».

Riposava ieri, una esile sagoma, sul piccolo letto della sua stanza, una semplice rete, un materasso sottile, lenzuola bianche. Uno spazio spartano, al centro di una casa piena di libri, dominata dalla opere di suo padre e sua madre, grandi artisti della Scuola Romana. Questo mix di storia, cultura e austerità illustrava il mondo che Miriam e i comunisti della sua generazione avrebbero voluto. E che non hanno mai visto, salvo nelle loro ostinate convinzioni.

Oggi vi diranno tutti che la Mafai è stata una figura femminile importantissima. Lo è stata certo. Ma lei si sarebbe fatta una delle sue risate a ritrovarsi nella parte femminile dell’elenco della storia. Quella generazione lì ha visto e segnato infatti tante più cose della differenza di «genere».

Miriam nasce a Firenze, nel 1926. Figlia di una coppia di noti artisti italiani del XX secolo, Mario Mafai e Antonietta Raphael, ha una giovinezza antifascista a Roma nelle file del Pci. Separata con due figli, negli Anni Sessanta incontra il compagno della sua vita, il «ragazzo rosso» Giancarlo Pajetta con cui condividerà trent’anni. Scrive per l’ Unità , è direttore di Noi donne dal 1965 al 1970, inviato speciale di Paese Sera , e negli Anni Settanta è nel gruppo di testa di Repubblica . Dal 1983 al 1986 è presidente della Federazione nazionale della stampa.

La sua vicenda dunque si intreccia di sicuro con quella delle donne italiane, alle quali ha dedicato anche tanto lavoro storico, fra cui la migliore biografia collettiva al femminile del nostro paese, Pane nero. Donne e vita quotidiana nella seconda guerra mondiale (Mondadori, 1987). Lei è parte, del resto, di un formidabile universo di donne che scrivono: colpisce oggi guardarsi indietro e ricordarsi che negli Anni Sessanta-Settanta il giornalismo italiano conta su firme come la sua, quella di Rossana Rossanda, Luciana Castellina, Oriana Fallaci, Lietta Tornabuoni, tanto per citarne solo alcune.

Eppure, ripeto, iI suo merito maggiore, almeno a mio parere, non è quello di aver dato voce alle donne. Miriam, con il suo tipo di giornalismo, è stata uno degli intellettuali che hanno segnato il lungo passaggio che, nel crinale decisivo degli Anni Settanta, ha portato il Partito comunista italiano da organizzazione inquadrata in una autoritaria esperienza internazionale a forza della democrazia.

Per la Mafai il giornalismo era un’arte laica, che non guarda in faccia a nessuno, che ha il proprio centro nel culto della verità a ogni costo, anche quando la verità va contro le opinioni proprie, le banalità precostituite, l’interesse e il conservativismo del proprio gruppo e del proprio ambiente. Provate a chiamare questo ambiente Pci, e capirete quanto queste sue inclinazione e convinzione siano state profondamente rivoluzionarie.

Consiglio di rileggere oggi due suoi libri: Dimenticare Berlinguer. La sinistra italiana e la tradizione comunista (Donzelli, 1996) e Botteghe Oscure, addio. Com’eravamo comunisti (Mondadori, 1996). Vi ritroverete la Mosca della paura, le esitazioni dei leader, i giudizi sereni ma duri su un Berliguer che cambia approccio pressato dalla comprensione che il mondo gli cambia sotto i piedi rapidamente, e vi troverete un giudizio non formale sul condizionamento che rimane sulla sinistra tutta dalla scelta del «compromesso storico». Vi troverete anche un inusuale ritratto dell’attuale presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, e tutti gli errori e i limiti di comprensione di una classe dirigente spesso da lei giudicata non adeguata, proprio in virtù del proprio passato comunista, per entrare nel nuovo mondo.

Senza di lei, i suoi articoli e i suoi libri, oggi alla sinistra e alla nostra storia mancherebbero, insomma, pagine fondamentali di «verità». Per chi è giornalista oggi, è una lezione di indipendenza in cui vale ancora la pena di credere.

La Stampa 10.04.12