attualità, memoria

"Miriam Mafai, una vita in trincea tra giornalismo e battaglie civili", di Eugenio Scalfari

Se n´è andata una ragazza. Una vecchia e grande ragazza che ha combattuto battaglie civili per tutta la vita, volontaria, militante, giornalista e soprattutto persona. Con allegria. L´allegria di chi sa di compiere un dovere e di esprimere in quel modo il suo amore verso gli altri. Senza dimenticare l´amore verso se stessa che si chiama dignità.Insieme a tanti altri sentimenti intensamente vissuti, Miriam Mafai aveva nel sangue anche la capacità e la voglia di comunicare; il giornalismo per lei fu dunque una passione e una vocazione prima ancora che una professione. Una passione che favorì l´incontro tra la sua militanza di parte e lo sforzo di capire le ragioni degli altri che è la pre-condizione per il dialogo senza pregiudizi e quindi la possibile sintesi che assicura la convivenza sociale al tempo stesso dialettica e dinamica.
La conobbi nell´ottobre del 1975. Ero nel mio ufficio all´Espresso in via Po 12 a Roma, quando il telefono squillò e una voce femminile mi chiese: «Lei è Scalfari? Sono Miriam Mafai. Vorrei vederla, è possibile?». Non c´era nessun imbarazzo, nessuna esitazione in quella voce, ma sicurezza e simpatia. Ci incontrammo il giorno dopo. Mentre ci salutavamo la guardai con curiosità per cogliere qualche eventuale somiglianza con suo padre e sua madre, due grandi artisti nella storia della pittura moderna. Aveva qualche cosa dell´uno e dell´altra ma soprattutto quel volto di allegria, simpatia e intelligenza che ha conservato per tutta la vita, ancora fino a poche settimane fa quando già il male aveva scavato dentro di lei il solco dal quale alla fine la vita è volata via.
Ci siamo subito dati del tu. Mi disse: «”Del giornale che vuoi fare so già qual è il tuo progetto, il resto lo conoscerò mentre lavoreremo”. “Ti dovrai dimettere da Paese Sera, ti dispiace?” rispose: “L´ho già fatto ieri” “prima che ci parlassimo” “non avevo dubbi”».
Lei era fatta così, era una donna decisa, emancipata ma legatissima alla famiglia e al suo compagno che chiamava Nullo col suo nome di battaglia dell´epoca della Resistenza. Era Giancarlo Pajetta. Quando lui morì, per la prima volta vidi un velo di tristezza sul suo viso. «Se n´è andata metà della mia vita» mi disse. Ma l´altra metà era così ricca di intelligenza e di motivazione da compensarla di quella perdita e di quel ricordo che ha portato nel cuore per tutto il resto della sua vita.
Per Repubblica è stata una presenza costante di primissima fila. Se ne va nello stesso arco di pochi mesi in cui l´hanno preceduta D´Avanzo, Tutino e Bocca.
In ricordo la sua intelligenza e la sua allegria.

La Repubblica 10.04.12

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“Le tensioni ideali di un´amica schietta”, di GIORGIO NAPOLITANO

Partecipo con profonda commozione al dolore dei figli, della sorella Simona e di tutti i famigliari, e al cordoglio del mondo giornalistico e politico per la morte di Miriam Mafai. Con lei scompare una delle più forti personalità femminili italiane degli scorsi decenni: erede di un´alta tradizione intellettuale e artistica famigliare, si era impegnata giovanissima nella Resistenza romana, affermandosi presto come giornalista di grande talento e combattività, e quindi come significativa scrittrice in stretto legame con il movimento per l´emancipazione delle donne e con l´attività politica della sinistra.
Lo spirito critico con cui aveva ripercorso le sue scelte ideali era parte di un temperamento morale alieno da convenzionalismi e faziosità. Nel ricordare la schietta amicizia che ci ha così a lungo legati, mi resta vivissima l´immagine della sua umanità appassionata, affettuosa ed aperta.

La Repubblica 10.04.12

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“Mestiere e passione Miriam era fatta col fil di ferro”, di Ezio Mauro

Sognava, interpretava una sinistra in grado di parlare all´intero Paese e infine di comprenderlo tutto. Miriam era fatta col fil di ferro. Come una parte importante della sua generazione, come “Nullo”, il suo compagno Pajetta, come quelli che davvero ne hanno viste tante, e raccontandole hanno imparato a capire tutto, traendone persino una lezione.
Fil di ferro e una grazia tutta sua, particolare. Una sorta di nobiltà dell´esperienza, dove si uniscono le tracce dell´impegno politico e i segni forti della passione giornalistica, del “mestiere” che aveva portato Miriam per anni in giro per l´Italia e per il mondo, cercando sempre di capire.
In questo, le pinze del giornalismo e della politica per lei lavoravano nello stesso modo. L´importante ogni volta era comprendere, lasciarsi sorprendere e stupire dalla forza della realtà, riuscire a penetrare le vicende della grande cronaca senza pregiudizi, senza interpretazioni preconcette.
Anche nella discussione era così. Abituata al rituale delle grandi assemblee, al giro retorico della sinistra, Miriam sapeva ascoltare, era capace di accompagnare l´argomentare del suo interlocutore, poi senza parere spostava la traiettoria del ragionamento verso un punto d´approdo diverso, sorridendo, senza polemizzare.
Sognava – interpretava – una sinistra riformista, capace di risolvere definitivamente i nodi della sua storia, forte della responsabilità di governare, in grado di parlare all´intero Paese e soprattutto di comprenderlo tutto, a partire dalla sua identità finalmente risolta e chiara, non camuffandola.
Era una tensione ideale, di vita, e anche una ricerca intellettuale, sottotraccia sempre nel suo giornalismo, mai cinico, mai disincantato e tuttavia mai ideologico. Non sopportava più quella cappa, cercava e offriva vie d´uscita, libere e autonome.
Dopo tanti anni, univa tutto questo con un sentimento profondo del giornale, una saggezza a disposizione di tutti, una cura costante per Repubblica. Ne parlavamo al mattino, quando bussava alla porta prima della riunione di redazione, e raccontava un film che aveva appena visto, un libro, un´assemblea di donne. Alzava l´indice quando si appassionava di più, come a richiamare l´attenzione, a sottolineare l´importanza della cosa. Fino all´ultima telefonata, pochi giorni fa, con la stanchezza definitiva nella voce: ricordati, sei fatta col fil di ferro. «Lo so, conto di farcela anche questa volta». Oggi ci manca la sua forza serena, il suo giornalismo pulito, forse più di ogni cosa l´intelligenza del suo sorriso.

La Repubblica 10.04.12

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“Dalla politica al giornalismo La vita ad occhi aperti della ragazza rossa”, di Nello Ajello

È morta ieri nella sua casa di Roma Miriam Mafai, giornalista e scrittrice. Aveva 86 anni. Chi ne abbia seguito nel tempo gli scritti sull´attualità politica, e in particolare abbia scorso giorno per giorno i suoi interventi sulla Repubblica potrà cogliere nell´evento un senso particolare: quasi suggerisca, a suo modo, un mutamento d´epoca. A Miriam in verità, come a pochi altri nostri colleghi, la qualifica di giornalista andava stretta: la sua testimonianza poteva assumere i toni più alti e coinvolgenti. Se ne erano accorti i moderatori dei talk-show televisivi, che da tempo la convocavano sapendola capace di cavare dai fatti una sostanza inedita. La sua lunga anagrafe aveva saputo evolversi in un´esperienza non convenzionale. I suoi sorrisi privi di sarcasmo riuscivano talvolta a liberare la cronaca dalle sue ombre.
Senza mai atteggiarsi a personaggio, la giornalista nostra amica ha saputo raccontarsi con generosità, mescolando vita e lavoro, imparando a far sfociare, dall´interno di entrambi, entusiasmi, sussulti, angosce e letizie sornione. «Ho visto i massacri di Sabra e Chatila», ha raccontato nel volume La mia professione curato per Laterza, nel 1986, da Corrado Stajano. «Ho visto la strage di via Fani e quella della stazione di Bologna, il cadavere di Moro e quello di Sindona». Ancora poche settimane fa, «in limine mortis», Miriam restava convinta, parlandone con qualche amico, che «il mestiere vero s´impara in cronaca»: a partire dalla «buona cronaca nera», di cui vigeva il culto in una delle testate per lei più formative, il paracomunista Paese Sera.
Nel saggio, appena citato, sul proprio lavoro si seguono d´altronde, molto da vicino le avventure e i traumi del cronista (della cronista, nel caso, ma non era nel suo stile fare distinzioni). Lui – lei – mandato in casa della «mondana assassinata», doveva «mettere il piede in mezzo alla porta» per infilarsi nella scena, e sfiorava la felicità se s´impadroniva della foto d´una vittima. Per modestia, Miriam aggiunge che una simile vetta del mestiere era di rado riuscita a varcarla. «L´unico mio scoop fu quello di scoprire l´esistenza della moglie divorziata d´un politico che dirigeva la campagna contro il divorzio. Andai a casa sua e la intervistai. Ma non mi diede la fotografia del matrimonio».
Furono difficili gli esordi del segugio di cronaca chiamato Miriam. Figlia di due artisti di larga fama, Mario Mafai ed Antonietta Raphaël, ebrea per metà (sua madre, lituana, era figlia del rabbino di Kaunas), lei prende parte alla Resistenza: nemmeno ventenne, è staffetta partigiana nella capitale occupata. Comincia poi come funzionario del Pci in un Abruzzo ancora semidistrutto dalla guerra. È giovane, sposata da poco. Essendo a sua volta suo marito un funzionario del Pci addetto al lavoro internazionale, lo segue a Parigi nel 1957, con due bambini, Sara e Luciano, che intanto le sono nati. Maria Antonietta Macciocchi, conosciuta durante la Resistenza, la fa diventare corrispondente di Vie Nuove con un modico compenso «a borderò». Primo servizio: un resoconto della visita d´Elisabetta d´Inghilterra all´Eliseo. Articolo che a Macciocchi non piace: poche notizie. Ma rientra in quello stesso arco di tempo uno dei pochi lavori che Mafai non disdegni di rievocare quasi come uno scoop. Appena incrociato a un congresso del Psi un giovanotto che la colpisce per la sua disinvolta destrezza, scrive: «I dirigenti socialisti di domani saranno come questo giovane». Una profetessa? È arduo lesinarle la qualifica, poiché quello spigliato congressista si chiama Bettino Craxi.
Nel ´58 Miriam è nella redazione romana dell´Unità. Lo stipendio è magro, la qualifica: impiegata. Nel ´61, è redattrice parlamentare. La vediamo in una di quelle scene che lei sapeva descrivere con ilare compunzione: «Ho un vestito grigio, un filo di perle al collo, un sorriso un po´ idiota sulle labbra e – orrore – i guanti». È in una sala del Quirinale. Le consegnano il premio Saint-Vincent per un servizio sul funzionamento – o le disfunzioni – della Camera dei deputati.
E poi? Appartiene a una fase più recente il suo lavoro a Repubblica, svolto fin dai “numeri zero” del 1975-´76. Ed eccomi a cercare nella memoria i momenti in cui Miriam mi è parsa, scrivendo articoli o libri, al suo meglio. Ecco un servizio in cui ritrae il Natale del 1953 in casa sua, a Roma, lo si rilegge con il piacere che procura l´arguzia quando lotta con l´emozione. Gli ospiti di quella notte, ricordati nel pezzo, sono tali e tanti che sua figlia (ricorderà l´autrice) le domanda: «È possibile, mamma, che non ci fosse neppure uno qualsiasi, in quella cena? Solo celebrità?».
Quando accennava ai suoi figli, appunto, Miriam – giornalista politica, e di politica ammalata, compagna di vita per trent´anni di Giancarlo Pajetta, dal 1962 fino alla morte di lui, nel 1990 – inclinava a un tenero “mea culpa”. «Sono stata una madre frettolosa, assente, nervosa», si legge in un volume a più mani al quale collaborò nel 2002, Il silenzio dei comunisti. A un altro tipo di figli, quelli veri o metaforici dei dirigenti del Pci, la scrittrice aveva già riservato sei anni prima una descrizione nel suo libro Botteghe Oscure addio!.
Sono i primi mesi del ´68. C´è, nella sede del Pci, un´affollata riunione di studenti. Il responsabile del settore scuola, Alessandro Natta, ha appena terminata la sua relazione e dal palco della presidenza qualcuno dichiara: «La riunione è conclusa». «Un momento», esclama uno dei giovani. «Ciò che ha detto il compagno Natta non mi convince affatto». Si tratta, per chi ha pratica di quei rituali, di una prima volta. Quel sessantottino, cronista di se stesso e della propria generazione, ha messo davvero il piede nella porta. Lo mostra l´istantanea scattata da Miriam. «Dopo di allora non ci sono stati più doveri o impegni particolari per i figli del Pci».
Il giornalismo di Mafai, il suo “metodo”, si prolunga insomma nei libri a sua firma. È la loro risorsa. Di un realismo ripulito da ogni lusinga letteraria trabocca Pane nero, dedicato alla dura vita delle donne abruzzesi durante la guerra. Se mi accade di pensare a Pietro Secchia – eroe politico un po´ ribaldo, un po´ penoso – lo rivedo come lei lo presentò nell´Uomo che sognava la lotta armata (1984): «Di media statura, una folta capigliatura nera, gli occhi allucinati dietro gli occhiali». Mi capita di leggere spesso qualche capitolo del Lungo freddo, la biografia dedicata da Miriam nel 1997 a Bruno Pontecorvo, e scritta con una partecipazione così naturale da non sfociare mai nel pathos, tingendosi piuttosto di “giallo”.
Se prendo in mano Dimenticare Berlinguer (1992) mi soffermo sull´immagine di quel personaggio fissata in una foto d´epoca. Così l´autrice la ridipinge, quella foto: «Chiuso in una giacca a vento bianca, al timone di una barca a vela, il viso appena sollevato contro il vento che gli scompiglia i capelli. Un uomo sollevato da ogni preoccupazione, forse perfino felice».
Sul presente e il futuro della sua professione non sempre Miriam si mostrava fiduciosa. A tratti, l´indipendenza dei giornali le appariva una chimera. La si sentiva esclamare: «Importante è vivere ad occhi aperti». Meno male che i suoi lo sono sempre stati.

La Repubblica 10.04.12

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“Quelle sue battaglie femministe che hanno fatto la nostra storia”, di Concita De Gregorio

Dalle lotte civili all´emancipazione, è sempre stata un modello per le nuove generazioni. Curiosa di tutto, ha saputo raccontare un´epoca senza nostalgia ma cercando di far capire il valore delle conquiste. Le mani nodose sempre a disegnare nell´aria, i capelli corti e i maglioni larghi e morbidi. Diceva spesso: “Alle compagne si dava la parola ma poi nessuno le ascoltava”. «Per anni ci siamo trovati a combattere le stesse battaglie e a soffrire per le stesse idee in due partiti diversi». Ricorda Giuliano Amato che «Miriam era sempre inquieta, sempre alla ricerca di risposte non prefabbricate, profondamente convinta della non predeterminazione della storia, una autentica riformista». Per la mostra dedicata alle donne nell´ambito delle celebrazioni del 150°, «chiedemmo a lei di selezionare le protagoniste del periodo. Lo fece nel migliore dei modi, mettendo l´una accanto all´altra Anna Kulisciov e Francesca Cabrini. Anche per questo la rimpiango».
E voi ragazze che ne dite?, chiedeva anche da ultimo Miriam. Noi ragazze abbiamo quarant´anni, ridevamo. «Se è per questo qualcuna anche cinquanta», rispondeva lei. «Comunque, insomma, voi ragazze che ne dite?».Dell´ultimo film della brava libanese, del primo romanzo della giovane Paola Soriga che le era piaciuto tanto, ma tanto. Del linguaggio di Elsa Fornero e delle sue proposte, di cos´è più la classe operaia, della politica che non ne vuole sentir parlare più nessuno, della corruzione dei tesorieri, dei bambini che nascono sempre di meno e quando nascono sono figli di stranieri ma se sono nati qui saranno ben italiani, no?, voi ragazze che ne dite?, e di questa riforma di legge elettorale che mi sembra un po´ farlocca e di questo libro di testo per le medie e della prostituzione intellettuale dei giornalisti pagati con ingaggi da sicari, quelli che poi se ne vanno con liquidazioni miliardarie, non è forse peggio quella della prostituzione dei corpi? Almeno uguale, diciamo, voi ragazze che ne dite? La facciamo una campagna di verità per raccontare la prostituzione cosa sia davvero? Che tempo difficile vi è toccato povere ragazze, che tempo strano. Chi l´avrebbe detto che noi vecchie avremmo visto la macchina correre a motori indietro. Pensavamo di aver fatto il grosso del lavoro, tutta quanta la fatica e invece no, ecco: ecco che ce n´è d´avanzo anche per voi.
Per noi ragazze Miriam, che ogni volta starla a sentire era una festa, incarnava la storia che ci ha portate fin qui. Fisicamente, proprio. Le mani nodose sempre a disegnare nell´aria, i capelli corti e i maglioni larghi, morbidi, maglioni di qualcun altro. Gli occhi grandi dietro gli occhiali, quel modo così marcato di dire le “t” e le “d”, quel modo di fare sì con la testa quando stavi dicendo qualcosa che pareva convincerla e poi il sorriso con cui all´improvviso, sempre facendo sì ma più lentamente, diceva “però devi pensare anche che”, e smetteva di annuire, e in quattro parole ribaltava il tavolo con le carte sopra, il ragionamento, la conclusione, la premessa. Quel modo di dissentire annuendo e di annuire nel dissenso, di fare molto dando l´impressione di non far nulla, di fare piano. «Quando ero adolescente», cominciavano spesso così le sue frasi e non finivano mai come ti saresti aspettata. Quando ero ragazza le donne non potevano fare il medico né il magistrato, non potevano fare il segretario comunale e non penso che alle donne gliene importasse un granché di fare il segretario comunale ma insomma, non potevano insegnare filosofia, ci pensate, e ora il problema è che non la vogliono studiare la filosofia. Sono tanto migliorati i tempi per le donne, diceva, e poi tanto peggiorati. Perché certo se vuoi fare la velina o la escort sei naturalmente libera di farlo ma ritengo che sono state le donne che hanno fatto scelte diverse da quelle, nel passato, a dare a tutte tante possibilità. E credo che il tema oggi sia tornare a fare un buon uso di queste possibilità: offrire alternative. Così, diceva e dicendolo le si leggevano negli occhi i nomi delle donne a cui pensava, delle strade camminate insieme a loro, dei cartelli tenuti alti alle manifestazioni, degli scioperi fuori dalle fabbriche, i picchetti, il femminismo, la maternità, i nipoti, le bisnipoti. Le sembrava di essere stata una madre frettolosa. «Il giorno più bello della mia esistenza è stato quando sono nate le mie pronipoti, due gemelle». Due nuove donne minuscole per un tempo ancora da venire.
Teneva a portata di mano, a casa, i libri sulla storia del Pci e Irène Némirovsky, negli scaffali qualche numero dei giornali in cui aveva lavorato – Vie Nuove, l´Unità, Noi donne, Paese Sera – prima di arrivare a Repubblica dove è rimasta fino alla fine. Alla fine degli anni Ottanta la ricordo presente, ogni mattina, alla riunione di redazione. Interveniva su tutto, aveva sempre uno sguardo solo suo sulle cose, come se le vedesse tutte da un altro punto di vista: da molto vicino, da molto lontano, di lato. Noi giovani la ascoltavamo come un oracolo, naturalmente, ma lei era bravissima a domandare, finiva sempre per ascoltare noi. Ricordo la prima volta nell´ascensore piccolo, quello da due persone: sei fortunata seguire la politica, mi disse, ci vogliono donne a raccontare la politica, a mostrarla per quello che è. Avrebbe voluto fare la storica, è stata una delle più grandi giornaliste del secolo. Diceva, ed aveva ragione, che per imparare a raccontare la realtà bisogna fare esperienza sulla cronaca, in specie sulla cronaca nera. Era stata la lezione di Paese Sera. Poi diceva che bisognerebbe sospendere il giudizio fino a che non si sia sicuri di aver capito, cosa che può succedere molto tardi. Gliel´ho sentito ripetere l´ultima volta, proprio con queste parole, nei giorni di Eluana Englaro. Aveva conservato, onnivora, un orecchio speciale per tutto quel che riguarda le donne, cioè per tutto. Quando uscì Pane nero dette a tutte noi una lezione di sobrietà, di rispetto, di passione: raccontava quegli anni senza nostalgia né retorica, stava in questo tempo e ne conosceva le radici. In Parlamento stava fiera e completamente immune dalla tentazione del male minore. Come Irene Brin: «vorrei arrivare a destinazione povera e senza compromessi». Senza denaro e senza macchia, percorso netto. Come Camilla Cederna era folgorante nella battuta, caustica col potere, ma più e prima di tutte le altre ironica e leggera, anche, sebbene nel solco della tradizione politica più severa e per le donne più dura che ci sia, quella del Pci: «alle compagne si dava la parola ma poi non si ascoltava», rideva. Lei si era fatta ascoltare, lo aveva fatto abbassando la voce anziché alzarla. Sobria, bella, indulgente e intransigente, generosa con le donne più giovani come così di rado accade, disponibile a condividere il pensiero e la scrittura, mai certa di aver detto la parola definitiva, pronta ad ascoltare quello di nuovo che c´è con curiosità intatta e senza la presunzione di chi c´era prima, è arrivato prima, l´ha detto prima, ha faticato di più. Piena di dubbi, maestra nell´articolarli. Nemica dell´ipocrisia, pronta a divertirsi sempre. Seduta su quella poltrona, la storia e i quadri dei suoi genitori, dei suoi amici alle spalle, Miriam era lì a dirci con la sua sola presenza il punto esatto da dove partire. Speriamo di riuscire un giorno a consegnare alle sue magnifiche pronipoti gemelle un paese almeno uguale a quello che lei ha lasciato a noi. Senza smettere un giorno di marciare, ricordando il suono del suo passo. Forza ragazze, è suonata la sirena. Cambia il turno, al lavoro.

La Repubblica 10.04.12